Sezione  iniziatica

del

Centro internazionale di Psicodialettica


Fondatore: Luciano Rossi 

Responsabile  del  sito: Luciano Rossi 


Il sentiero quinario





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Il sentiero quinario dell'individuazione

di

Luciano Rossi e Roberta Rossi  

(per gentile concessione di Psiconline che lo pubblica all'indirizzo http://www.psiconline.it)

 

1

Sono tanti, in terapia, come ben sappiamo, i compiti che ci si presentano, gli obbiettivi da perseguire, le sintesi da operare. Ad uno di questi compiti abbiamo dedicato negli ultimi anni un ampio spazio nel nostro lavoro di ricerca, assieme ad uno sparuto gruppo di psicologi e di esperti d'altre discipline[i].

Il compito in questione è quello di far evolvere due posizioni tipiche che un analizzando può presentare nel suo percorso analitico: la simbiosi e l'opposizione. L'analizzando, nel nostro modello, dovrebbe attraversare tre fasi e compiere due atti di passaggio. I due passaggi sono i seguenti: primo, effettuare, non a scopo difensivo ma a scopo gnoseologico, alcune tipiche proiezioni, e, secondo, addivenire al ritiro e all'integrazione delle stesse. Attraverso un lavoro proiettivo si passa dalla simbiosi all'opposizione. Attraverso il ritiro delle proiezioni si passa dall'opposizione alla sintesi, alla conciliazione. Per individuarsi, per raggiungere il proprio Sé, l'Io deve prima staccarsi dal Non-io, proiettandolo fuori di sé, e poi riappacificarsi con lui, reintegrandolo.

Il nostro studio si rivolge dunque ad un tema di fenomenologia dello spirito, ma non fa solo questo; mette anche a punto una tecnica psicoanalitica che segue un processo scandito da momenti precisi e si avvale di un setting con regole proprie, adatte al processo.

Ma forse ci spieghiamo meglio se illustriamo con ordine le tappe di questa ricerca.

Nel 1992 usciva Negazioni[ii]. Lo ricordiamo perché, nel sesto capitolo di quell’opera, erano state illustrate per prima volta, sia pure in modo ancora sommario e non articolato, le caratteristiche di quella materia che abbiamo voluto chiamare psicodialettica.  È questa, come fa intuire il suo nome, una psicologia dialettica che propone, alla speculazione filosofica e alla prassi terapeutica, alcuni nuovi strumenti, teorici e pratici. 

Nel 1993 e 1994 erano stati poi redatti i due articoli fondativi della nuova disciplina.  Essi furono letti in sede filosofica, in occasioni di convegni sulla filosofia e la scienza dell’artificiale.  Ancora inediti tuttavia fino al 1999, i loro titoli sono stati rivisti per una successiva pubblicazione e sono diventati rispettivamente: L’uno per il primo articolo, prevalentemente teorico, e L’altro per il secondo articolo, più legato alla prassi terapeutica. 

Sebbene il linguaggio di questi articoli originali sia risultato gradito ai filosofi di professione, essi apparvero però, sin da subito, troppo sintetici e specialistici per gli psicologi, non troppo adusi, ovviamente, ai termini hegeliani di cui essi sono ampiamente tributari.

Si è perciò deciso (1999), per la loro pubblicazione[iii], di mettere entrambi gli articoli in appendice nella loro forma originale, e di proporre invece al lettore meno aduso al linguaggio filosofico, nel corpo principale del volume (capitoli primo e secondo), un loro commento interpretativo (o divulgativo se preferite) e d'ambientazione psicologica, per rendere più facile agli studenti[iv] la loro lettura. 

Nel 2000 si aggiunge poi a questa ricerca anche una tesi di laurea[v] che si pone il compito, inedito, di passare in rassegna non solo gli antecedenti storici e culturali di questo viaggio archetipico, ma anche di porre le prime basi per un setting appropriato a questo processo.

Siamo così giunti alla fase attuale della ricerca, che passiamo ora ad esporvi.

 

2

La coscienza non è un'entità statica, ma qualcosa che diviene, che si evolve[vi]. C'è una coscienza iniziale, che ci è data dalla natura, e una coscienza finale, la cui costruzione ci possiamo porre come compito. La natura della coscienza iniziale è fortemente orientata alla sola conoscenza sensibile. Ma questo naturale-dato sente fortemente la sua inadeguatezza e chiede per sé una diversa "natura"[vii]; e, per realizzarla, pone in opera da se stessa, per completare il compito della creazione, un ulteriore sforzo naturante[viii]. La coscienza naturale ha insomma un forte desiderio: quello di adeguare la propria imperfetta natura al bisogno di evolversi.

La propria natura naturata, così com’è, appare insufficiente alla coscienza iniziale, non adeguata ad una vita culturalmente evoluta di cui già la coscienza intuisce la concreta possibilità[ix]. La coscienza desidera essere di più. Più ampia, più evoluta.

L’adeguamento della coscienza naturale al suo proprio desiderio è uno sforzo naturante umano[x] e lo si ottiene, nel nostro modello, per il tramite della mediazione di un lavoro psichico, di un’opera trasformativa. Un esempio adeguato di tale lavoro psichico è senz'altro quella particolare ristrutturazione della coscienza operata dalla psicoterapia dialettica.

Il termine dialettica è inteso qui in senso hegeliano, ossia di processo costituito da cinque elementi.

Come il lettore ricorderà, lo schema generale della dialettica hegeliana è il seguente:

Tesi >> Separazione >> Antitesi >> Riunificazione >> Sintesi

Per uscire da una fase ed entrare nella successiva, la coscienza deve negare qualcosa di quella fase. I suoi movimenti sono negazioni delle fasi che la coscienza stessa abbandona. Non solo; la seconda negazione è anche negazione della negazione precedente.

Nel caso della psicodialettica le fasi e i movimenti sono i seguenti:  

 Condizione naturale  >>  1^ NEGAZIONE   >>   Condizione di transizione   >>   2^ NEGAZIONE   >>  Condizione trasformata   

                                   

 Facciamo un esempio tratto dalla religione; nel caso della tradizione biblica lo schema diventa:

Eden >> CADUTA >> esilio >> REDENZIONE >> regno (Nuovo Testamento)

 

Per illustrarlo ricordiamo quanto si dice in Psicodialettica[xi]:

 

Adamo visse la prima fase della sua vita abitando con Dio, nutrendosi dei doni della sua dimora, attingendo alla sua conoscenza.  Successivamente si ribellò, fu cacciato, se n’andò dalla casa di Dio, rinunciando al cibo del padre e alla conoscenza altrui; se n’andò per cercarsi il proprio cibo e per darsi la propria legge.  Quando la legge del Figlio fu matura egli poté nuovamente riunirsi al Padre, il quale lo perdonò per la sua ricerca indipendente e redasse per lui un nuovo testamento restituendogli la sua eredità.  Il distacco per opera della spada fu la prima negazione; la riunificazione per opera della croce fu la seconda.  In questo esempio, sono la spada e la croce a rappresentare la duplex negatio.

  

Per quale motivo Adamo poté accettare la caduta in una condizione apparentemente più dolorosa? Cosa potrà spingere un figlio ad allontanarsi dalla casa paterna? In Psicodialettica si dice ancora[xii]:

 

Quando l’uomo riceve, ancora in-fante, ossia ancora incapace di verbo, la legge del padre, gli viene infatti consegnata in dote terrena, dalla cultura, dalla famiglia e dalla società, affinché ne faccia una re­ligione per­sonale, la modalità del pensiero povero.  Si tratta di un pensie­ro unidireziona­le, lineare, sem­pre uguale a se stesso; di un modo già dato una volta per tutte.

Tale legge impedisce al figlio di ospitare pensieri dotati di “senso ulteriore” e di accendere in sé un animo capace di darsi una legge propria; una legge che vada oltre il pa­dre, che sia fondata appunto sul procedere al di là di lui, dopo aver ac­colta, ed elaborata, la sua eredità di senso.  La legge del pa­dre, così com’è, secondo la Rivelazione, non conse­nte l’uscita dalla prigione costituita dalla presenza di un sen­so limitato del mondo e di una dotazione ristretta di parole.  Nonostante la sua apparente fondatezza e solidità, porta a risultati miopi, confusivi ed avvilen­ti.  Consis­te principa­lmente in una re­strizione di senso all’interno di limiti conve­nuti e nel­l’im­possibili­tà di cogliere, dentro di sé, quell’ulteriorità del ve­dere, che guarda “al di là del codice proposto [... e che] offre all’individuo la possibilità di de-situarsi [e] di oltrepassare la situazione [ingabbiante] che lo ospita e lo costringe” [Galimberti, U., 1984, p.81].

L’uomo ingabbiato è povero di senso, ma anche di parole.  Il suo vocabolario non è capace di mettere in circolo “nuovi sensi, ma ripete ininterrottamente la se­quenza dei segni noti” [Galimberti, U., 1984, p.83]. Non sorgono in lui nuove parole (terapeutiche), né il senso delle altrui vien colto, perché queste avrebbero il potere di rompere il regno dogmatico, che lo ha fondato e lo àncora, di smuovere il "quo ante", che lo stabilizza e lo inchioda, di spezzare l’incantesimo ipnotico delle parole già date che lo riposano e l’impigriscono.   Così non vi è nessuna dialettica. La dialettica non può decollare con la sua prima negazione.

La modalità del pensiero povero è forte e stabile, difficile da scalzare e da capovolgere.  Viene da chiedersi il perché. Quale tenace viscosità la tiene sempre uguale a se stessa?

 

Lo schema si può allora perfezionare nei suoi contenuti meno formali e diviene così:

 

Unione confusa, simbiotica (l’uno e l’altro fusi) >> separazione >> opposizione (l’uno e l’altro separati ed opposti) >> ritorno, annullamento della separazione (attraverso l’interpretazione) >> sintesi, condizione conciliata (l’uno e l’altro riuniti, ma, questa volta, nella distinzione)

                    

Il modello è chiaramente dialettico, ma non solo: è anche ermeneutico, in quanto uno dei suoi cinque momenti è un’interpretazione. Interpretazione di che cosa? Dei segni concreti del mondo, che altro non sono che quel non-io che proviene da noi, e che abbiamo posto fuori di noi, ossia le nostre proiezioni. Interpretazione, in questo caso, è affermazione che il proiettato è un IO, anziché un NON-IO, come il soggetto credeva.

La presenza dei segni concreti del mondo all’interno del modello dialettico rendono inoltre la nostra speculazione una possibile prassi, prassi che si concretizza principalmente nell’interpretazione di particolari proiezioni che hanno scopo precipuamente evolutivo.

L’interpretazione delle proiezioni è il riconoscimento di ciò che ci appartiene al fine di riprendercelo e diventare completi, integrati.

Il trasformato nasce sempre da due negazioni: in questo modello le negazioni sono l'una proiettiva e l’altra interpretativa.

Prima si proietta qualcosa di sé fuori di sé, fuori dalla pelle psichica, deponendolo sui segni tangibili del mondo come su uno schermo (Prima negazione).

Successivamente attraverso il riconoscimento, o interpretazione, della separazione avvenuta si smaschera, si nega, l’operazione precedente (Seconda negazione).

Il soggetto è libero nella sua costruttività, ma abbisogna dello schermo del mondo, ossia dell’altro, per la sua opera proiettiva e interpretativa.

L’uomo, col suo barattolo di vernice, dapprima colora il mondo; poi vede il mondo colorato e non ricorda più d’esser stato lui a farlo così. Infine riconosce la sua opera. Gli occorreranno due negazioni:

Negazione proiettiva (prima negazione) è credere che la vernice stesa sul mondo appartenga al mondo.

Negazione interpretativa (seconda negazione) è il riconoscimento che la vernice appartiene all’Io, che l’antitesi non è altro che la tesi, e che gli opposti coincidono.

L’uomo malato (non “cosciente”) non sa d’essere portatore di un difetto (che può essere, per la psicodialettica, vuoi un legame simbiotico, vuoi una separatezza oppositiva), perché, per esempio, ha posto (tramite la proiezione) il proprio difetto sull’altro. Dopo di che crede che sia l’altro ad essere difettoso. In quest’esempio l’uomo naturale è la tesi; l’antitesi è il suo difetto proiettato, o meglio il mondo col suo difetto addosso.

Quando il soggetto riconosce che una parte di mondo è sua, di fatto se la riprende. L’esser fuori consisteva nel non sapere che era sua.

Tale riconoscimento, tale interpretazione può essere fatta dal soggetto o può esser suggerita al soggetto dall’altro: il mondo, l’analista, il verniciato. Non fa alcuna differenza; è sempre il soggetto che alla fine deve farla sua.

Con l’interpretazione il soggetto torna ad essere unito com’era all’inizio, con una differenza fondamentale: la condizione di consapevolezza, di distinzione. Il cerchio sembra chiudersi, come nel seguente, nuovo, suggerimento grafico. Ma sappiamo che così non è, in quanto il punto di partenza era un naturale, mentre il prodotto finale è un trasformato, un artificiale.

La coscienza finale è un artificiale, spontaneamente o terapeuticamente raggiunto. Ma tale artificiale non può esser posto immediatamente ab initio. All’inizio esso non esiste, né può esistere. La coscienza finale è un compito raggiunto attraverso l’esperienza del lavoro e dello sforzo. 

I risultati di tale compito sono un diverso soggetto, un diverso mondo, una diversa intersoggettività (ossia una diversa relazione uomo-mondo). Il soggetto si ritrova mutato in un mondo mutato e in mutate relazioni.

Il diverso soggetto è disponibile al lavoro, il diverso mondo è disponibile al riconoscimento del lavoro, la diversa relazione è il contratto adulto-adulto che viene a sostituire quella fra padre e figlio.

Dunque è artificiale non solo la nuova coscienza finale, ma anche quel che necessariamente ne consegue: una società di adulti, di autocoscienze in relazione contrattuale fra loro.



[i] Ci siamo chiamati Centro Cepsid, ossia Centro internazionale di psicodialettica. Il Centro ha sede in Parma, con email luciano.rossi6@gmail.com. A chi, dopo aver conosciuto il nostro lavoro attraverso le pubblicazioni citate, intendesse far parte del gruppo di ricerca, è consentito prendere contatto con noi.

[ii] L. Rossi, Negazioni, Urbino, Quattroventi, 1992.  

[iii] L. Rossi, Psicodialettica, Urbino, Quattroventi, 1999.

[iv] Entrambi i titoli precedenti sono stati adottati dall'Università di Urbino, rispettivamente negli anni accademici 1993-94 e 1999-2000

[v] Roberta Rossi, La dialettica dell'individuazione, Cesena, 2000

[vi] Afferma Giacomo Rinaldi: " La coscienza non è un fisso e statico essere, astratta identità, bensì processo, essere che si nega come immediato e astratto per porsi come essere intrinsecamente concreto, negando in tal modo l'originale negatività della sua immediata astrattezza; in quanto processo la coscienza è dunque negatività, alterazione, scissione in opposti contraddittori ed esclusivi, ed è altresì doppia negazione, duplex negatio, ossia soluzione e riconciliazione della sua immanente contraddittorietà in una totalità concreta e finale".

[vii] L'uso delle virgolette è per significare che lo stato raggiunto dall'individuazione è uno stato che è più corretto definire umano piuttosto che naturale. Scrive, a questo proposito, Roberta Rossi: "Lo stato inconscio è dunque lo stato naturale. La spinta a divenire cosciente di sé, ad individuarsi, è invece (un artificiale, oseremmo dire,) conseguente ad un atto di volontà. Ricordiamo, a tal proposito, che Neumann definisce la tendenza individuativa come “il non naturale all’interno della natura”[vii]; è ciò che fa dell’uomo la specie eletta. In un certo senso, riferisce Neumann, tutta la storia dello sviluppo della coscienza è centrata sulla dialettica uomo-natura". 

[viii] Scrivono F. Adorno et A. (Manuale di Storia della Filosofia, Laterza, Pag 203): "Dalla natura di Dio procede dunque l'essenza e l'esistenza di tutte le cose e ogni loro attività [ ... ] Si definisce così chiaramente il rapporto fra natura naturante e natura naturata: la prima è tutto ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia l'insieme degli attributi che esprimono l'infinita sostanza, ovvero Dio in quanto è causa libera; la natura naturata è invece tutto quanto segue dalla necessità della natura di Dio o degli attributi, cioè tutti, cioè tutti i modi degli attributi di Dio in quanto considerati cose che sono in Dio [...] L'insieme delle singole cose costituisce dunque la natura naturata."

[ix] Cosa sia che, ad un certo punto, porta l'Essere a distaccarsi da sé, e potersi osservare, ci è ancora sconosciuto. Cosa consenta questa fondamentale capacità autoscopica dell'Essere è ancora oscuro. Fatto sta che un bel giorno l'uomo si guarda e ciò che vede è la sua condizione iniziale, che giudica insufficiente rispetto a quello che è il suo potenziale di crescita. Anche per Hegel era così: le certezze che la coscienza iniziale possiede, che prima di questo risveglio apparivano, alla coscienza stessa, ricche e piene, si rivelano invece le più povere e le più vuote; come ci riferisce il Verra (Introduzione a Hegel, Laterza, pag. 43), tutto si riduce a qualcosa di assai povero, una semplice cosa, un dieses, questa cosa. Ed è a questo punto che avviene il salto, dal naturale all'artificiale: l'uomo si identifica con questo potenziale di crescita in modo per così dire "volontario", anche se non ci è ancora chiaro se questa sia una volontà cosciente o un atto che risente ancora di una saggezza dal sapore inconscio.

[x] Da distinguere dallo spinoziano sforzo naturante divino.

[xi] Rossi, L., Psicodialettica, pag. 26

[xii] Ibidem, pag.17




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