TEMI DI PSICODIALETTICA a cura del Centro internazionale di Psicodialettica Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta
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La dialettica dell'individuazione |
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La dialettica
dell’individuazione di Roberta Rossi
“[...] come
sull’infuriante mare [...] siede in barca il navigante e sé affida al
debole naviglio, così siede tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di
tormenti, il singolo uomo, poggiandosi fidente sul principium individuationis”[1]. È con questa frase di Schopenhauer che iniziava la mia tesi di laurea sulla “Dialettica dell’individuazione”. Dialettica appunto; non processo o principio, come da un discorso su un materiale prevalentemente junghiano ci si potrebbe attendere. Un concetto
nuovo dunque? Sì; ma non perché di dialettica non si fosse mai parlato a proposito di Jung, ché anzi, come è ben noto, il concetto si è addirittura spesso sprecato, quanto piuttosto per il taglio abbastanza inedito che la mia trattazione ha inteso dargli. Una proposta,
la mia, che si è concretizzata introducendo un modello dialettico preciso
e formalizzato cui è stato attribuito, in via provvisoria, l’aggettivo
“quinario”. Di cosa si tratta? Si tratta di
uno schema dialettico, che un gruppo di lavoro cui appartengo sta mettendo
a punto da alcuni anni e al cui arricchimento, con il lavoro di tesi, ho
voluto portare un piccolo contributo: una ricerca sul background culturale
del modello (ma, in tono minore, anche un breve accenno alle possibili
applicazioni terapeutiche), estrapolandolo da vari ambiti, ed enucleandolo
dalle trame più o meno nascoste non solo di fiabe, miti e riti, ma anche
di teorie filosofiche e scientifiche. Devo dire che
non è stato difficile reperire, in ognuno di questi ambiti, la presenza
frequente di processi individuativi. Tanto che viene addirittura da
pensare che l’intera esperienza umana, sia ontogenetica che filogenetica, sia caratterizzata da tale processo. Di che cosa
stiamo parlando? E che cosa è per Jung il processo d’individuazione? Quando ci si
riferisce a tale processo s’intende generalmente il divenire della
personalità, il continuo trasformarsi dell’individuo, il processo
attraverso il quale l’individuo diventa se stesso. Nello specifico
si può dire che il processo d’individuazione porta l’uomo a divenire
completo, integro, a divenire un’unità non più divisibile, ma che
contiene in sé tutte le proprie dimensioni di cui ha potuto fare
conoscenza e che ha sintetizzato in modo armonico. È importante
fare cenno al fatto che, quello individuativo, è un percorso di
realizzazione personale, inteso non tanto come realizzazione dell’io,
come spesso si fraintende, bensì dell’intera psiche. Il processo
individuativo è dunque leggibile come un percorso evolutivo che trasforma
la coscienza naturale, immediatamente data, in coscienza artificiale,
ossia posta come compito. È a questo
punto che s’inserisce la mia ricerca prendendo una strada dialettica. In
cosa consiste la sua novità? Che cosa aggiunge a questa descrizione
junghiana la dialettica quinaria? L’analisi del
processo individuativo, condotta sulle varie manifestazioni culturali e
cliniche, scopre la presenza, in esso, di tempi cadenzati e costanti,
caratterizzati da un andamento tipico, circolare, fatto sempre di tre fasi
e due movimenti. Dunque cinque
momenti che si susseguono e che, nel loro insieme, sembrano far percorrere
al protagonista della storia un cammino circolare, dal momento che alla
fine sembra d’esser tornati nel luogo di partenza. Ma, se uguale è il
luogo, ben diversa è, rispetto all’inizio, la condizione del
protagonista, alla fine della storia. Il cerchio dunque non si chiude
perché, alla coscienza, il processo d’individuazione ha fatto compiere,
nel percorrerlo, un salto di livello. Alla fine essa è ben diversa che
all’inizio; non più immediatamente data, ma costruita, voluta come
compito. Dunque quello che appariva un cerchio assume piuttosto ora
l’aspetto di un anello di spirale. Una spirale che, in quanto tale, può
dunque continuare il suo cammino. Una simile descrizione non può non rimandare allora alla fenomenologia hegeliana, caratterizzata appunto da un lungo percorso spiraliforme fatto di sei anelli successivi, culminanti come è noto nelle sei stazioni che Hegel chiamò: coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione, sapere assoluto. Entrambi i
modelli, quello della dialettica individuativa e quello della Fenomenologia
dello spirito, procedono per superamenti successivi. La coscienza naturale deve, quindi, essere superata e rovesciata per cogliere la verità. Verità che non può essere colta all’inizio, in stato di natura. All’inizio c’è solo un sapere apparente. La fenomenologia attacca allora e rovescia ogni successiva forma di sapere, in specie il sapere dualistico che ancora tutto “separa”: certezza e verità, pensiero e realtà. Tale negazione è in vista di un sapere ulteriore che verrà a sua volta negato (dopo averlo costruito) fino al raggiungimento e al superamento d’ogni alterità fra certezza e verità. Quello sarà un sapere definitivo, assoluto e l’assoluto non sarà più oggetto, sostanza, realtà, ma anche soggetto, spirito, pensiero razionale. Il processo che
la Fenomenologia dello Spirito
descrive, dunque non è lineare, ma spiraliforme. Tale modello è una
spirale in cui ciò che la coscienza si trova davanti, come “altro”
(antitesi), è il risultato di una sua precedente attività (negazione). Trasformativa
della propria coscienza precedente, sempre meno naturale ad ogni
rovesciamento, l’attività dell’essere, artefice di se stesso, procede
fatalmente e spontaneamente verso un artificiale psichico fonte e modello
d’ogni atto artificiale successivo. È precisamente
questa dialettica che il nostro modello prende a riferimento e formalizza
in uno schema più geometrico e preciso. Modello che
cercherò ora di descrivere. Nelle sue tre fasi e nei due movimenti. La prima fase
è quella dell’unità indistinta, del Grande Uno che tutto racchiude, ma
che è inconsapevole di se stesso, in cui tutte le dimensioni sono confuse
le une nelle altre. Il primo
movimento, o prima negazione, per usare i termini hegeliani, è un moto di
natura separativa, distintiva, che porta la primaria unità indistinta in
uno stato di distinzione oppositiva, ossia alla seconda fase. Ora,
nella fase oppositiva, le singole parti fanno conoscenza di se stesse, ma
è una conoscenza che paga il prezzo della dicotomia, della scissione
dell’essere: maschile e femminile, coscienza e inconscio, pensiero e
realtà ... divengono coppie antinomiche che entrano in conflitto. È
solo la seconda negazione, questa volta di natura integrativa, sintetica,
a ripristinare lo stato d’unione. Ma quella che
chiude il cerchio, o meglio che ci attende al termine della prima spira,
è un’unione differente da quella di partenza: un’unità in se stessa
distinta e consapevole delle proprie singole parti di cui ha potuto fare
conoscenza lungo il cammino. Si vede bene in
tutto questo come il primo movimento dialettico sia necessario a fini
gnoseologici: un passaggio obbligato affinché la matrice primaria possa
fare conoscenza di sé. Occorre, però, andare oltre: una seconda
negazione dialettica consentirà il raggiungimento di una conoscenza
sintetica. Ma vediamo ora
di esaminare brevemente quel background
culturale in cui tale processo si menifesta più esplicitamente. Vediamo di
capire, per esempio, la sua fenomenologia specifica nella narrazione
fiabesca. Occupiamoci
anche noi, come Jung, di questo settore per riuscire a tracciare quel
modello archetipico che viene rivissuto da ogni uomo nel corso della sua
esistenza. Analizzando le
fiabe, e in questo caso ci possiamo affidare all’insuperata analisi
morfologica di Propp, si scopre che il protagonista fa sempre un viaggio.
Ed esaminando questo viaggio si vede che esso è di due tipi: uno di sola
andata e l’altro di andata e ritorno. In entrambi,
all’inizio, c’è sempre un luogo, una casa da cui partire. Si parte
verso una meta, per comando, per chiamata, per desiderio, per necessità.
Si può raggiungere una meta lontana oppure scoprire che questa era
finalizzata solo a consentirci di considerare come vera meta il luogo da
cui si era partiti. In altre parole, per scoprire che il Sé era già
dentro di noi, sia pure non immediatamente dato, occorreva, un viaggio
particolare. Dunque: Sé
come compito e non come dato, come sintesi e non come tesi. Alla luce di ciò
entrambi i viaggi, lineare e circolare, non sono due casi diversi, poiché
anche il viaggio lineare presenta, nella seconda metà, caratteristiche
differenti dalla prima: anche un viaggio topograficamente lineare ritorna,
sul piano dei significati, sui propri passi. Allora tutti, o
quasi tutti, i viaggi delle fiabe presentano tre condizioni e due
passaggi: ·
il permanere presso la dimora d’origine ·
il distaccarsi da questa ·
le difficoltà della lontananza e i pericoli del viaggio ·
il trovare quello che si cerca e il conseguente ritorno ·
il raggiungere la dimora finale Questo modello
evolutivo unità-separazione-unità, vita-morte-vita, visto per la fiaba,
si presenta in modo sorprendentemente esplicito anche nella religione
giudaico-cristiana. Il viaggio adamitico si articola infatti in modo del
tutto simile ai cinque momenti descritti. Sappiamo che Adamo vive da
principio presso il Padre in un’unità quasi simbiotica, poi lo lascia
per conseguire la conoscenza del bene e del male nella separazione
dell’esilio; infine, attraverso il secondo movimento della croce, Adamo
ritorna ad un Padre pacificato che redige per lui un nuovo Testamento,
sostituendolo all’antico. Il mito di
Adamo indica allora il cammino da compiere; il suo è, anzi, il cammino di
ogni uomo, poiché Adamo è l’anthropos
per eccellenza, il percorso dell’esistenza tutta. Operando,
infatti, un salto dal livello ontogenetico a quello filogenetico,
l’evoluzione dell’essere non sembra cambiare. Altre storie lo
confermano. Rimaniamo per
esempio nel campo del mito e rifacciamoci alla meravigliosa analisi
storica di Erich Neumann[2]. Questi propone
una sua particolare lettura dell’evoluzione del mito. E la presenta come
una fenomenologia dello sviluppo della coscienza. Vengono così delineati
tre grandi cicli mitologici: il mito della creazione, il mito dell’eroe
e quello della trasformazione. Sono tre cicli complessi, articolati in più
fasi che sfumano l’una nell’altra: l’Uroboros, la Grande Madre, la
separazione dei Genitori Primordiali, il combattimento dell’Eroe contro
il Drago, la liberazione della Prigioniera. A questi, per motivi di
economia dello spazio, non mi sarà concesso di dare un respiro adeguato.
Cercherò tuttavia di farne almeno un accenno che possa essere utile ai
fini trattati, senza denaturarne troppo la qualità. Il primo ciclo
ci narra delle grandi cosmogonie, della creazione dell’umano mondo, quel
Grande Uno genera la molteplicità dell’esistenza.
La forma impersonale di questa prima fase del mito ci comunica, in
modo indiretto, che la coscienza non è ancora sorta dal torpore
dell’inconscio. È lento e faticoso il processo separativo della
coscienza così come quello del bambino dalla madre. Solo nel
secondo ciclo appaiono i protagonisti del mito, i grandi eroi, le imprese,
le prove: Ercole, Teseo, Giasone, altro non sono che il simbolo della
neonata coscienza che lotta per svincolarsi dalla potente Madre-inconscio.
Le imprese all’inizio falliranno, facendo precipitare nuovamente la
debole coscienza nelle fauci dell’inconscio: è una dura lotta, una
battaglia che non può essere vinta uno
actu. Lo si potrà fare solo tramite un lungo cammino di lavoro, come
lo è quello terapeutico. Alla fine di tale ciclo, con la vittoria
dell’eroe, c’è l’affrancamento definitivo dell’Io e della
coscienza. Inizia ora il lento viaggio di ritorno, il movimento
progressivo di discesa nell’inconscio per assimilarne i contenuti,
mitologicamente rappresentati dal tesoro da conquistare. Si
apre così il terzo ed ultimo ciclo, quello della trasformazione, in cui
l’eroe raggiunge il tesoro che simboleggia il Sé. Più spesso alla fine
dell’impresa c’è la liberazione della principessa, rappresentazione
dell’anima, in questo modo il maschile può riunirsi al femminile, la
coscienza all’inconscio, dando vita ad uno scambio creativo che non
annulla le singole parti: è la coniunctio
oppositorum, la sintesi, il
nuovo Uno. Ma lasciamo ora
la dimensione onirica del mithos,
all’interno del quale si può agevolmente iscrivere anche la narrazione
fiabesca. Volgiamo quindi il nostro sguardo a quei lunghi cammini
iniziatici che da sempre rendono l’uomo un eroe. Se la parola “eroe”
viene usata ancora è per non discostarci troppo dal linguaggio finora
usato; linguaggio, peraltro, che Jung ha fatto suo per dare voce a quelle
dimensioni psichiche che sono in gioco nel processo d’individuazione. Rifacciamoci,
allora, ad uno dei più antichi percorsi spirituali conosciuti: la gnosi.
Parlando di gnosi, non mi riferisco allo gnosticismo; intendo riferirmi
sia all’esperienza personale del sacro, sia al metodo per raggiungere
tale esperienza. Il cammino gnoseologico è il cammino solitario del
mistico che conosce da sé, che non crede alla parola altrui. Non è fede
nei profeti la sua; ciò di cui va facendo conoscenza è conquista
personale, rapporto personale col divino. La conoscenza gnosica, ossia la
conoscenza soggettiva di sé, non può dunque essere insegnata a nessuno;
l’uomo, se vuole raggiungerla, deve impegnarsi in un cammino solitario,
affrontare i propri draghi, trovare il proprio tesoro. Ma, se le cose
raggiunte sono diverse per ciascuno, il metodo conoscitivo è uguale per
tutti. Dapprincipio
l’Apprendista esita ad intraprendere il percorso gnosico, si ribella
alle sue fatiche, chiede insegnamento al maestro: questa è la fase che
viene definita “simbiosi gnosica”. Ma l’unico insegnamento che gli
verrà dato è che non ci sono insegnamenti, e che solo se l’Apprendista
riuscirà a seguire questa istruzione paradossale inizierà il suo
cammino. L’Allievo si distacca dal Maestro, esce dalla simbiosi che lo
vorrebbe figlio passivo e bisognoso, rivolgendosi anch’esso al proprio pricipium
individuationis. Se ci
rivolgiamo poi a quel particolare tipo di gnosi che è l’alchimia, e
cerchiamo di operarne una lettura tramite il modello quinario, avremo un
compito facile, poiché fasi e movimenti si presenteranno anche qui
espliciti fin dal primo momento. Se il Pieri[3]
definisce l’alchimia come una serie di “concezioni
filosofico-esoteriche, pratiche magiche e ricerche naturalistiche che nel
loro insieme mirano alla trasformazione dei metalli vili in metalli
nobili”, Marie Louise Von Franz[4]
la vede, e la definisce, piuttosto una “congerie di proiezioni”. È, infatti,
tramite la trasmutazione della materia che gli alchimisti operavano la
propria trasformazione. La pietra filosofale altro non è che il simbolo
del Sé: l’alchimista ricerca la pietra filosofale e, mentre lo fa,
individua se stesso. Così, le tappe
compiute dalla materia, vengono compiute anche dall’anima, che evolve da
materia grezza a materia perfetta, da stato naturale a stato artificiale. La nigredo,
o materia grezza, viene separata (solvere),
dando così vita alla materia scissa o albedo,
in questa seconda fase avviene la purificazione degli elementi separati
che vengono poi ricongiunti (coagulare)
divenendo rubedo, il lapis
perfetto. Sempre due
movimenti, due negazioni: solve et
coagula. Ma, poiché
stiamo parlando di moti di separazione ed individuazione, mi sembra
doveroso, anche solo per amore di chiarezza, fare un brevissimo cenno alla
teoria di Margaret Mahler, per sottolineare similitudini e differenze con
il percorso individuativo junghiano. Sono entrambi
due processi evolutivi che portano l’essere umano ad individuarsi, ma,
se per Jung si trattava di un unico processo che si articola in due
movimenti successivi che sfumano l’uno nell’altro, secondo la Mahler
questi due movimenti costituiscono due processi paralleli e distinti. Ciò
che ancora differenzia le due concettualizzazioni è lo scopo di tale
processo, la meta che attende l’uomo in fondo alla via: secondo la
Mahler si tratterà delle acquisite rappresentazioni del Sé, per Jung,
invece, non c’è la creazione di nulla, bensì, la scoperta di qualcosa
che era già esistente, il Sé. Il Sé, in questo caso, è da intendere
come istanza organizzatrice dell’intera personalità umana, e non come
rappresentazione interna. È dunque
lampante la differenza fra i due Autori; secondo la teoria junghiana, poi
ripresa dalla Montefoschi e alla quale ho fatto riferimento per la
strutturazione del modello quinario, occorre prima separare per poi
integrare e giungere così all’individuazione, solvere
per poi coaugulare, fare un
cammino analitico per poi, solo dopo, compierne uno di natura sintetica.
È questa l’hegeliana Aufhebung:
negare per inverare, separare per riunire. La psicologia dialettica è dunque il nuovo linguaggio con cui viene narrata l’evoluzione umana, linguaggio che ci illustra questo andamento cadenzato di moti e pause. Ma non è questo il primo linguaggio dialettico usato dall’uomo. Uno, ben più lontano, ne narra le gesta: la filosofia. E sembra che
anch’essa non sia estranea a questo tipo di evoluzione; la sua intera
storia ci appare anzi leggibile secondo i segni di questa partizione
ternaria. Osserviamo per esempio la dialettica certezza-verità,
intesi rispettivamente come pensiero soggettivo e realtà oggettiva. Nella
filosofia antica (da Talete a Cartesio) la certezza coincideva con la
verità: l’uomo pensava ingenuamente che le cose fossero quali lui le
vedeva. Successivamente (con Cartesio) la certezza incominciò a dubitare
di questa identità e cercò una via sua propria, la via di una certezza
senza verità, la via di un cogito
che viveva di rappresentazioni sconosciute alla realtà. Solo con
l’idealismo tedesco la certezza tornò a coincidere con la verità, ma
non si trattava più di una identità ingenua data a priori, bensì di un
compito raggiunto tramite la mediazione di due negazioni successive. Visto la
presenza pervasiva del modello quinario nella cultura, appare dunque
evidente il suo valore archetipico, nel senso che l’intera evoluzione
della coscienza, e il processo stesso di realizzazione dell’esistenza
umana, sono leggibili attraverso questo schema. Tale
considerazione c’induce allora a porci una domanda importante per noi
psicologi: la presenza di tale modello, davvero pervasiva in campo
culturale, è così assidua anche nel campo clinico? Ci troveremo insomma
di fronte, o per spontanea apparizione o per suggerimento terapeutico, a
questi cinque momenti esistenziali? Le fasi e i
movimenti tipici hanno in campo clinico una loro necessità: debbono
esserci affinché si compia il corretto sviluppo della personalità
dell’individuo. È ovvio dunque pensare che sia necessario, qualora
fossero mancati nello sviluppo “naturale”, indurre il loro
strutturarsi “artificiale” in ambito clinico[5]. Quindi, tutto
quello che appare nella cultura come manifestazione rituale di uno
sviluppo di coscienza potrebbe proficuamente essere utilizzato, con la
stessa dialettica, nella terapia, in modo per così dire artificiale, per
far ripartire uno sviluppo che intoppi indesiderati avessero fermato. Ma se così
fosse, la situazione analitica potrebbe apparire come una condizione
manipolatoria. In realtà non è necessario che questo sviluppo venga
indotto o suggerito: esso si presenta per lo più spontaneamente ed
esplicitamente, occorre solo interpretarlo ed amplificarlo. Riprendendo le
stesse parole di Jung, potremmo dire che il terapeuta non deve indurre il
percorso d’individuazione, bensì deve limitarsi a toglierne gli intoppi
che ne bloccano lo spontaneo divenire. Una terapia che
così operasse, orientata ad un percorso atteso e che spontaneamente si
presenta, deve solo accompagnarlo, affiancando, in maniera quasi
parallela, la dialettica analista-paziente a quella interna fra tesi e
antitesi. I due della coppia analitica vengono dunque ad interpretare
quasi il ruolo di tesi ed antitesi rispettivamente. Il “figlio” stacca
da sé il padre e lo proietta sull’analista, e poi attraversa con lui
tutte le fasi dialettiche dello sviluppo, così come la coscienza stacca
da sé l’inconscio e il maschile stacca da sé il femminile. Occorre però
fare una precisazione; quella di cui si sta parlando non è la proiezione
intesa nella sua accezione di meccanismo di difesa. Come abbiamo già
brevemente accennato all’inizio, il primo movimento separativo,
all’interno del quale si verifica la proiezione, ha un preciso valore
gnoseologico, ha uno scopo di natura evolutiva. Si stacca da sé
per fare conoscenza di sé. Il soggetto
pone fuori di sé una propria parte che diviene oggetto: ecco che il
soggetto-tesi si fa osservatore, conoscitore dell’oggetto-antitesi
convinto che sia “altro da sé”, non sapendo che in quel momento sta
facendo conoscenza di una dimensione che gli appartiene. Solo alla fine
di questo percorso evolutivo, attraverso quel secondo movimento che
abbiamo definito come sintetico-integrativo, tesi ed antitesi si
ricongiungeranno in una nuova unità consapevole, resa possibile, però,
solo dal compiuto cammino dialettico. Ogni movimento,
o negazione dialettica, costituisce un momento evolutivo necessario, dal
quale non si può prescindere: come abbiamo detto il Sé, o autocoscienza,
è un compito, non un dato di partenza. Come si presentano questi eventi in campo clinico? Tre potrebbero essere, dunque, i momenti del processo: a) Assenza della domanda. Il
bambino, il malato, non è ancora portatore di domanda perché la
condizione simbiotica è un bisogno che non sa d’essere bisogno, che
è pago di se'. La domanda d’altro, la domanda all'altro, ancora non ci
sono perché l'altro non esiste, non è ancora stato da lui costruito; non
è ancora stato proiettato fuori di sé. b) La formazione della domanda
è l'uscita (del bisogno) da se stesso, per estraniarsi e conoscere
l'estraneo, e costituisce propriamente il momento dialettico-negativo.
Momento fondamentale di formazione della personalità, tale scissione
costruisce l'altro e si oppone a lui con una protesta, con una domanda o
una proposta di eteroriconoscimento. È il momento dell’opposizione,
della dialettica delle autocoscienze. È il momento della dialettica del
servo che vuol diventare signore e chiede di esserlo subito, senza
quella mediazione del lavoro che lo renderà consapevole d’essere
colui che può, che sa, che vale. E quindi d’autoriconoscersi come colui
che non ha bisogno di chiedere, a qualcuno fuori di sé, per sapere. c) La guarigione è dunque nuovamente caratterizzata dall'assenza
di domanda all'altro. Egli non pone più domande fuori di sé perché
egli ha ormai ritirato l'altro dentro di sé, ha ritirato le sue
proiezioni, ora capisce che ciò, che in passato credeva di chiedere
all'altro, in realtà lo chiedeva a se stesso. Ma la terza fase è diversa dalla prima. Quest’assenza di domanda non
è più un'assenza; manca sì ancora la domanda, all'altro fuori di sé,
ma è presente la domanda a se stesso; anzi, per essere più precisi,
all'altro ritornato in sé. L'altro esiste ancora, ma è in lui, in sé; amato, non più opposto. Io
e Tu son diventati Noi.
L'unità si è ricomposta; ma tale sintesi, che nella prima fase era una
simbiosi confusa, e nella quale non era possibile distinguere l'uno
dall'altro, le tenebre dalla luce, il bene dal male, il bianco dal nero,
è ora unità nella distinzione. A tale concezione del cammino evolutivo umano, che considera la
patologia psichica come un arresto di questo processo, dunque, non può
che conseguire una precisa situazione terapeutica. Non si tratta, infatti, soltanto di una linea evolutiva che noi
riscontriamo nella dialettica del reale, e che viene accennata come tale,
ma anche di uno sviluppo buono e desiderabile per la salute psichica. Il processo individuativo è una trasformazione che la terapia può favorire lasciando che le sue fasi e i suoi movimenti liberamente accadano, liberando il percorso dalle resistenze e dagli intoppi che si oppongono al lavoro della coppia analitica e ai loro comuni obbiettivi. Il terapeuta avrà quindi il compito di individuare la fase nella quale
si trova bloccato il paziente, comprendere la natura di tale blocco
evolutivo, quindi sollecitarlo ad intraprendere il movimento successivo
alla fase d’arresto. Si tratta dunque di legittimare l’uomo a divenire se stesso. BIBLIOGRAFIA Carotenuto, A., (a cura di), (1992), Trattato di
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Tales, Zurigo, Spring Publications, tr. it. L'individuazione nella fiaba, Torino, Boringhieri, 1987. Von Franz, M., (1980), An Introduction to the Symbolism and the psychology, Toronto, Inner
City Books, tr. it. Alchimia,
Torino, Bollati Boringhieri, 1984
NOTE
[1] Schopenhauer, A., (1819), tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Bari, Laterza, 1968, pag. 463 [2] Neumann, E., (1949), Storia delle origini della coscienza, Roma, Astrolabio. [3] Pieri, P.F., Dizionario junghiano, Torino, Boringhieri [4] Von Franz, M.L., Alchimia, Torino, Bollati Boringhieri [5] Rossi, R., Natura naturans, Urbino, Imes, 2000
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