TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


La dialettica dell'individuazione

 

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La dialettica dell’individuazione

 

di Roberta Rossi

 

  (per gentile concessione de Il Sagittario, Rivista Scientifica dell'Istituto "Alfred Adler")

 

“[...] come sull’infuriante mare [...] siede in barca il navigante e sé affida al debole naviglio, così siede tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di tormenti, il singolo uomo, poggiandosi fidente sul principium individuationis[1].

È con questa frase di Schopenhauer che iniziava la mia tesi di laurea sulla “Dialettica dell’individuazione”.

Dialettica appunto; non processo o principio, come da un discorso su un materiale prevalentemente junghiano ci si potrebbe attendere.

Un concetto nuovo dunque?

Sì; ma non perché di dialettica non si fosse mai parlato a proposito di Jung, ché anzi, come è ben noto, il concetto si è addirittura spesso sprecato, quanto piuttosto per il taglio abbastanza inedito che la mia trattazione ha inteso dargli.

Una proposta, la mia, che si è concretizzata introducendo un modello dialettico preciso e formalizzato cui è stato attribuito, in via provvisoria, l’aggettivo “quinario”.

Di cosa si tratta?

Si tratta di uno schema dialettico, che un gruppo di lavoro cui appartengo sta mettendo a punto da alcuni anni e al cui arricchimento, con il lavoro di tesi, ho voluto portare un piccolo contributo: una ricerca sul background culturale del modello (ma, in tono minore, anche un breve accenno alle possibili applicazioni terapeutiche), estrapolandolo da vari ambiti, ed enucleandolo dalle trame più o meno nascoste non solo di fiabe, miti e riti, ma anche di teorie filosofiche e scientifiche.

Devo dire che non è stato difficile reperire, in ognuno di questi ambiti, la presenza frequente di processi individuativi. Tanto che viene addirittura da pensare che l’intera esperienza umana, sia ontogenetica che filogenetica, sia caratterizzata da tale processo.

Di che cosa stiamo parlando? E che cosa è per Jung il processo d’individuazione?

Quando ci si riferisce a tale processo s’intende generalmente il divenire della personalità, il continuo trasformarsi dell’individuo, il processo attraverso il quale l’individuo diventa se stesso.

Nello specifico si può dire che il processo d’individuazione porta l’uomo a divenire completo, integro, a divenire un’unità non più divisibile, ma che contiene in sé tutte le proprie dimensioni di cui ha potuto fare conoscenza e che ha sintetizzato in modo armonico.

È importante fare cenno al fatto che, quello individuativo, è un percorso di realizzazione personale, inteso non tanto come realizzazione dell’io, come spesso si fraintende, bensì dell’intera psiche.

Il processo individuativo è dunque leggibile come un percorso evolutivo che trasforma la coscienza naturale, immediatamente data, in coscienza artificiale, ossia posta come compito.

È a questo punto che s’inserisce la mia ricerca prendendo una strada dialettica. In cosa consiste la sua novità? Che cosa aggiunge a questa descrizione junghiana la dialettica quinaria?

L’analisi del processo individuativo, condotta sulle varie manifestazioni culturali e cliniche, scopre la presenza, in esso, di tempi cadenzati e costanti, caratterizzati da un andamento tipico, circolare, fatto sempre di tre fasi e due movimenti.

Dunque cinque momenti che si susseguono e che, nel loro insieme, sembrano far percorrere al protagonista della storia un cammino circolare, dal momento che alla fine sembra d’esser tornati nel luogo di partenza. Ma, se uguale è il luogo, ben diversa è, rispetto all’inizio, la condizione del protagonista, alla fine della storia. Il cerchio dunque non si chiude perché, alla coscienza, il processo d’individuazione ha fatto compiere, nel percorrerlo, un salto di livello. Alla fine essa è ben diversa che all’inizio; non più immediatamente data, ma costruita, voluta come compito. Dunque quello che appariva un cerchio assume piuttosto ora l’aspetto di un anello di spirale. Una spirale che, in quanto tale, può dunque continuare il suo cammino.

Una simile descrizione non può non rimandare allora alla fenomenologia hegeliana, caratterizzata appunto da un lungo percorso spiraliforme fatto di sei anelli successivi, culminanti come è noto nelle sei stazioni che Hegel chiamò: coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione, sapere assoluto.

Entrambi i modelli, quello della dialettica individuativa e quello della Fenomenologia dello spirito, procedono per superamenti successivi.

La coscienza naturale deve, quindi, essere superata e rovesciata per cogliere la verità. Verità che non può essere colta all’inizio, in stato di natura. All’inizio c’è solo un sapere apparente. La fenomenologia attacca allora e rovescia ogni successiva forma di sapere, in specie il sapere dualistico che ancora tutto “separa”: certezza e verità, pensiero e realtà. Tale negazione è in vista di un sapere ulteriore che verrà a sua volta negato (dopo averlo costruito) fino al raggiungimento e al superamento d’ogni alterità fra certezza e verità. Quello sarà un sapere definitivo, assoluto e l’assoluto non sarà più oggetto, sostanza, realtà, ma anche soggetto, spirito, pensiero razionale.

Il processo che la Fenomenologia dello Spirito descrive, dunque non è lineare, ma spiraliforme. Tale modello è una spirale in cui ciò che la coscienza si trova davanti, come “altro” (antitesi), è il risultato di una sua precedente attività (negazione).

Trasformativa della propria coscienza precedente, sempre meno naturale ad ogni rovesciamento, l’attività dell’essere, artefice di se stesso, procede fatalmente e spontaneamente verso un artificiale psichico fonte e modello d’ogni atto artificiale successivo.

È precisamente questa dialettica che il nostro modello prende a riferimento e formalizza in uno schema più geometrico e preciso.

Modello che cercherò ora di descrivere. Nelle sue tre fasi e nei due movimenti.

La prima fase è quella dell’unità indistinta, del Grande Uno che tutto racchiude, ma che è inconsapevole di se stesso, in cui tutte le dimensioni sono confuse le une nelle altre.

Il primo movimento, o prima negazione, per usare i termini hegeliani, è un moto di natura separativa, distintiva, che porta la primaria unità indistinta in uno stato di distinzione oppositiva, ossia alla seconda fase.

 Ora, nella fase oppositiva, le singole parti fanno conoscenza di se stesse, ma è una conoscenza che paga il prezzo della dicotomia, della scissione dell’essere: maschile e femminile, coscienza e inconscio, pensiero e realtà ... divengono coppie antinomiche che entrano in conflitto.

 È solo la seconda negazione, questa volta di natura integrativa, sintetica, a ripristinare lo stato d’unione.

Ma quella che chiude il cerchio, o meglio che ci attende al termine della prima spira, è un’unione differente da quella di partenza: un’unità in se stessa distinta e consapevole delle proprie singole parti di cui ha potuto fare conoscenza lungo il cammino.

Si vede bene in tutto questo come il primo movimento dialettico sia necessario a fini gnoseologici: un passaggio obbligato affinché la matrice primaria possa fare conoscenza di sé. Occorre, però, andare oltre: una seconda negazione dialettica consentirà il raggiungimento di una conoscenza sintetica.

Ma vediamo ora di esaminare brevemente quel background culturale in cui tale processo si menifesta più esplicitamente.

Vediamo di capire, per esempio, la sua fenomenologia specifica nella narrazione fiabesca.

Occupiamoci anche noi, come Jung, di questo settore per riuscire a tracciare quel modello archetipico che viene rivissuto da ogni uomo nel corso della sua esistenza.

Analizzando le fiabe, e in questo caso ci possiamo affidare all’insuperata analisi morfologica di Propp, si scopre che il protagonista fa sempre un viaggio. Ed esaminando questo viaggio si vede che esso è di due tipi: uno di sola andata e l’altro di andata e ritorno.

In entrambi, all’inizio, c’è sempre un luogo, una casa da cui partire. Si parte verso una meta, per comando, per chiamata, per desiderio, per necessità. Si può raggiungere una meta lontana oppure scoprire che questa era finalizzata solo a consentirci di considerare come vera meta il luogo da cui si era partiti. In altre parole, per scoprire che il Sé era già dentro di noi, sia pure non immediatamente dato, occorreva, un viaggio particolare.

Dunque: Sé come compito e non come dato, come sintesi e non come tesi.

Alla luce di ciò entrambi i viaggi, lineare e circolare, non sono due casi diversi, poiché anche il viaggio lineare presenta, nella seconda metà, caratteristiche differenti dalla prima: anche un viaggio topograficamente lineare ritorna, sul piano dei significati, sui propri passi.

Allora tutti, o quasi tutti, i viaggi delle fiabe presentano tre condizioni e due passaggi:

· il permanere presso la dimora d’origine

· il distaccarsi da questa

· le difficoltà della lontananza e i pericoli del viaggio

· il trovare quello che si cerca e il conseguente ritorno

· il raggiungere la dimora finale

Questo modello evolutivo unità-separazione-unità, vita-morte-vita, visto per la fiaba, si presenta in modo sorprendentemente esplicito anche nella religione giudaico-cristiana. Il viaggio adamitico si articola infatti in modo del tutto simile ai cinque momenti descritti. Sappiamo che Adamo vive da principio presso il Padre in un’unità quasi simbiotica, poi lo lascia per conseguire la conoscenza del bene e del male nella separazione dell’esilio; infine, attraverso il secondo movimento della croce, Adamo ritorna ad un Padre pacificato che redige per lui un nuovo Testamento, sostituendolo all’antico.

Il mito di Adamo indica allora il cammino da compiere; il suo è, anzi, il cammino di ogni uomo, poiché Adamo è l’anthropos  per eccellenza, il percorso dell’esistenza tutta.

Operando, infatti, un salto dal livello ontogenetico a quello filogenetico, l’evoluzione dell’essere non sembra cambiare.

Altre storie lo confermano.

Rimaniamo per esempio nel campo del mito e rifacciamoci alla meravigliosa analisi storica di Erich Neumann[2].

Questi propone una sua particolare lettura dell’evoluzione del mito. E la presenta come una fenomenologia dello sviluppo della coscienza. Vengono così delineati tre grandi cicli mitologici: il mito della creazione, il mito dell’eroe e quello della trasformazione. Sono tre cicli complessi, articolati in più fasi che sfumano l’una nell’altra: l’Uroboros, la Grande Madre, la separazione dei Genitori Primordiali, il combattimento dell’Eroe contro il Drago, la liberazione della Prigioniera. A questi, per motivi di economia dello spazio, non mi sarà concesso di dare un respiro adeguato. Cercherò tuttavia di farne almeno un accenno che possa essere utile ai fini trattati, senza denaturarne troppo la qualità.

Il primo ciclo ci narra delle grandi cosmogonie, della creazione dell’umano mondo, quel Grande Uno genera la molteplicità dell’esistenza.  La forma impersonale di questa prima fase del mito ci comunica, in modo indiretto, che la coscienza non è ancora sorta dal torpore dell’inconscio. È lento e faticoso il processo separativo della coscienza così come quello del bambino dalla madre.

Solo nel secondo ciclo appaiono i protagonisti del mito, i grandi eroi, le imprese, le prove: Ercole, Teseo, Giasone, altro non sono che il simbolo della neonata coscienza che lotta per svincolarsi dalla potente Madre-inconscio. Le imprese all’inizio falliranno, facendo precipitare nuovamente la debole coscienza nelle fauci dell’inconscio: è una dura lotta, una battaglia che non può essere vinta uno actu. Lo si potrà fare solo tramite un lungo cammino di lavoro, come lo è quello terapeutico. Alla fine di tale ciclo, con la vittoria dell’eroe, c’è l’affrancamento definitivo dell’Io e della coscienza. Inizia ora il lento viaggio di ritorno, il movimento progressivo di discesa nell’inconscio per assimilarne i contenuti, mitologicamente rappresentati dal tesoro da conquistare.

 Si apre così il terzo ed ultimo ciclo, quello della trasformazione, in cui l’eroe raggiunge il tesoro che simboleggia il Sé. Più spesso alla fine dell’impresa c’è la liberazione della principessa, rappresentazione dell’anima, in questo modo il maschile può riunirsi al femminile, la coscienza all’inconscio, dando vita ad uno scambio creativo che non annulla le singole parti: è la coniunctio oppositorum, la sintesi,  il nuovo Uno.

Ma lasciamo ora la dimensione onirica del mithos, all’interno del quale si può agevolmente iscrivere anche la narrazione fiabesca. Volgiamo quindi il nostro sguardo a quei lunghi cammini iniziatici che da sempre rendono l’uomo un eroe. Se la parola “eroe” viene usata ancora è per non discostarci troppo dal linguaggio finora usato; linguaggio, peraltro, che Jung ha fatto suo per dare voce a quelle dimensioni psichiche che sono in gioco nel processo d’individuazione.

Rifacciamoci, allora, ad uno dei più antichi percorsi spirituali conosciuti: la gnosi. Parlando di gnosi, non mi riferisco allo gnosticismo; intendo riferirmi sia all’esperienza personale del sacro, sia al metodo per raggiungere tale esperienza. Il cammino gnoseologico è il cammino solitario del mistico che conosce da sé, che non crede alla parola altrui. Non è fede nei profeti la sua; ciò di cui va facendo conoscenza è conquista personale, rapporto personale col divino. La conoscenza gnosica, ossia la conoscenza soggettiva di sé, non può dunque essere insegnata a nessuno; l’uomo, se vuole raggiungerla, deve impegnarsi in un cammino solitario, affrontare i propri draghi, trovare il proprio tesoro.

Ma, se le cose raggiunte sono diverse per ciascuno, il metodo conoscitivo è uguale per tutti.

 Dapprincipio l’Apprendista esita ad intraprendere il percorso gnosico, si ribella alle sue fatiche, chiede insegnamento al maestro: questa è la fase che viene definita “simbiosi gnosica”. Ma l’unico insegnamento che gli verrà dato è che non ci sono insegnamenti, e che solo se l’Apprendista riuscirà a seguire questa istruzione paradossale inizierà il suo cammino. L’Allievo si distacca dal Maestro, esce dalla simbiosi che lo vorrebbe figlio passivo e bisognoso, rivolgendosi anch’esso al proprio pricipium individuationis.

Se ci rivolgiamo poi a quel particolare tipo di gnosi che è l’alchimia, e cerchiamo di operarne una lettura tramite il modello quinario, avremo un compito facile, poiché fasi e movimenti si presenteranno anche qui espliciti fin dal primo momento.

Se il Pieri[3] definisce l’alchimia come una serie di “concezioni filosofico-esoteriche, pratiche magiche e ricerche naturalistiche che nel loro insieme mirano alla trasformazione dei metalli vili in metalli nobili”, Marie Louise Von Franz[4] la vede, e la definisce, piuttosto una “congerie di proiezioni”.

È, infatti, tramite la trasmutazione della materia che gli alchimisti operavano la propria trasformazione. La pietra filosofale altro non è che il simbolo del Sé: l’alchimista ricerca la pietra filosofale e, mentre lo fa, individua se stesso.

Così, le tappe compiute dalla materia, vengono compiute anche dall’anima, che evolve da materia grezza a materia perfetta, da stato naturale a stato artificiale.

La nigredo, o materia grezza, viene separata (solvere), dando così vita alla materia scissa o albedo, in questa seconda fase avviene la purificazione degli elementi separati che vengono poi ricongiunti (coagulare) divenendo rubedo, il lapis perfetto.

Sempre due movimenti, due negazioni: solve et coagula.

Ma, poiché stiamo parlando di moti di separazione ed individuazione, mi sembra doveroso, anche solo per amore di chiarezza, fare un brevissimo cenno alla teoria di Margaret Mahler, per sottolineare similitudini e differenze con il percorso individuativo junghiano.

Sono entrambi due processi evolutivi che portano l’essere umano ad individuarsi, ma, se per Jung si trattava di un unico processo che si articola in due movimenti successivi che sfumano l’uno nell’altro, secondo la Mahler questi due movimenti costituiscono due processi paralleli e distinti. Ciò che ancora differenzia le due concettualizzazioni è lo scopo di tale processo, la meta che attende l’uomo in fondo alla via: secondo la Mahler si tratterà delle acquisite rappresentazioni del Sé, per Jung, invece, non c’è la creazione di nulla, bensì, la scoperta di qualcosa che era già esistente, il Sé. Il Sé, in questo caso, è da intendere come istanza organizzatrice dell’intera personalità umana, e non come rappresentazione interna.

È dunque lampante la differenza fra i due Autori; secondo la teoria junghiana, poi ripresa dalla Montefoschi e alla quale ho fatto riferimento per la strutturazione del modello quinario, occorre prima separare per poi integrare e giungere così all’individuazione, solvere per poi coaugulare, fare un cammino analitico per poi, solo dopo, compierne uno di natura sintetica. È questa l’hegeliana Aufhebung: negare per inverare, separare per riunire.

La psicologia dialettica è dunque il nuovo linguaggio con cui viene narrata l’evoluzione umana, linguaggio che ci illustra questo andamento cadenzato di moti e pause. Ma non è questo il primo linguaggio dialettico usato dall’uomo. Uno, ben più lontano, ne narra le gesta: la filosofia.

E sembra che anch’essa non sia estranea a questo tipo di evoluzione; la sua intera storia ci appare anzi leggibile secondo i segni di questa partizione ternaria. Osserviamo per esempio la dialettica certezza-verità, intesi rispettivamente come pensiero soggettivo e realtà oggettiva. Nella filosofia antica (da Talete a Cartesio) la certezza coincideva con la verità: l’uomo pensava ingenuamente che le cose fossero quali lui le vedeva. Successivamente (con Cartesio) la certezza incominciò a dubitare di questa identità e cercò una via sua propria, la via di una certezza senza verità, la via di un cogito che viveva di rappresentazioni sconosciute alla realtà. Solo con l’idealismo tedesco la certezza tornò a coincidere con la verità, ma non si trattava più di una identità ingenua data a priori, bensì di un compito raggiunto tramite la mediazione di due negazioni successive.

Visto la presenza pervasiva del modello quinario nella cultura, appare dunque evidente il suo valore archetipico, nel senso che l’intera evoluzione della coscienza, e il processo stesso di realizzazione dell’esistenza umana, sono leggibili attraverso questo schema.

Tale considerazione c’induce allora a porci una domanda importante per noi psicologi: la presenza di tale modello, davvero pervasiva in campo culturale, è così assidua anche nel campo clinico? Ci troveremo insomma di fronte, o per spontanea apparizione o per suggerimento terapeutico, a questi cinque momenti esistenziali?

Le fasi e i movimenti tipici hanno in campo clinico una loro necessità: debbono esserci affinché si compia il corretto sviluppo della personalità dell’individuo. È ovvio dunque pensare che sia necessario, qualora fossero mancati nello sviluppo “naturale”, indurre il loro strutturarsi “artificiale” in ambito clinico[5].

Quindi, tutto quello che appare nella cultura come manifestazione rituale di uno sviluppo di coscienza potrebbe proficuamente essere utilizzato, con la stessa dialettica, nella terapia, in modo per così dire artificiale, per far ripartire uno sviluppo che intoppi indesiderati avessero fermato.

Ma se così fosse, la situazione analitica potrebbe apparire come una condizione manipolatoria. In realtà non è necessario che questo sviluppo venga indotto o suggerito: esso si presenta per lo più spontaneamente ed esplicitamente, occorre solo interpretarlo ed amplificarlo.

Riprendendo le stesse parole di Jung, potremmo dire che il terapeuta non deve indurre il percorso d’individuazione, bensì deve limitarsi a toglierne gli intoppi che ne bloccano lo spontaneo divenire.

Una terapia che così operasse, orientata ad un percorso atteso e che spontaneamente si presenta, deve solo accompagnarlo, affiancando, in maniera quasi parallela, la dialettica analista-paziente a quella interna fra tesi e antitesi. I due della coppia analitica vengono dunque ad interpretare quasi il ruolo di tesi ed antitesi rispettivamente. Il “figlio” stacca da sé il padre e lo proietta sull’analista, e poi attraversa con lui tutte le fasi dialettiche dello sviluppo, così come la coscienza stacca da sé l’inconscio e il maschile stacca da sé il femminile.

Occorre però fare una precisazione; quella di cui si sta parlando non è la proiezione intesa nella sua accezione di meccanismo di difesa. Come abbiamo già brevemente accennato all’inizio, il primo movimento separativo, all’interno del quale si verifica la proiezione, ha un preciso valore gnoseologico, ha uno scopo di natura evolutiva.

Si stacca da sé per fare conoscenza di sé.

Il soggetto pone fuori di sé una propria parte che diviene oggetto: ecco che il soggetto-tesi si fa osservatore, conoscitore dell’oggetto-antitesi convinto che sia “altro da sé”, non sapendo che in quel momento sta facendo conoscenza di una dimensione che gli appartiene.

Solo alla fine di questo percorso evolutivo, attraverso quel secondo movimento che abbiamo definito come sintetico-integrativo, tesi ed antitesi si ricongiungeranno in una nuova unità consapevole, resa possibile, però, solo dal compiuto cammino dialettico.

Ogni movimento, o negazione dialettica, costituisce un momento evolutivo necessario, dal quale non si può prescindere: come abbiamo detto il Sé, o autocoscienza, è un compito, non un dato di partenza.

Come si presentano questi eventi in campo clinico?

Tre potrebbero essere, dunque, i momenti del processo:

a) Assenza della domanda. Il bambino, il malato, non è ancora portatore di domanda perché la condizione simbiotica è un bisogno che non sa d’esse­re bisogno, che è pago di se'. La domanda d’altro, la domanda all'altro, ancora non ci sono perché l'altro non esiste, non è ancora stato da lui costruito; non è ancora stato proiettato fuori di sé.

b) La formazione della domanda è l'uscita (del bisogno) da se stesso, per estraniarsi e co­noscere l'estraneo, e costituisce propriamente il momento dialettico-negativo. Momento fondamentale di formazione della personalità, tale scissione costruisce l'altro e si oppone a lui con una pro­testa, con una domanda o una proposta di eteroriconoscimento. È il momento dell’opposizione, della dialettica delle autocoscienze. È il momento della dialettica del servo che vuol diventare si­gnore e chiede di esserlo subito, senza quella mediazione del lavoro che lo renderà consape­vole d’essere colui che può, che sa, che vale. E quindi d’autoriconoscersi come colui che non ha bisogno di chiedere, a qualcuno fuori di sé, per sapere.

c) La guarigione è dunque nuovamente caratterizzata dall'assenza di do­manda all'altro. Egli non pone più domande fuori di sé perché egli ha ormai ritirato l'altro dentro di sé, ha ritirato le sue proiezioni, ora capisce che ciò, che in passato credeva di chie­dere all'altro, in realtà lo chiedeva a se stesso.

Ma la terza fase è diversa dalla prima. Quest’assenza di domanda non è più un'assenza; manca sì ancora la domanda, all'altro fuori di sé, ma è presente la domanda a se stesso; anzi, per essere più precisi, all'altro ritornato in sé.

L'altro esiste ancora, ma è in lui, in sé; amato, non più opposto. Io e Tu son diventati Noi. L'unità si è ricomposta; ma tale sintesi, che nella prima fase era una simbiosi confusa, e nella quale non era possibile distinguere l'uno dall'altro, le tenebre dalla luce, il bene dal male, il bianco dal nero, è ora unità nella distinzione.

A tale concezione del cammino evolutivo umano, che considera la patologia psichica come un arresto di questo processo, dunque, non può che conseguire una precisa situazione terapeutica.

Non si tratta, infatti, soltanto di una linea evolutiva che noi riscontriamo nella dialettica del reale, e che viene accennata come tale, ma anche di uno sviluppo buono e desiderabile per la salute psichica.

Il processo individuativo è una trasformazione che la terapia può favorire lasciando che le sue fasi e i suoi movimenti liberamente accadano, liberando il percorso dalle resistenze e dagli intoppi che si oppongono al lavoro della coppia analitica e ai loro comuni obbiettivi.

Il terapeuta avrà quindi il compito di individuare la fase nella quale si trova bloccato il paziente, comprendere la natura di tale blocco evolutivo, quindi sollecitarlo ad intraprendere il movimento successivo alla fase d’arresto.

Si tratta dunque di legittimare l’uomo a divenire se stesso.

 

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NOTE

[1] Schopenhauer, A., (1819), tr. it. Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Bari, Laterza, 1968, pag. 463

       [2] Neumann, E., (1949), Storia delle origini della coscienza, Roma, Astrolabio.

       [3] Pieri, P.F., Dizionario junghiano, Torino, Boringhieri

       [4] Von Franz, M.L., Alchimia, Torino, Bollati Boringhieri

       [5] Rossi, R., Natura naturans, Urbino, Imes, 2000

 

 


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