TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Responsabile del Centro

Prof. Luciano Rossi

 


La morte di Dio

 

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LA VITA DELL’UOMO  DOPO LA MORTE DI DIO

 

di Angela De Luca

 

 

 

 

L’uomo e i suoi viaggi: una metafora dell’esistenza lunga quanto l’esistenza stessa.

E da sempre, in questi viaggi, l’uomo ha cercato di definire delle coordinate, di confidare in strutture immutabili, di prendere come riferimento una qualche terraferma. A costringerlo era la paura.

Dalla mela di Adamo a quella di Newton, o come dire da sempre, egli ha cercato una conoscenza assoluta e un discrimine tra bene e male che fosse soprattutto “chiaro e distinto”. La sua razionalità ambiva ad una mappa che fosse anche territorio.

Nel Fedone,[1]Simmia dice:

 

A me pare, o Socrate, […] che avere una cognizione precisa intorno a tali problemi, in questa vita, sia impossibile o per lo meno assai difficile […]. Riguardo a tali questioni, una tra queste cose occorre fare: o apprendere da altri come stiano o trovare direttamente la chiave o, se questo è impossibile, prendere il ragionamento umano che sia il migliore e non si lasci minimamente confutare e con esso, come su una zattera, varcare a proprio rischio il gran mare dell’esistenza, a meno che uno non possa, su una barca più sicura, compiere il percorso con maggiore sicurezza e minore pericolo, potendo contare sull’aiuto di una rivelazione divina”.

 

Nella misura in cui fanno da preludio alla cosiddetta seconda navigazione platonica (ton deuteron ploun)[2], le parole di Simmia segnano anche l’inizio della metafisica di tutti i tempi: ossia sanciscono che la causa e la ragione di ogni cosa stanno nell’Idea di cui essa partecipa.

Nel linguaggio del marinaio Platone, infatti, se la “prima navigazione” (quella che si agevola della forza trainante dei venti) è consistita nel trovare le ragioni ‘fisiche’ delle cose (sulla scia dei primi filosofi naturalisti, che cercavano l’archè, il principio ‘materiale’ della realtà), la “seconda navigazione”[3] sarà la più impegnativa, poiché alla bonaccia (nel senso del vicolo cieco – statico – a cui erano arrivati) dei naturalisti (il cui vicolo cieco è l’incapacità di giustificare in modo esaustivo la correttezza e la necessità delle loro teorie sul reale) non può che opporre remi e olio di gomito, al fine  di porre in essere un metodo fondazionale nuovo, alla luce del quale la vera causa di un oggetto “bello”, ad esempio, non può risiedere nella materia che banalmente lo compone, bensì nel suo logos o archetipo, cioè nell’idea stessa di Bellezza.

Tra il piano sensibile e quello soprasensibile[4], quindi, si apre una sorta di forbice avente una triplice natura: ontologica[5] (per il fatto di spaziare tra due diversi livelli di realtà – l’una materiale, l’altra intellettuale), logica[6] (perché la realtà e il suo senso sono conosciuti secondo con modalità diverse – ossia, rispettivamente, l’una per mezzo della doxa (opinione) e l’altro tramite epistēme (conoscenza certa), e assiologica[7] (per la diversità in termini di priorità e dignità che, anche nel senso comune, passa tra il modello e la sua copia). A suffragio di questo divario, ancora nel Fedone[8], Socrate spiega con le seguenti parole la relazione che intercorre tra un’azione e la sua vera causa, nonché la confusione dei più, che “brancolando come nel buio”confondono la causa dell’azione coi mezzi utili a compierla:

 

“È come se uno […], cercando di trovare le cause delle cose che faccio, dicesse che io siedo qui per queste ragioni, [cioè] perché il mio corpo è composto di ossa e di nervi e le ossa sono rigide e hanno giunture che le tengono separate le une dalle altre e che i nervi sono in grado di tirarsi e distendersi, circondando le ossa con la carne e la pelle che tiene unito il tutto. E poiché le ossa stanno sospese nei loro legamenti, i nervi allentandosi e tendendosi fanno sì che in qualche modo io ora sia in grado di piegare le mie membra, per questa ragione io essendomi piegato sto seduto qui. […] E se uno dicesse che io senza avere tali cose [ossa e nervi], non sarei in grado di fare quello che mi pare bene, direbbe il vero. Ma sostenendo che io faccio quel che faccio per causa loro, […] e non per la scelta di ciò che è ottimo, questa sarebbe una grande e grossa insensatezzae tiene unito il tutto. tre e che i nervi sono in grado di tirarsi e distendersi, circondando le ossa con la carne e la pelle c nel parlare”.

 

 

 È su questo presupposto teorico, allora, che riposa il dualismo di Platone, destinato a sopravvivergli per almeno due millenni: da un lato ci sono gli enti, le cose, osservabili e misurabili, di cui si fa esperienza sensibile (esperimento, osservazione), dall’altro ci sono le idee, i modelli astratti e visibili solo con l’occhio della mente[9].

 

In altre parole, se i primi si conoscono o si spiegano attraverso i secondi, possiamo dire che il fondamento del visibile riposa nell’invisibile.

L’Idea, l’Essere, il Senso hanno da questo momento il compito di arginare il divenire, di rimediare alla meraviglia (thauma) che esso procura[10].

Se fosse necessario soffermarsi su questo punto aggiungerei che a questo ‘stupore’ di fronte al Chàos dei fenomeni esterni (che coincide col divenire), infatti, viene ricondotta la nascita stessa della filosofia nella Grecia del VI sec. a.C.:

 

“Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia; né altro inizio ha il filosofare che questo”[11].

 

“ Gli uomini […] hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare”[12].

 

Ma non si comprenderebbe l’urgenza di una tale ricerca di permanenza e di eterno cui ricondurre la molteplicità dei fenomeni se, ancora una volta, non ci venisse in aiuto la filologia (che, lungi dall’essere una fredda matematica di segni, esprime, diacronicamente e sincronicamente[13], un sentire talmente viscerale da impregnare di sé lo stesso battesimo delle cose). Ebbene, nella sua ambivalenza, il termine thauma, oltre che ‘stupore’ o ‘portento’, significa anche ‘orrore’, ‘angosciato terrore’, come quello, ad esempio, che potrebbe incutere la vista di un personaggio come Polifemo[14].

 

Ritornando a Platone, tra i riverberi del suo pensiero sul piano della moderna teoria della conoscenza, si possono ricordare, da un lato, il problema della demarcazione (tra epistēme e doxa, appunto) e, dall’altro, il logocentrismo occidentale che tenta di argomentare in modo inconfutabile questo confine, di arrogarsi il diritto di tracciarlo diciamo pure “per investitura divina”.

Tutte le volte. Mutatis mutandis. Paradossalmente[15].

E, se parlando di demarcazione non può non venire in mente Popper (che ha tentato di strappare al Neopositivismo di Schlick e Carnap una significanza più ampia rispetto a quella – rachitica – concessa dal principio di verificazione)[16], il concetto di logocentrismo ci riporta senz’altro a Derrida[17], che lo tratta alla stregua di un europocentrismo, ossia come quella sorta di imperialismo ideologico e culturale con cui l’Occidente ha voluto imporre la propria Razionalità (il Logos) nei termini di una ‘produzione di senso’ privilegiata, di una parola (ovvero, ‘la Parola’, quella per antonomasia) unica per raccontare la realtà. 

Guardando ancora alla filosofia greca, (e facendolo a posteriori, cioè alla luce delle successive peregrinazioni del pensiero), sembra aver ragione Cassirer[18] quando definisce le origini della filosofia come la “storia del trovarsi del Logos”. Un trovarsi, magari, per non lasciarsi più (o quasi), visto che è proprio dalla pretesa platonica di ‘svelare’[19] una volta per tutte il nocciolo stabile della realtà (cioè una legge che assicurasse prevedibilità e ordine alla molteplicità dei fenomeni esperiti) che traggono origine quei venti secoli di legittimazione teorica in cui la Ragione, fattasi sempre più astuta, non si è accontentata di spuntarla sulle sirene e sui ciclopi che popolano minacciosi il “gran mare dell’esistenza”, ma ha voluto anche avvicinare il nemico, sicura di rabbonire il demone cartesiano[20] e paga di identificarsi con quello di Laplace[21].

 

Nella ricerca di uno zoccolo duro su cui appoggiare le nostre credenze, infatti, Cartesio è stato tra i più radicali. Il suo dubitare (che, non per niente, meritò l’appellativo di ‘iperbolico’) si è tradotto in una serrata messa in discussione della conoscenza sensibile, dell’esistenza del mondo esterno, della convinzione di non essere da sempre e solo dentro un sogno e, addirittura, delle stesse evidenze matematiche. La sua domanda di partenza aveva, quindi, questa forma:

 

“Cosa accade se suppongo che un qualche ingannatore potentissimo e, se mi è lecito dirlo, maligno [un demone, ndr], mi abbia ingannato, quanto ha potuto, intorno a ogni cosa?”.[22]

 

Com’è noto, questo espediente servirà al filosofo francese per porre la sostanza pensante (cioè, l’Io, presupposto dalla stessa attività del dubitare) a invincibile fondamento della conoscenza.

 Accadrà poi che, morto un demone, se ne farà un altro. Ma il diavoletto supposto, oltre un secolo dopo, da Laplace appare del tutto in linea col la fiducia razionalistica inaugurata da Cartesio, trattandosi, in questo secondo caso, di una ipotetica mente onnisciente in grado di calcolare in modo deterministico passato e futuro del sistema-universo a partire dalla conoscenza di uno stato qualsiasi di esso.

L’età contemporanea, allora, si apre con una grande fede nel potere della scienza, osannata, per lo più, quale forma migliore di razionalità.

L’occhio di Dio, che ha sempre spaziato dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, questa volta lo fa attraverso i moderni micro e telescopi, sfidando anche il buon senso di galileiana memoria per cui, attraverso “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”, la mente umana avrebbe potuto ambire a eguagliare quella divina quanto a certezza della propria conoscenza (intensive), pur rimanendole indietro dal punto di vista dell’ampiezza di questa (estensive).

Dice infatti Galileo:

 

Extensive, cioè in quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto alla infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive […], dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente [che] credo che la [sua] cognizione agguagli quella divina nella certezza assoluta, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore”[23].

 

 Si capisce bene come, nonostante Laplace sembri sfidare la prudenza di Galilei, la hybris razionalistica[24] di cui si macchia il primo è figlia (ben legittima) della rivoluzione scientifica del Seicento che, abiure a parte, ha nel secondo il suo massimo promotore e rappresentante.

 

Il punto di vista di Dio, in questo senso, sarebbe di volta in volta diventato sistema, nomos, ossia regola, legge, parola unica per raccontare oggettivamente una realtà che si è fatta Kòsmos, unità scientificamente saputa.

 

 

Questi, quindi, i presupposti delle “grandi narrazioni” della storia del pensiero umano, che passeranno indenni e trionfanti persino attraverso l’irrompere della soggettività in età moderna, salvo poi a sospettare[25] che l’Io non solo “non è padrone in casa propria” (Freud), ma “è dove non pensa e pensa dove non è” (Lacan).

 

 

 Detronizzata da Copernico, naturalizzata da Darwin e assediata da Freud, la Ragione occidentale, tre volte umiliata e ferita, si riscopre “locale”, contestuale, culturale, storica.

 La disillusione e il disincanto, in questo caso, minacceranno le stesse fondamenta della sua dimora: se Cartesio aveva voluto erigerla, superba, sulla roccia, Popper si accontenterà di metterla in affitto su delle palafitte. Nietzsche la collocherà addirittura sulle falde infide del Vesuvio (lo sterminator Vesevo di leopardiana memoria).

 Ed è così che l’esistenza umana diventa consapevole della propria erranza, del proprio costitutivo nomadismo. Le certezze millenarie, da baluardo inespugnabile, diventano colossi dai piedi di creta. E Dio, da garante che era, diventa “la nostra più lunga menzogna”.

Uno dei più famosi “diari di bordo” in questo senso è la “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, una sorta di Bildungsroman, (di romanzo di formazione) della coscienza. In essa si vede come il viaggio esistenziale sia in realtà circolare, sia cioè nostos, non abbandonato mai dal desiderio di tornare: si parte sempre da un residuo identificativo rispetto al quale, se l’approdo è un confronto con l’alterità, il ritorno è un improrogabile appuntamento con se stessi.

Ma è un cerchio aperto, una spirale, perché ogni partenza è ogni volta la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro.

Hegel racconta così la parabola della coscienza, che si immerge, si perde e si ritrova nel mondo. Diciamo che in esso si rispecchia. Mutuando l’espressione dal gergo psicoanalitico, possiamo dire che le figure della Fenomenologia sono parti della coscienza stessa. Divenendo Autocoscienza, essa integra e “ritira” le proiezioni. Ma se siamo tutti d’accordo che dio è l’ottativo dell’uomo, è anche vero che non basta avere ingoiato l’orco per smettere di averne paura.

 Dietro le rassicuranti inferriate di un sanatorio o tra le guglie vertiginose di altare giansenista (e tutti gli altari sono, in qualche modo, giansenisti) o nei recessi dell’anima, l’Ombra confinata e reclusa – divina o demoniaca che sia – non smette di esigere spazio e soddisfazione.

Gli dei tornati sotto forma di malattia pretendono comunque che si sacrifichi ad essi. E siccome nell’orizzonte dell’esistenza segnato dal limite e dalla finitudine lo spazio è quello che è, più l’Altro che alberga in me ha opportunità di crescere (in maestà o in terribilità poco importa), più il piccolo uomo che sono è condannato a rimanere rachitico e atrofico.

 Come dire, anche se la sproporzione tra l’Io e i suoi padroni si fa interiore – che quasi verrebbe da parlare di navigazione fluviale piuttosto che marittima – la cifra del disagio dell’uomo rimane in ogni caso il suo bisogno (costitutivo e imprescindibile) di una metafisica che, seppure abbia mietuto vittime tra i suoi “innamorati delusi”, ha sedotto e continua a sedurre tutti.

 L’immagine che mi viene in mente è quella del film “Chocolat”, in cui la protagonista (J.Binoche), che pure “aveva viaggiato” tanto, sembra iniziare a vivere solo quando, accidentalmente, la piccola urna che custodiva le ceneri di sua madre va in frantumi. Ma la recisione di questo cordone non è forse stata la premessa di un nuovo radicamento?

 Il problema, allora, non sta tanto nella scelta di fare portare la propria croce a un Altro o nel confidare che sia lo Stato a dover (riconoscere e) difendere i miei diritti o la Tecnica a garantire il mio benessere o la Scienza a restituirmi un senso, bensì nella consapevolezza già voltairiana che “se dio non esiste, me lo costruisco di legno”.

 

 Se l’Olimpo s’è “rivelato” (un’illusione ottica?), gli uomini, chiamati a divenire adulti, devono sapere che possono proseguire il loro viaggio solo come i marinai di Neurath[26], che sanno di poter rimediare alle proprie avarie solo in mare aperto, lontani da un porto sicuro, da qualsivoglia punto fermo.

 Il naufragio è sempre in agguato, ma non sarà mai il naufragio con spettatore di lucreziana[27] memoria: l’osservatore che stesse a guardare dalla terra ferma avrebbe sicuramente quel punto di vista di Dio che l’uomo ha cercato di indossare attraverso tutti i suoi “massimi sistemi”. Egli vedrebbe senso e  movimento laddove il marinaio vede solo caos e stasi.

 

Qualcuno ha detto che, dopo Auschwitz, tutta la cultura è spazzatura.

Forse è vero.

In un mondo in cui la sete d’infinito e d’assoluto si è tradotta in totalitarismi e fondamentalismi, il dio morto non ha neanche una lapide conficcata in terra su cui poterlo piangere, le sue ceneri sono disperse in mare e gli unici valori a misura d’uomo sono punti-fermi-in-movimento.

Sono mentre divengono  e divengono mentre sono.

 

Che dire, allora, di fronte alla parabola millenaria della filosofia?

Qualcuno, assieme a Kierkegaard, dirà che:

 

ciò che i filosofi dicono della realtà è così deludente come il cartello “Qui si stira” che vediamo nella vetrina del rigattiere. Se vi portiamo il nostro vestito per farlo stirare, restiamo delusi, perché ciò che si vende dal rigattiere non è la stiratura bensì il cartello[28].

 

Qualcun altro, reso consapevole da questo percorso, potrà auspicare che il fil

osofo possa sopravvivere come pensatore dialettico, il quale non prova più il bisogno di nascondersi che la verità, quando esiste, non è esprimibile una volta per tutte e che le categorie (e gerarchie) concettuali possono essere abbandonate o, quanto meno, attraversate secondo molteplici sensi di marcia.

Come diceva Freud, soccombere in una leale lotta col destino è preferibile a una vita vissuta ai margini di se stessi[29]. Il viaggio psicodialettico, quindi, si pone come cammino d’individuazione dell’uomo, come graduale emergere della coscienza dal caos indistinto dell’inconscio uroborico. Non si tratta di certo di un percorso agevole, soprattutto nella sua fase più propriamente “dialettica”. È qui che avviene il confronto con gli aspetti negativi e distruttivi della propria Ombra, rispetto al quale la sintesi successiva (l’integrazione) appare di certo come una conquista. Mancare a questo appuntamento equivarrebbe comunque a un perdersi. Ovvero, a un vivere come quel tale che[30], avendo smarrito le chiavi della propria casa, si attardasse a cercarle ai piedi di un lampione – solo perché è lì che c’è più luce.

 

 

 


 

[1] (85cd)

 

 

[3] ό  δεύτερος   πλους  è la navigazione di rimedio, di necessità, cui si ricorre quando manca il vento

 

[4] Per sensibile intendiamo quel piano del conoscere cui si ha accesso con gli organi di senso o con la strumentazione scientifica: è l’insieme dei dati, mutevoli e molteplici. Il soprasensibile, per contro, è l’oggetto della conoscenza intellettuale, l’idea. Per mettere in relazione questi due piani, una concezione dualistica (come quella platonica) ha bisogno di creare tra essi una gerarchia: le cose così come ci appaiono esistono e sono pensabili (conoscibili) solo in quanto copie o (sbiadito) riflesso di concetti.

 

[5]Il termine ‘ontologico’ indica ciò che si reputa sia esistente. Il divario platonico ha pretesa di essere ontologico perché riconosce l’esistenza di entrambi i  poli tra cui esso si spalanca (sensibile e soprasensibile, appunto), solo che finisce col porli in una relazione di up-down.

 

[6] Limitatamente a quello che vogliamo sostenere in questa sede, l’aspetto ‘logico’ del dualismo platonico sta a significare le diverse vie d’accesso richieste, rispettivamente, dall’oggetto sensibile e dal concetto. Le cose vengono conosciute in modo empirico e immediato, le idee in modo razionale e mediato (a limite, tramite un’intuizione intellettuale).

 

[7] Dal greco àxios (άξιος, valido, degno), il termine ‘assiologico’  fa riferimento a una gerarchia nel modo di intendere le cose. La ‘priorità assiologica’, in particolare, spetta a quegli elementi che, di volta in volta, sono collocati all’apice di una gerarchia. Ad esempio, in geometria gli assiomi sono dei concetti posti a monte delle dimostrazioni, ‘ritenuti degni’ di costituire le ipotesi basilari e la cui validità si dà così tanto per buona (già in partenza) da non abbisognare di ulteriori dimostrazioni (anzi, come si è detto, essi sono proprio la premessa per la dimostrazione di qualcos’altro). Può essere utile ricordare che, mentre nella geometria classica (euclidea) si cercava ancora di giustificare questo privilegio accordato agli assiomi appellandosi al loro presunto essere “più evidenti” di altre proposizioni, a partire dalla scoperta delle geometrie non euclidee (cioè, con la crisi dei fondamenti di matematica e geometria, nel XIX secolo), c’è accordo nel ritenere la posizione (privilegiata) degli assiomi frutto di convenzioni metodologiche. In parole povere, per dimostrare e derivare tutta una serie di cose, si deve pur partire da qualcosa. Ovviamente, non si tratta di decisioni totalmente arbitrarie, ma di scelte che rivendicano pur sempre dei criteri, sebbene meno ambiziosi della presunta autoevidenza degli assiomi euclidei (ad esempio, partire da certe ipotesi può rendere una teoria più elegante o più semplice dal punto di vista formale).

 

[8] (98c-99b). Corsivo nostro.

 

[9] L’etimologia del termine idea conserva una traccia di questa accezione del ‘sapere’ inteso come ‘vedere con la mente’. Il termine deriva, infatti, dalla radice indoeuropea id-, alla quale sono riconducibili sia il latino video, sia uno dei temi principali del verbo greco orào (οράω, vedo), cioè  òida (οιδα: so in quanto vedo).

 

[10] Nella misura in cui anche le metapsicologie sono teorie, mi sembra probabile che pure gli archetipi junghiani siano una forma di ordine razionale (un “Cosmo”) cui ricondurre il fascio (caotico) di vissuti intrapsichici. Tuttavia, mi sembra che si possano fare delle differenze con le idee tradizionali della filosofia.

Jung arriva sulla scena dopo che qualcun altro (Freud) aveva denunciato la nudità del re.

Il passaggio alla modernità, da questo punto di vista, era già avviato.

Nel puntualizzare questo, sento di essere interessata non tanto a rivendicare un’eventuale priorità di Freud su Jung (entrambi sono stati rivoluzionari, ognuno a modo proprio, anche se hanno avuto una portata storica diversa), quanto piuttosto a supporre che la razionalità dispensata dagli archetipi sa (ormai irreparabilmente) di dover fare i conti con il proprio lato umbratile.

A questo va aggiunto che gli archetipi, in quanto amplificazioni di nuclei complessuali soggettivi, sono segnati storicamente e antropologicamente. Insomma, essi hanno un’umiltà (e consapevolezza) epistemologica che certi immutabili filosofici non hanno.

Almeno un’obiezione, però, mi sembra possibile.

Nella misura in cui “l’iperuranio degli archetipi”, per Jung, è l’inconscio collettivo, sembrerebbe che egli li tratti alla stregua di entità trascendentali (cioè, di strutture universali – e spesso, in filosofia, ‘universale’ si lega a ‘necessario’, quindi astorico). Ma questa eventualità, lungi dal riportarci a Kant (che aveva ancora il proprio studiolo nella testa di Dio), potrebbe condurci a Hegel (cioè, all’Assoluto che entra nella storia e sente il bisogno di integrarla). Da questo punto di vista, cos’è la fenomenologia dello spirito se non quell’ontogenesi che, nel proprio piccolo, ripercorre la filogenesi, spinta dal bisogno di trovare per essa una giustificazione personale?

 

 

[11] Platone, Teeteto, (155d).

 

[12] Aristotele, Metafisica, Libro I (A), 2, 982b 12

 

[13] In altri termini, la filologia esamina il fatto linguistico (la parola) sul crocicchio in cui si intersecano, da  un lato, il modo in cui esso viene “sentito” in un dato momento storico (sincronicamente) e, dall’altro, il modo in cui si è evoluto storicamente (diacronicamente).

 

[14] Odissea, 9, 190. Qui, infatti, troviamo l’accezione di thauma legata al tema dell’angoscia procurata dalla visione del ‘mostro orrendo’. Potrebbe essere interessante notare che all’unica radice dhau- possiamo ricondurre, oltre che thauma (θαυμα, meraviglia, sgomento), anche il verbo theàomai (θεάομαι, guardare, contemplare, stupirsi vedendo), il cui legame con theatron (θεατρον, teatro) la dice lunga sulla funzione catartica della tragedia per gli antichi. Ben prima di Moreno e di Landy, infatti, i Greci sembrano avere scoperto, nell’espressione teatrale, il potere di rispecchiare e restituire ansie e conflitti (interiori e sociali) a quella ‘distanza estetica’ bastevole, al tempo stesso, a non essere sommersi da questo materiale ‘critico’ e a ri-comprenderlo (capirlo e integrarlo).

 

[15] L’aspetto paradossale dell’alternanza dei diversi sistemi assoluti, in filosofia, consiste nella loro pretesa di dire, ognuno e ogni volta, la Verità sul reale e sulla conoscenza.

 

[16] Il principio di verificazione, nei termini del Neopositivismo, decideva che l’unico criterio per cui un’affermazione potesse avere significato scientifico fosse il fatto di essere verificabile. Nonostante le successive ‘liberalizzazioni’ di questo criterio nella direzione di una ‘verificabilità in linea di principio’ (quella per cui, ad esempio, non sarebbe del tutto insensato parlare dell’altezza delle montagne site sull’altra faccia della Luna, nonostante, fattivamente, non se ne possa fare esperienza), esso divenne inservibile perché troppo angusto e rigido (basti pensare che, passate al setaccio di questa norma metodologica, le stesse leggi fisiche non sarebbero significanti!!). Per non tacere, inoltre, del fatto che  neanche lo stesso principio di verificabilità riuscirebbe a sopravvivere a se stesso (ovvero, quale stato di cose potrebbe verificarlo? Per questo, si dice che esso è auto-contradditorio). Diversamente, col principio di falsificazione (che demarca tra ciò che è scienza e ciò che non può esserlo – e non tra ciò che ha senso e ciò che è insensato) Popper sancirà la possibilità per la metafisica (cioè, il mondo dei valori, delle credenze personali, delle fedi) di avere comunque una sensatezza pur non essendo scienza.

 

[17] J.Derrida (1930-2004), filosofo francese. Il suo nome è legato alla filosofia della Decostruzione, cioè a quel modo di accostarsi al pensiero tradizionale così da “ascoltare” in esso l’eco metafisica, l’impianto ideologico e quant’altro, dall’interno, dovesse minacciare le sue stesse pretese di totalità, obiettività ed esaustività. Tra i bersagli polemici di Derrida c’è il logocentrismo occidentale, cioè la convinzione che l’Essere e la Verità si diano immediatamente attraverso il Logos (il linguaggio).

 

[18] E. Cassirer (1874-1945), filosofo tedesco. Tra i principali pensatori che ripresero il pensiero di Kant, egli si dedicò quasi esclusivamente alla gnoseologia (critica della conoscenza) delle varie forme culturali (linguaggio, arte, mito, religione, e non solo scienze esatte).

 

[19] I Greci designavano il concetto di “verità” col termine alètheia (αλήθεια, non nascondimento, svelamento), derivante dall’accostamento dell’alfa privativo (α-) al verbo lètho (λήθω, essere nascosto).

 

[20] Cartesio, nome italianizzato di René Descartes (1596-1650). Scienziato e filosofo francese, fu il massimo esponente del Razionalismo francese (per cui gli oggetti della conoscenza – cioè, le idee e le connessioni necessarie tra esse – sono innate e non derivano dall’esperienza). Il demone di cui parla Cartesio supporta l’amplificazione, messa in opera dal Filosofo, del livello in cui possiamo porre in dubbio le nostre certezze. In altre parole, sembrerebbe suggerire Cartesio, per rifondare la conoscenza, occorre partire da zero, rimettere in discussione tutto, anche ciò che ci appare come più evidente, come se ci fosse, appunto, un Essere superiore e burlone che può prendersi gioco di noi. È proprio il caso di dire che, così facendo, Cartesio giocò a fare “l’avvocato del diavolo”…

 

[21] P. Lapalce (1749-1827), astronomo, fisico e matematico francese. I suoi lavori di astronomia riprendono l’idea già enunciata da Kant sulle origini del sistema solare (nota in letteratura come “ipotesi Kant-Laplace”) e si inseriscono perfettamente nel quadro della fisica classica (newtoniana). Il demone di Laplace è legato ai suoi studi sulla probabilità. Pur nella consapevolezza che, su molti fenomeni naturali, possiamo pronunciarci con espressioni solo probabilistiche (e non certe), i tempi non erano ancora maturi per una messa in crisi profonda del determinismo allora imperante. Per questo, egli suppose l’esistenza di almeno un’intelligenza onnicomprensiva (il demone, appunto), per la quale nulla sarebbe incerto.

 

[22] Meditazioni sulla filosofia prima, Mursia, pg. 60-61. Corsivo nostro.

 

[23] Dialogo dei massimi sistemi, Fabbri, vol. 1, pag. 140-141. Corsivo nostro.

 

[24] Il termine hybris (ύβρις) per i Greci indicava tracotanza, insolenza, dismisura (e in rapporto agli Dei, e nelle relazioni tra gli esseri umani). Come “esibizione violenta della propria (vera o presunta) superiorità”, essa era addirittura sanzionata dal diritto penale della Polis del V e IV secolo a.C. (cfr. Demostene; Eschine). Un’esigenza molto cara alla mentalità greca era, infatti, costituita dalla chiarezza nel rapporto colpa-sanzione (basti pensare che una colpa, pur di essere punita, veniva anche “ereditata”). Se dal punto di vista del Diritto, la hybris costituiva il contraltare di Dike (δίκη, costume, diritto), Eunomia (ευνομία, osservanza delle leggi, buon ordine civile) e Sophrosyne (σωφροσύνη, saggezza, prudenza, modestia), è nella letteratura tragica che abbondano i casi di hybris commessa contro gli Dei: un esempio è rappresentato, nell’Antigone di Sofocle, dal personaggio di Creonte il quale, mancando di qualsiasi pietas religiosa, lascia senza sepoltura il defunto nipote Polinice. Similmente, possiamo pensare a Penteo, ne’ Le Baccanti di Euripide, che viene punito per l’arroganza (la hybris, appunto) con cui si era rifiutato di ammettere il culto dionisiaco a Tebe.

 

[25] Il termine è qui usato nell’accezione con cui  P. Ricoeur  (1913-2005) parla di “Maestri del sospetto” a proposito di Marx, Freud e Nietzsche, i quali riescono a scardinare dalle fondamenta i sistemi teorici  e morali tradizionali .

 

[26] O. Neurath (1882-1945), filosofo e sociologo austriaco. Fu tra i fondatori del Circolo di Vienna (assieme ad H. Hahn, R. Carnap e M. Schlick), all’interno del quale si occupò soprattutto della complicata rifondazione delle scienze sociali su base empirica. Attraverso la sua metafora nautica, Neurath intende rendere conto di quanto sia difficile ancorare la nostra conoscenza (anche quella fattuale) a “porti sicuri”, cioè a punti di vista assoluti (ai “fatti” sic et simpliciter, al di qua di qualsiasi mediazione teorica). Può essere utile ricordare che, nel solco dell’Empirismo (cioè, di quella tradizione volta a stabilire un confronto tra le capacità conoscitive dell’uomo e l’esperienza), il ruolo dell’esperienza è connotato, sin dalle origini, da una sorta di ambiguità: da un lato, essa è auspicata come origine della conoscenza (da qui, la polemica contro gli innatismi); dall’altro, essa è usata come banco di prova, cioè come criterio di controllo della conoscenza (valida solo se suscettibile di controllo empirico). Troviamo questo dibattito in Locke e Hume, così come anche nel Novecento, nel Circolo di Vienna e nelle sue evoluzioni. Bisognerà attendere Reichenbach e la distinzione tra un contesto della scoperta e un contesto della giustificazione per sfatare la convinzione che la conoscenza valida abbia necessariamente  origine dall’esperienza. Come dirà Popper, la “scoperta” ha più a che fare con l’arte che non con la scienza poiché, il più delle volte, prende spunto da idee, insight, creatività. Spulciando nell’aneddotica, scopriamo che il chimico Kekulé arrivò all’anello del benzene sognando un serpente che si mordeva la coda; il modello di atomo del fisico Bohr fu ispirato da un suo sogno del sistema solare; per non parlare della nota leggenda per cui Newton arrivò alla legge di gravità osservando una mela cadere da un albero. Nelle dichiarazioni programmatiche della moderna epistemologia, invece, ha goduto di una maggiore persistenza la concezione di esperienza come setaccio cui sottoporre, a posteriori, la conoscenza, cioè come banco di prova del sapere (fermo restando, però, che neanche su quest’ultimo aspetto sono ammissibili concezioni troppo ingenue e semplicistiche) .

 

[27] Tito Lucrezio Caro (98ca-54ca aC.), poeta e filosofo latino. Seguace di Epicuro, fu autore del De rerum natura, poema in cui si sostiene l’infinità del mondo e nel quale, in modo assai moderno, vengono prese in considerazione le angosce e le paure irrazionali da cui è avvolto l’essere umano.

 

[28] Aut, Aut, in Opere, vol. 1, Piemme.

 

[29] Introduzione alla psicoanalisi, vol. II, Boringhieri.

 

[30] G. Schelotto, Distacchi e separazioni, Mondadori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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