TEMI DI PSICODIALETTICA a cura del Centro internazionale di Psicodialettica Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta
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da Negazioni (4° capitolo) |
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Intermezzo (pag. 78)
Come dicevamo è molto conosciuta, nella nostra città, una divertente storiella i cui sviluppi interpretativi si prestano ad andare ben al di là del suo primo ascolto. È dunque importante, durante la sua lettura, tenere ben presente, ma non al punto da guastarsi il divertimento procurato dai fatti puri e semplici, le implicazioni filosofiche e la domanda centrale che ci siamo posti nel primo paragrafo. Veniamo dunque al racconto. Un simpatico bevitore, che molti di noi, i meno giovani, ricordano per il suo linguaggio pronto ed arguto e per un'assiduità al vino che non gli concedevano né deroga né tregua, era solito uscire ogni sera ad ora tarda dall'abituale osteria. Ci pare ancora di vederlo brancolare, così avvolto dai densi fumi interiori che gli riusciva spesso difficile ritrovare la strada di casa. Nella stagione autunnale, poi, la nebbia, che nella piana del Po assai spesso appensantisce i vicoli e nasconde le cose, era solita mescolarsi, dinanzi ai suoi occhi, ai fumi del vino, già di per sé catalizzatore sicuro ed affidabile di potenti rappresentazioni, ponendo di fronte agli occhi del personaggio a noi caro, uno scenario fra i più grigi, cupi e indecifrabili. Quando si davano quelle condizioni estreme egli sbatteva spesso contro oggetti, persone o muri non importa, ed ingaggiava, con i medesimi, a volte prolungati alterchi, a volte grevi monologhi, non di rado sui massimi sistemi. Era solito, inutile dirlo, avere la meglio, data la paziente 'oggettività' dell'interlocutore, in quella che lui considerava, al di là di ogni dubbio, una discussione alla pari. Accadde così che una sera egli capitò, avendo sbandato più del solito nella strada del ritorno, in una via principale della città, che non era per lui una delle più consuete: una strada con grandi portici sostenuti da enormi pilastri. Ed è proprio contro uno di questi che quella volta il malcapitato andò a sbattere. Dopo le prime imprecazioni e i soliti insulti, rivolti cupamente (a chi lo conosce par d'udire ancora il timbro roco e monotono della sua voce) a quell'ostacolo che gli chiudeva il cammino, egli cominciò a tastare, confusamente ma con tutto l'impegno possibile, il muro, le sue screpolature, i suoi rilievi; le scanalature in cui sfondava, le lesene in cui sbatteva. Ed è così che, mugugnando e tastando, cominciò a muoversi lungo il muro nel tentativo, ancor più arduo del solito, di trovare il passaggio per tornare a casa propria. Strisciò lentamente lungo i mattoni finché non giunse al primo spigolo del pilastro. A causa delle svariate e negative circostanze che abbiamo elencato egli, poiché in quel momento era ottusamente orientato, non poté percepire l'acutezza dello spigolo. Dopo un moto di sorpresa e nuove imprecazioni cambiò direzione, sempre cercando di aderire alla muratura e di tastare bene, sostituendo il tatto alla vista, ciò che gli capitava sotto le mani. Così egli percorse lentamente e faticosamente tutto il perimetro del muro finché non tornò a sentire e "riconoscere" (ecco la "cosa" terribile e straniera!), con le sue mani, lo stesso punto da cui era partito. Allora, più che dalla sorpresa, fu assalito dalla disperazione e, nel sussulto ultimo di energia che questa gli diede, gridò angosciato: "Mio Dio! Mi hanno murato vivo." Il racconto popolare finisce qui, ma noi non possiamo esimerci dall'immaginare il resto dell'avventura perché ciò è essenziale ai nostri scopi. Vogliamo dunque pensare che, dopo qualche tempo, la rassegnazione, che prima o poi, per grazia, la stanchezza sovrappone sempre al dolore, soprattutto se sostenuta ed accelerata dal vino, lo abbia consigliato a lasciarsi scivolare lentamente lungo la parete della sua invincibile prigione e che lì il sonno lo abbia finalmente colto tra gli ultimi fiochi gorgogli della sua stremata costruttività. Proseguiamo poi immaginando cosa può essere accaduto quando le ancor grigie luci del mattino, lo scalpiccio dei primi passanti e i loro commenti divertiti (tutti lo conoscevano) colpirono i sensi, ormai meno ottenebrati, del nostro protagonista, che stava lentamente tornando al giorno e alla coscienza. Si solleva su un gomito, guarda, ancor offuscato, attorno a sé, e vede le confuse figure delle persone; ma soprattutto, con ancor più sorpresa e incredulità, vede la luce, i grandi spazi aperti. La prigione non c'era più! Non conosciamo in che modo egli sia uscito dalla sua felice perplessità né come l'abbia integrata nei suoi massimi sistemi. Ci interessa però sapere come egli abbia potuto uscire dalla sua prigione e, forse ancor più, sapere anche come vi sia potuto entrare. Questa storiella,9 che nella città si tramanda come un aneddoto vero, richiama e getta luce, la luce immediata e chiara del racconto, su un famoso "koan", o dilemma, della dottrina Zen. Essa poi, come il koan, getta luce anche, ci pare, sulla teoria del mondo come rappresentazione, e sul sacro e il tragico che noi vediamo confortare o assediare, da fuori, la nostra esistenza. Cosa "chiede", in questo koan, il maestro al suo adepto? Il maestro chiede presso a poco questo: "Molto tempo fa un uomo teneva un'oca dentro a una bottiglia. L'animale crebbe e crebbe finché non poté più uscire da quella che era ormai diventata per lui una prigione di vetro trasparentissimo; l'uomo avrebbe voluto liberarla ma non voleva né rompere la bottiglia né far male all'oca. Tu, se fossi al posto suo, come risolveresti il problema?" Questa è la versione del celebre koan così come è riportata da Alan Watts [1958, p.65]10; il maestro zen aggiunge sempre, ci dice ancora Watts, come complemento indispensabile al quesito appena esposto all'allievo, le seguenti interpretazioni e condizioni vincolanti: l'oca rappresenta l'uomo mentre la bottiglia rappresenta la sua vita, che con le sue circostanze ingabbianti lo imprigiona. Due sono le risposte al koan che l'esperienza può fornire: o rompere la bottiglia senza far male all'oca o fare a pezzi l'animale nel tentativo di estrarlo senza distruggere la sua prigione. In entrambi i casi si tratta di una scelta sbagliata perché, a causa del significato imposto alle figure del koan, nell'un caso l'uomo ammazza l'oca, nel secondo nega, ossia toglie, la sua vita, che è poi la stessa cosa. Lo zen offre al dilemma la propria soluzione introducendo la nozione di satori, o risveglio: si tratta di quello stato in cui ci si viene a trovare quando la mente abbandona il suo abituale modo di vedere il mondo. Nel risveglio l'oca si ritrova, allo stesso modo del bevitore, improvvisamente fuori dalla sua immaginaria prigione, senza sapere come ciò sia accaduto. Il fatto è che la prigione del bevitore e la bottiglia del koan non esistono empiricamente o positivamente. Derivano solo da un certo tipo di lettura del mondo. Cambiando lettura, esse non ci sono più. Sono sparite. Ma solo apparentemente. La prigione o la bottiglia ci sono ancora e sono "reali"; solo che esse sono reali in altro luogo. Sono reali non fuori di noi ma dentro di noi. Inoltre esse sono reali ma non concrete. Sia l'oca che il bevitore avevano in sé qualcosa che li imprigionava: a vecchi schemi, a idee altrui, a stati precedenti della propria vita. Entrambi avevano costruito fuori di sé quella che altro non era che la loro prigione interiore. E la credevano concretamente vera. Questa loro prigione era fatta di conoscenza, non di mattoni. Ed era solo la loro lettura del mondo ad interpretare, conoscere, astrarre e costruire questa "manifestazione di realtà". Nel satori, o nel risveglio, vengono riconosciuti come propri la bottiglia e la prigione; quindi essi possono venir ripresi dentro di sé per elaborarli, a livello non più arcaico e magico ma differenziato e riflessivo. Il soggetto passa dall'idea di Destino, o della cosa già data fuori di lui, all'idea di Progetto, o della propria libertà e responsabilità nel costruire la conoscenza, nel costruire la terra e il male.
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