TEMI DI PSICODIALETTICA a cura del Centro internazionale di Psicodialettica Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta
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Poesia e suicidio: Antonia Pozzi |
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Poesia e suicidio: Antonia
Pozzi.
di Emanuela Bellini
“Chi sa se il vivere non sia
morire
e il morire non sia vivere”
Euripide
Scrive Hillmann: “Le conoscenze
dell’analista, più che dalla medicina ortodossa, sono tratte dalla
filosofia, dalle arti, dalle religioni e dalla mitologia, perché è in
quei campi che sono espresse le formulazioni della psiche oggettiva.
Essi descrivono i modi in cui l’anima vede ed esperisce la vita e la
morte”.
Poesia e suicidio contengono i
termini ultimi e inscindibili del discorso esistenziale: vita e morte.
La poesia ne canta l’intreccio profondo, il suicidio ne incarna il
legame inafferrabile. E nessuno più dello psicoterapeuta, uomo ferito
che fa della propria ferita arte di vita e lavoro, accosta e accompagna,
nel suo quotidiano peregrinare, l’esperienza di entrambi questi opposti,
voce e coro sempre diversi e unici nel logos della sofferenza
individuale.
Quando poesia e morte volontaria si
combinano, accade qualcosa di diverso, qualcosa in più rispetto a quando
si presentano isolati. La vita appare così sentita, fin nei più
reconditi meandri dell’anima, il dolore è così immenso e trapelante, che
realtà interna ed esterna arrivano a perdere i confini, fino a fondersi
in parole profonde e universali, tanto da far risuonare verità che
appartengono ad ogni essere umano. Prima tra tutte il fatto che il buio,
la sofferenza, la morte sono dentro di noi e inestricabilmente connesse
all’evolvere dell’esistenza. L’essere umano è l’unico tra gli esseri
viventi che può essere consapevole della propria vita e che può
scegliere volontariamente la propria morte. E quando l’uomo sceglie la
morte, inevitabile è, per chi rimane e si pone in ascolto, l’emergere di
un inquietante e oscura domanda: che senso ha la morte per o nella
vita?
Fu Schopenhauer, con l’essenzialità
dei suoi aforismi, a dire che “Tutti vogliono vivere, ma nessuno sa
perché”: interrogarsi sul significato ultimo della vita è,
fondamentalmente, immergersi in un mistero, e ancora più misteriosamente
arduo è tentare di esprimere qualcosa che, come la morte, non si lascia
afferrare e spiegare. Ed è forse dall’anima del poeta che, sgorgando
sonorità tanto divine quanto terrifiche, l’oscurità e l’immensità delle
verità esistenziali trovano strumento attraverso cui trasformarsi in
canto; un canto di umana e generosa comunione rivolto ai propri compagni
di viaggio. L’uomo-poeta, cammina su un ponte rischioso, là dove pochi
osano passare: si affaccia sull’arcano paradosso della vita,
un’immensità che nasconde il nulla; e si fa apollineo portavoce del
dionisiaco che c’è in ognuno di noi.
Ma proprio lì, in bilico su questa
catartica e sintetica visione di passaggio, l’occhio umano, troppo
esposto alla luce o troppo avvolto dal buio, può imbattersi nel rischio
di accecarsi per sempre.
Antonia Pozzi non era imperniata da
malinconia folle o psicotica, era piuttosto un’anima aperta e inerme di
fronte alla mestizia profonda; una costante e inesauribile
consapevolezza della vita come incessante commiato permeò quasi tutta la
sua breve vita. Nella poesia Fiume emerge un disincanto
pietrificante e desolante: O giorno,/ o fiume,/ o irreparabile
andare-// crescono alle tue rive le menzogne/ come ghiaie dure-/
s’innalza alla tua foce un bianco/ sepolcro per le tue/ onde-// o
giorno,/ o fiume,/ o irreparabile andare che percorre l’anima-// o mia
anima/ in solitudine eletta/ perché viva entri/ nella sua bara.
Era una donna di infinita
sensibilità, di grande cultura ma anche di cristallina fragilità ed
ancestrale insicurezza, che fu fatalmente toccata da delusioni e
rifiuti, sia in ambito sentimentale che artistico. I suoi occhi furono
lucidi e razionalmente acuti nello scorgere le brutture della vita, le
ipocrisie e le miserie umane. La sua poesia e i suoi scritti non solo
attinsero dal - ma si fecero carne e voce del- pozzo incantato e buio di
sentimenti atroci e disarmanti, come il vissuto di inconciliabile
estraneità, di perdita, di vuoto incommensurabile, di incomunicabilità:
“Rifiuti, da tutta la realtà, ad ogni passo. E ad ogni passo, nuove
ricerche per una foce che non esiste. E che non deve esistere. Di questo
la coscienza mi avvisa. Donarsi è abdicare alla propria personalità”.
Fu lacerata da sempre tra un mondo
vissuto dal di dentro, sconfinatamente profondo e un mondo ingiusto,
sordo e castrante là nella superficie delle cose e delle persone più
lontane e più vicine. A soli 14 anni, la notte di capodanno, annota nel
suo diario quanto sia inutile tutto l’affanno che gli uomini vivono a
causa di fittizie convenzioni inventate da loro stessi, e ascolta…
“Tic-tac, tic-tac, tic-tac… uguale, monotono, inosservato; fino ad
un’altra notte come questa, per 365 giorni ancora./ Un altro anno
di vita”.
La lucidità precoce e chirurgica
con cui vide, nell’essere umano, la fragilità da un lato e la malvagità
dall’altro, è impressionante. Antonia amava visceralmente la poesia, che
quasi in maniera naturale e senza sforzi divenne per lei fonte di
creazione e dunque di vita, la quale appunto le permetteva non solo di
esprimersi ma di essere. Nella lettera ad un suo amico e poeta scrisse:
“Perché non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che
brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata,
irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E
vivo della poesia come le vene vivono del sangue”. Sente che la
poesia “ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci
spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella
suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità
celeste del mare.” Ma appare chiaro, anche, che la poesia, questa
immensità che le permette di sopportare e sublimare il dolore e la
sofferenza, è, allo stesso tempo, qualcosa che lei sente, desidera e
cerca alla pari della morte: “ La poesia è una catarsi del dolore,
come l’immensità della morte è una catarsi della vita”.
Antonia aveva “scoperto in tutte
le cose un principio di corruzione, un verme nascosto”. Scorgeva con
fulminante genuinità l’incertezza di ogni cosa umana e il perpetuo
mutamento che soggiace all’esistenza: “(…) la vita cambia ad ogni
istante, ogni forma dell’essere nasce con un principio di morte,
l’eterno è in tutte le cose, è nell’incessante variare di tutte le cose,
ma nessuna cosa è l’eterno”. Ma in questo fluire inarrestabile e
alienante, a nulla, le sembra, che ci si possa aggrappare: “Nàufraghi
sugli scogli/ ognuno narra/ a sé solo – la storia di una dolce casa/
perduta,/ sé solo ascolta/ parlare forte/ sul deserto pianto/ del mare
-// Triste orto abbandonato l’anima/ si cinge di selvagge siepi/ di
amori:/ morire è questo/ ricoprirsi di rovi/ nati in noi”. Le sue
poesie diventano testimonianza di una coscienza spietata e senza difese:
una tale profonda, assoluta, solitudine e un dolore inevitabile,
ingiusto, diabolicamente percepito come incastrato nel proprio essere e
nei propri limiti, la attirano verso il desiderio di morire e di porre
fine allo strazio che la abita. La sua autocritica e la sua autostima
paiono così deboli e sfrangiate.. “è presto per essere stanchi. Ma se
non ho più forza, se tutti mi vincono, se sono inferiore, perché lottare
ancora e ansare e piangere?”.
Solitudine, vuoto, morte, in
Antonia, sono spettatori chimerici che velocemente diventano i primi e
gli ultimi protagonisti incontrastati del suo palcoscenico vitale; si
assestano sulla sua strada quotidiana come una futura promessa di pace.
Complice di questo lasciarsi andare alle tetre tenaglie della malinconia
più nera, non ci fu solo un amore mancato alla sua realizzazione, a cui
Antonia rinuncia per una terribile devozione ai genitori ottusi e ciechi
all’animo e il volere della figlia, ma un’incondizionata e
sproporzionata donazione di sé all’amore mischiata ad un incredibile
senso di inadeguatezza, fatto di una tale profonda umiltà, pudore,
remissività da non sentirsi nemmeno degna, rispetto al mondo, del suo
grande talento, del suo unico grande riscatto espressivo, i suoi versi.
Dopo aver accennato al suo professore universitario che scriveva poesia,
disperata e rabbiosa verso se stessa scrisse: “Perché gli ho detto
che scrivo degli orribili versi?”. Rimase immobilizzata dalla
reazione smorzante del suo ambiente letterario dal quale si sentì
rimandare “Scrivi il meno possibile” e “Tu sei molto
intelligente ma molto disordinata”. Non pubblicò infatti nessuna
delle sue quasi 300 poesie. Proseguì, sola, nelle maglie ingabbianti di
Un destino (…) “Ma sul lento/ tuo andar di fiume che non trova
foce,/ l’argenteo lume di infinite/ vite – delle libere stelle/ ora
trema:/ e se nessuna porta/ s’apre alla tua fatica,/ se ridato/ t’è ad
ogni passo il peso del tuo volto/ se è tua/ questa che è più di un
dolore/ gioia di continuare sola/ nel limpido deserto dei tuoi monti/
ora accetti/ d’esser poeta”.
L’amore per la vita vera,
intravista dai suoi occhi puri e inquieti, e l’incapacità di
concretizzarla, la dilaniarono in un inconciliabile conflitto interno:
“Da una parte l’Antonia delle poesie e dei buoni principi, dall’altra
un essere senza volontà e senza centro”. C’era una vastità di mondi,
dentro e fuori di lei, ma, ormai disarmata, ammetteva a se stessa: “Allora
erano più grandi di me e mi chiamavano in alto, adesso sono più forti di
me e mi schiacciano”.
Antonia scelse, in silenzio, di
andare incontro alla morte e, forse, solo le parole asciutte e potenti,
di un altro grande poeta, come Cesare Pavese, risuonano echi lontani,
compagni e degni di un grande mistero: “Ci si uccide perché un amore,
qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità,
nulla”.
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