TEMI DI PSICODIALETTICA a cura del Centro internazionale di Psicodialettica Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta
|
|
Transfert |
|
Home | Presentazione | Storia del Centro | Il pensiero | Trasformazione | Letture
Pubblicazioni | Links | Articoli | Proprietà | La pagina letteraria
Transfert
di Amelia Bacchi
Ora devo scrivere
di lui, del mio dottore, quello dal quale cominciai ad andare quando
stetti male prima del matrimonio; continuai ad andarci, certa che mi
avrebbe accompagnato nel cammino della mia vita serenamente. Fino ad
ora ho solo detto che è esistito, che ha significato molto per me e
che poi è morto. Adesso so che posso dire tutto il resto. Posso dire
che lui era tutta la mia vita, allora. Ero stata molto male e mi
avevano condotta da lui, dietro consiglio di un altro medico. Andai
da lui stanca, scettica, vuota. Fin dalla prima volta lui riempì la
mia mente, la mia anima, i miei sensi. I suoi occhi mandavano
bagliori; l’intelligenza usciva dalle parole e dagli sguardi con
un’energia infinita. Mi guardava mentre senza rendermene conto
riempivo la nostra stanza con la storia della mia vita. Teneva le
gambe allungate sotto il tavolo e mi fissava. Le sue mani erano
bellissime, la sua stretta calorosa e intensa. Fin dalla prima volta
tutto fu intenso fra noi. L’empatia che ci avvolgeva era unica,
magica, misteriosa e potente. Io ne ero travolta. Camminavo felice,
correvo, guardavo il cielo, i colori erano tutti più brillanti, le
parole, tutte le parole avevano una forza nuova e diversa. Lui
riempiva la mia vita, io scrivevo tutto quello che avrei detto la
volta successiva, e ogni volta i miei racconti erano più carichi di
significati, simboli, spiegazioni. Io volevo stare con lui,
comunicare con lui, dividere con lui tutta la mia vita. Non pensavo
più alla mia malattia, cercavo di stare bene perché sapevo che lui
ne sarebbe stato felice. Poi gli manifestavo la mia angoscia per
attirare la sua attenzione. Parlavamo come se ci fossimo amati da
sempre. Quando entravo nel suo studio la realtà si allontanava in
modo incommensurabile; entravamo in una dimensione assoluta,
stellare, con altre regole di comunicazione. Le parole avevano una
forza dirompente, anche quando erano lacerate e frammentate. Gli
sguardi, i nostri sguardi, segnavano la mia vita o la mia morte.
Tutto avveniva in modo istintuale, immagini adamantine si
susseguivano, ci avvolgevano. L’aria era carica di simboli. Un
grande mistero mi sovrastava. Tutto era ardente, infuocato. I sensi
erano stimolati da ogni parola o gesto, i nervi tremavano e
fremevano. La simbiosi si attuava nell’estasi e nel dolore.
Trasmettere l’anima era la mia meta ad ogni seduta, trovare le
parole giuste non era uno sforzo di volontà ma una prova di
coraggio, il coraggio di gettarsi nel vuoto con la certezza che le
parole perfette sarebbero arrivate, era chiudere gli occhi e tendere
le mani verso di lui, poi cominciare a parlare e aspettare che la
parte lunare e nascosta della mente straripasse con le parole
visionarie che mi avrebbero unito a lui. L’unione d’anime era tutto
ciò a cui aspiravo, non esisteva niente altro. Cominciai a
scrivergli lettere in cui gli parlavo della profondità della mia
anima, perché sapevo che a parole non ci sarei riuscita; questa è
una delle tante che ho conservato: “Raccolta nel silenzio della sera
mi ricordo il tuo sguardo. Il tuo tempo si ferma al mio fianco, mi
ascolta e interrompe il mio pianto. E’ freddo in questa tenue sera
mentre sento il tuo sguardo entrarmi nel pensiero e fermare
l’angoscia. Mi perdo mentre ascolto l’eterno respiro del mondo e non
scorgo nient’altro che il battito lento del tempo e lo spazio di
morte attorno alle nostre povere divinità. Ricerco un immobile
istante di gioia e di pace per calmare la mia affannosa ricerca di
vita, la mia corsa per sfuggire al vuoto che affoga e cancella i
pensieri. Quando finalmente mi coglierà il sonno potrò stringere al
cuore il tuo sguardo, amarlo con tutto il mio povero amore
imperfetto e lasciare che la tua voce penetri piano dentro la mente,
così lentamente smetterò di tremare. Smetterà di tremare il mio
tempo, il mio mondo non vacillerà, il tuo sguardo sarà nel mio
sguardo e la tua parola fin dentro al mio cuore; smetterò di correre
perché il tempo si sarà fermato e il vuoto sarà distante come mai è
stato: quando tu passi nella mia mente l’attimo diviene eterno e il
vuoto si ferma e ti lascia parlare. Tu mi parli e io tocco il dolce
tuo cuore e se piango è perché non sarà eterno questo tuo parlare,
non sarà eterna la mia tregua, non ci sarà mai l’infinito per noi,
per le nostre parole, per le idee che si fanno diamanti, per la
forza che entrambi ci avvolge.
Non sarà eterno questo momento assoluto in
cui ti sento dentro al mio cuore e il tuo sguardo, la voce, il
sorriso, sono per me, mentre io respiro un’energia nuova, e tutti i
miei pensieri sono per te. Sono per me le tue parole che salvano, la
luce che da te si irradia mentre il tempo diviene eterno.
Cado nel lento silenzio del sonno e voglio
sognarti, in questa mia tana di erbe leggere, secche e profumate, di
muschio e cortecce d’abete. Mentre dormo rivedo il tuo viso e ti
seguo. Sei lontano come una stella, ma so che di nuovo potrai
scendere in me, per questo ti aspetto. Mi copro la testa e gli
occhi. Non ho voglia di correre di nuovo per sfuggire al vuoto. E so
che dovrò farlo. Ma so che un momento verrà, assoluto, in cui il tuo
cuore sarà nel mio cuore, e allora si fermeranno il vuoto e il tempo
e l’angoscia del giorno, e io potrò fermarmi e riposare ancora,
ancora nell’attimo eterno davanti ai tuoi occhi. Adoro il tuo mondo,
il tuo passo sicuro, la tua tenerezza, la sapienza, la scienza, i
tuoi libri, il tuo sonno, il tuo risveglio, la tua stanchezza.
Vorrei chinarmi sui tuoi occhi stanchi, vorrei percorrere i tuoi
passi. Vorrei restare nel tuo cuore, anche se non posso guarire, e
non posso essere reale, perché non conosco realtà che non sia il mio
sogno, o il mio silenzio. Ma le tue parole mi illuminano, il tuo
sguardo mi rende più salda. E ancora cammino pensando te al mio
fianco. Vorrei conoscere il segreto per darti me stessa senza
dolore. Ti prego, dottore della mia anima, non ti dimenticare di me,
perché io ti sento ogni momento, ti colgo nel freddo e nel buio come
un calore lucente si coglie in una notte di neve. E ti prego,
aspettami, perché i miei passi sono lenti, ma io tendo le mani verso
di te e quando ti incontro vorrei donarti tutto di me, ma non voglio
farti male, ne morirei di dolore; per questo ti dono piano me stessa
come piano si dona una carezza ad un fiore. Perché sei prezioso e io
desidero solo chiudere gli occhi accanto a te.”
Ma il tempo passava e quando la simbiosi non
si attuava io ero presa da crisi di disperazione. Desideravo la sua
presenza ogni giorno, quindi riempivo fogli di parole sotto l’azione
di una strana e inarrestabile euforia. Ma non c’era mai il tempo di
leggere tutto. Poi volevo che mi toccasse: solo la mano, per sentire
una scossa, una bruciatura che dalla mano arrivava alla mente e al
resto del corpo. Ricordo il mio grido, ogni volta che mi toccava, i
miei occhi chiusi in un istante infinito. Volevo che quell’infinito
non mi abbandonasse, ma la mano lentamente si ritraeva, ogni volta
speravo di vedere un’abrasione, una scottatura, una bruciatura:
l’avrei portata con me per il tempo che rimaneva fino alla volta
successiva. Eppure era così delicata la sua mano, mente accarezzava
la mia tenendola stretta. Sorridevo e gridavo quando mi toccava la
mano. Non volevo nient’altro al mondo. Ma l’ora finiva: dieci minuti
prima cominciavo a piangere, supplicando, mendicando ancora qualche
minuto. Una volta, uscendo, vidi che dopo di me entrava una ragazza
bellissima. Restai ferma dietro la porta, sentii che ridevano, e mi
sentii disperata. Pensai che io stavo davvero male, che avevo
bisogno di lui e che quindi avevo il diritto di stare con lui, che
lei non sapeva nemmeno cosa fosse la nostra intimità. La volta
successiva entrai in preda all’agitazione. ‘Quella persona è come
me?’ gridai. ‘No’. ‘Io sono di più, per lei?’. ‘Lo sai già’, mi
rispose. ‘Voglio sentirlo da lei’. ‘Lo sai che sei di più. Più di
tutti gli altri’. ‘Mi dia la mano’. ‘Adesso basta Emma’. Presi io
la sua mano e lui non disse nulla. Baciai il dorso della sua mano e
con la sua mano mi asciugai le lacrime. Lui sorrideva. Sentii una
pace infinita. Allora riuscii ad andarmene. Un’altra volta mi venne
comunicato che il mio appuntamento era annullato perché il dottore
era stato chiamato dal direttore del Servizio Sanitario. Avevo
aspettato quella seduta con trepidazione: cominciai a piangere e a
urlare “Fatemi parlare con la signora, con qualcuno della famiglia,
io devo vedere il dottore, qualcuno deve capirlo, io non mi muovo di
qui.” Lo aspettai per un’ora.
Lo sguardo del dottore era carico di
rimprovero, ma del tipo che si manifesta di fronte ad un bambino che
non si vuole realmente sgridare; era una severità illuminata da un
lungo sorriso, da un’ironia calda e profonda. I suoi occhi mi
attraversavano mentre stavo col capo chinato, ma la sua bocca tesa
mi lasciava intravedere la risata aperta che conoscevo così bene.
Lentamente mi coprii il viso con la mano destra, nascosi gli occhi
chiusi e poi li aprii, guardandolo dallo spiraglio delle dita
aperte, poi cominciai a ridere silenziosamente; il suo riso, poi,
aprì ancora la mia anima, gli chiesi scusa fra le lacrime. “L’hai
fatta grossa, Emma”. “Lo so, dobbiamo fare in modo che non accada
più.”. Ero di nuovo felice, in quel momento, ma sentivo di camminare
sopra un sentiero troppo ripido e teso sull’abisso. Non avevo idea
di come avrei fatto a non far accadere più scene di quel tipo.
Sapevo che avrei dovuto evitarle, ed era quello che gli promettevo,
ma dentro di me sapevo che sarebbero state evitate solo se io non
avessi visto un’altra paziente entrare. Capii quel giorno che non ce
l’avrei fatta nemmeno questa volta ad essere normale, a stare bene,
a vivere in pace. Sapevo che in un rapporto così importante avevo
fallito ancora, lo avevo fatto diventare ciò che non sarebbe mai
potuto essere, e non potevo più tornare indietro. Lui non sarebbe
mai stato per me solo il dottore: era sempre stato, fin dall’inizio,
il mio assoluto; ma quella non era la realtà, era solo la mia
realtà. Ma senza quella non potevo vivere. E con quella sapevo che
non potevo più vivere. Gli scrissi di nuovo, una notte, e portai la
lettera fino sotto la porta di casa sua: “Più forte del dolore, più
forte del pianto, dei pensieri che mi inseguono, più forte
dell’angoscia e del vuoto del cuore: tu, dottore dell’anima, sei più
forte di tutto il dolore che sento. Più forte di quella me stessa
malata che ti guarda aspettando la tua parola, la nostra vita.
Vorrei donarti qualcosa di me che sia bello, che non sia malato, che
sia degno di te. Ma ti dono solo le mie mani vuote, i miei occhi
bagnati, il mio incerto sorriso o il mio lamento e il mio pianto; ti
dono solo il mio cuore a brandelli, il mio tremito di paura, il mio
goffo tentativo d’amore. Ti dono i miei passi incerti, il mio
cammino vacillante, le mie braccia protese, il mio amore doloroso e
convulso. Ma ti dono anche i miei momenti di essere, i fiori gialli
brillanti nel sole, i pomeriggi radiosi, gli alberi alti verso il
cielo. Ti dono il mio attimo eterno e prezioso che troppo spesso si
spegne nel pianto; quel mio pianto, ti dono, di dolore e di gioia, e
la mia mente malata, che non sa trattenere l’amore. Le onde si
infrangono e io mi raccolgo fra le tue mani, che hanno saputo
toccare il mio cuore. Ti dono il mio cuore, stasera, le mie mani
strette, le mie mani fredde, vuote e silenziose, stasera, e ancora,
se lo accetti, ancora il mio silenzioso pianto.”.
Lui mi diceva che le mie lettere erano molto
belle, che non poteva assecondarmi ma che mi era vicino. Capivo che
avrebbe dovuto bastarmi, ma non mi bastava. Trascorrevo le notti
insonni cercando la soluzione ad una tragedia che non aveva sbocchi.
Decisi di smettere di vederlo; durò una settimana poi ero di nuovo
lì davanti al suo studio, in lacrime, con qualche regalo tra le
mani. Non riuscivo più a trovare gioia ma solo affanno. Lo amavo
molto, ma non riuscivo ad uscire dalla trappola in cui mi trovavo:
non capivo come avrei potuto fare a cambiare quel rapporto, a
mutarlo, a farlo crescere in pienezza senza annientarlo, senza
viverlo con quella passione morbosa, con quel bisogno infinito di
comunione assoluta, di pienezza, di eternità. Scrivevo, scrivevo,
pensavo, mi ingegnavo, mi riempivo la mente di progetti irreali,
fantastici. Ero sempre più lontana, sempre più perduta in un mio
mondo circondato dal silenzio e dalle ombre. Gli scrivevo, gli
scrivevo continuamente, ho tenuto tutte le copie delle lettere che
gli ho mandato: “Ti sento in me come un cuore che pulsa nella notte,
o nel chiarore, nei giorni di luce. Il mio sguardo riflette i tuoi
occhi. Il tuo volto stanco. Il tuo volto. Lo adoro, quel volto che
solo talvolta sorride. Ma quando mi sorride sono più alta del cielo.
Mi fai comprendere ogni volta un tratto di vita. Io mi smarrisco, da
sola, perdo l’equilibrio, senza di te; cado da un lato o dall’altro.
Ma con te sono fuori dalla corda tesa. Sono oltre il confine; sono
arrivata a un pianoro e con lo sguardo tocco il cielo. Tu mi doni
l’equilibrio. E il pianto. Ma è un pianto di gioia; anche di timore
di me stessa, della forza di questo amore che senza la tua mano mi
può far cadere nel pozzo oscuro, alla parte opposta del cielo. Ma se
tu mi reggi con le tue parole, io posso stare sul crinale anche
quando tu riposi e mi lasci. Ti prego, non volgere lo sguardo dai
miei occhi…”
“Ti sento dentro come il cuore segreto della
mia vita e quando tu ti allontani una vena si recide e io mi riempio
di sangue. Ma è solo il timore, è solo il timore di non poterti
dire, domani, me stessa, di aprire la finestra, una notte, e di non
trovare più la tua stella, o la corda che tu mi tendi per salire
fino a te. Non temere la mia sofferenza, perché è solo
l’imperfezione del mio amore. Perdonami e volgi lo sguardo ai miei
occhi, dona respiro al mio richiamo, manda la tua lunga strada di
luce verso il mio piccolo angolo buio e io mi incamminerò, ancora e
ancora, verso di te, e potrai vedere la tua scia brillante tingersi
del mio pianto, ma è solo l’emozione per averti ritrovato.La terra è
scura e il freddo mi avvolge i pensieri. Il tuo calore dorato scalda
la mia memoria. Poi grido di notte e la mia eco non giunge, né la
tua voce a calmarmi. Dove ti troverò, oltre che nelle mie parole, e
nel respiro del mio cuore? Quando ci incontreremo fino ad unirci?”.
Non ci unimmo mai, una notte non vidi più la sua stella e fu la
fine.
Dopo tanti anni di questa dolorosa, intensa
empatia da me così tanto anelata e così irreale, così ammalata,
tutto accadde velocemente, come solo la vita e il destino - non
certo noi con le nostre filosofie e i lunghi pensieri di
interminabili notti – sanno fare.
Non bastarono le gocce di tranquillanti. Il
giorno dopo telefonai ad una persona per la quale negli ultimi tempi
avevo una forte attrazione. Era una persona che viveva ai margini
della realtà, faceva discorsi allucinati, folli, ma questo mi
spaventava e mi interessava, perché da tempo non ero più nella
realtà, come lui. Era stato il fidanzato di una mia cara amica. Mi
alzai così carica di emotività, pervasa da un’energia strana e
pericolosa. Presi un appuntamento con lui. I giorni successivi mi
pentii, perché capivo di essere entrata in un vortice di follia e di
morte. Dormivo tutto il giorno, volevo morire. Se solo mi fossi
uccisa allora! Se solo fossi stata capace di dire “No” durante la
telefonata di conferma. Invece dissi sì e poi ripresi a dormire. Non
ero stata capace di impormi di fronte a quel maleficio assurdo, di
fronte alla mia distruzione. Raccontai a quella persona tutto quanto
mi era capitato, tutto il male e il dolore e l’angoscia. Ma non
riuscivo a piangere. Ascoltavo la mia voce come se fosse di
un’altra, come se arrivasse da un altrove spaventoso e irreale. Poi
non sentii altro che l’eco delle mie parole. I miei gesti non li
sentivo. Li compivo ma il mio corpo non li avvertiva come se fosse
stato anestetizzato. Dovevo compierli, non sapevo perché: le mani si
muovevano e così il resto del corpo come per un comando esterno a
me, ma io non mi percepivo, così come non sentivo più le mie parole.
Sapevo che stavo parlando e muovendo il corpo, ma non sapevo chi
decideva tutto questo, e non sapevo nemmeno quale parte di me
muovevo, né quali parole usavo: lo sapevo dopo molto tempo dal loro
compimento, dalla loro espressione. Così trascorse la giornata più
tragica della mia vita senza sapere che lo sarebbe stata. Anche
questo lo seppi dopo, come un’eco. Quando lo seppi, dopo, il giorno
dopo, prima gridai di disperazione, poi, dal momento che non avrei
potuto tornare indietro, presi tutte le mie medicine e mi coricai.
Ricordavo solo il disgusto che il giorno prima mi aveva colto mentre
vivevo quell’assurdo adulterio. Mi domandavo perché non fossi stata
in grado di fermarmi ed andarmene. Poi ricordavo che, insieme al
disgusto, provavo una eccitazione malata, un piacere insano per la
mia stessa degradazione, odiavo quel fango eppure sentivo che non
avrei potuto essere altrove, come se dovessi per forza seguire quel
destino atroce. Mentre mi addormentavo, mi ricordai di quando, da
bambine, io e mia cugina, durante le nostre radiose estati, nei
lunghi pomeriggi trascorsi nella piscina, facevamo la gara a chi
arrivava per prima a toccare il punto più fondo della vasca.
Ricordai i miei occhi aperti, l’acqua che diventava più scura
mentre cercavo di arrivare a toccare le fredde mattonelle; ricordai
il pulsare delle tempie e lo sforzo dei polmoni, poi alla fine il
contatto; mia cugina mi precedeva, mi lanciava un sorriso pieno
d’acqua e i suoi occhi brillanti si confondevano in quell’azzurro
opaco dell’acqua fonda. Allora ci davamo la mano e risalivamo
insieme, i suoi occhi luccicavano nel sole che ci colpiva mentre
eravamo ancora sott’acqua, col viso rivolto al cielo. Poi c’erano le
gocce d’acqua dorata e le nostre grida. Ricordai tutto questo mentre
mi addormentavo nel sonno cattivo della morte cercata e pensai che
quello che avevo fatto il giorno prima, e tante altre volte prima
era stato solo sforzarmi di arrivare ad un fondo opaco, ma senza
alcun riflesso del sole, senza occhi brillanti a guardarmi e senza
mani a confortarmi, un fondo spaventoso in cui pulsavano le tempie e
i polmoni scoppiavano e si voleva gridare per l’orrore ma la bocca
si riempiva d’acqua e si soffocava. Qualcuno mi aveva costretto a
fare quello sforzo per arrivare al fondo limaccioso e oscuro, per
toccare le mattonelle viscide e coperte di detriti e di strani
animali, anfibi e vermi del buio e della notte, del fango e
dell’acqua profonda, mentre il fango sciolto mi sporcava le mani, il
corpo, il viso, mi chiudeva gli occhi e la bocca, perciò non potevo
né piangere né gridare; le gambe tremavano perciò non potevo
scappare, ero come inchiodata a quel posto maledetto, dimenticato da
Dio. Qualcuno, qualcosa mi aveva fatto arrivare fino lì, poiché mi
ero mossa spinta da una enorme forza che non veniva da me. Eppure
nessuno mi aveva aiutato a risalire, nessuno mi aveva preso per mano
riportandomi alla superficie fatta di acqua pulita e zampillante e
del biancore del cielo e delle gocce dorate del sole. Ero rimasta in
quel fondo da sola, e volevo solo morire perché non potevo
resistervi.
Mi risvegliai in ospedale senza capire dove
fossi. Non c’era il fango, non c’era il sole, c’era un letto
asettico e candido, e io credetti di essere arrivata alla terra di
mezzo che avevo tanto cercato, sospesa nel vuoto tra il buio e la
luce, nell’ora in cui non si distingue il chiarore ma non si sfiora
ancora la notte. Dopo poco scorsi un altro letto vicino al mio, dove
stava una donna addormentata. Capii dove mi trovavo e per alcune ore
mi credetti in salvo, lontana da tutto, innalzata in un territorio
dove non sarei stata toccata da nulla e da nessuno, come se fossi
fuggita da un terreno di guerra per raggiungere uno stato neutrale,
rifugio di esuli e di senza patria. Quello era l’ospedale, il luogo
dove le colpe scemano, annacquate dai preparati della chimica, da
lunghi sonni indotti dai sedativi, da parole semplici, da voci
ovattate, da ferite tamponate. La prima cosa da tamponare fu il mio
naso, dal momento che cominciò a sanguinare interrompendo così i
miei pensieri. Cos’altro succedeva, ora? Ricordai più tardi che mi
avevano fatto una lavanda gastrica, e che il tubo era stato
introdotto dal naso, rompendo qualche capillare. I sedativi stavano
facendo il loro lavoro, e non fu facile andare in bagno, cercare di
interrompere il flusso del sangue. Quando ci riuscii le salviette
erano sporche, come gran parte del mio viso. Non ci pensai e mi
rannicchiai in quel letto estraneo eppure così sicuro, e dormii un
sonno che avrei voluto fosse eterno. Non avevo un solo pensiero al
mondo: volevo solo stare lì, in quella tana calda e sicura, senza
muovermi mai più, senza agire, senza pensare, senza vivere. Tutto
era d’improvviso dietro di me: la malattia, il dolore, gli sforzi,
il mio matrimonio, il mio dottore, gli errori. C’eravamo solo io e
quel letto bianco, per sempre. Il resto era menzogna e follia,
dovevo stare attenta a non parlare più. Invece parlai, parlai con
dottori che non capivano, con la mia famiglia attonita, con le altre
persone ricoverate. Poi un giorno lui arrivò: il mio dottore era
venuto a trovarmi. Tutta l’irruenza del mio sentire tornò prepotente
e implacabile e io ne ero di nuovo travolta. Lo guardai fissamente e
gli chiesi se pensava di poter restare con me, seguirmi per sempre,
stare al mio fianco. Mi disse che non poteva farlo nel modo in cui
io volevo. Diventai di pietra e gli dissi che se non mi avesse
cacciata tutto questo non sarebbe successo. Perché non mi trattava
bene adesso, ora, perché non voleva starmi vicino se non per una
visita di cortesia? Dentro mi stavo lacerando, sfaldando e
disfacendo come carta sotto la grandine entrata d’improvviso da una
finestra aperta. Mi disse che aveva un linfoma, che era grave, che
doveva curarsi. Uscì dalla mia stanza e se ne andò. Più tardi lo
cercai in ufficio, ci fu una discussione, io ero disperata. Me ne
andai. Fu l’ultima volta che lo vidi. Pensavo che se fino ad ora
non vi eravamo riusciti adesso avremmo trovato un linguaggio in cui
comunicare, un codice segreto che fosse costruttivo per entrambi.
Doveva esserci, non potevamo perderci così dopo aver condiviso
tanto, era impossibile anche solo pensarlo. Invece ci perdemmo, per
sempre. Non trovammo mai quel luogo dove poter stare uniti malgrado
le distanze della vita, quella chiave per aprire le menti senza
invadere spazi che non erano destinati a noi due. Non avemmo il
tempo per tentare ancora una strada che ci portasse a camminare
insieme senza dolore. Morì quando io ero già stata trasferita
all’ospedale di Pisa.
Sono passati molti anni e io vivo ancora con
il rimorso di quell’ultima volta, quando lo lasciai con il ricordo
di me con il viso in lacrime e gli occhi disperati e le mani
protese, a rimproverargli il suo abbandono. E’ solo uno dei miei
tanti grandi rimorsi. | ||
Home | Presentazione | Storia del Centro | Il pensiero | Trasformazione | Letture
Pubblicazioni | Links | Articoli | Proprietà | La pagina letteraria
Copyright 2003 - Centro internazionale di Psicodialettica - All Rights Reserved