TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


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Transfert

di Amelia Bacchi

 Ora devo scrivere di lui, del mio dottore, quello dal quale cominciai ad andare quando stetti male prima del matrimonio; continuai ad andarci, certa che mi avrebbe accompagnato nel cammino della mia vita serenamente. Fino ad ora ho solo detto che è esistito, che ha significato molto per me e che poi è morto. Adesso so che posso dire tutto il resto. Posso dire che lui era tutta la mia vita, allora. Ero stata molto male e mi avevano condotta da lui, dietro consiglio di un altro medico. Andai da lui stanca, scettica, vuota. Fin dalla prima volta lui riempì la mia mente, la mia anima, i miei sensi. I suoi occhi mandavano bagliori; l’intelligenza usciva dalle parole e dagli sguardi con un’energia infinita. Mi guardava mentre senza rendermene conto riempivo la nostra stanza con la storia della mia vita. Teneva le gambe allungate sotto il tavolo e mi fissava. Le sue mani erano bellissime, la sua stretta calorosa e intensa. Fin dalla prima volta tutto fu intenso fra noi. L’empatia che ci avvolgeva era unica, magica, misteriosa e potente. Io ne ero travolta. Camminavo felice, correvo, guardavo il cielo, i colori erano tutti più brillanti, le parole, tutte le parole avevano una forza nuova e diversa. Lui riempiva la mia vita, io scrivevo tutto quello che avrei detto la volta successiva, e ogni volta i miei racconti erano più carichi di significati, simboli, spiegazioni. Io volevo stare con lui, comunicare con lui, dividere con lui tutta la mia vita. Non pensavo più alla mia malattia, cercavo di stare bene perché sapevo che lui ne sarebbe stato felice. Poi gli manifestavo la mia angoscia per attirare la sua attenzione. Parlavamo come se ci fossimo amati da sempre. Quando entravo nel suo studio la realtà si allontanava in modo incommensurabile; entravamo in una dimensione assoluta, stellare, con altre regole di comunicazione. Le parole avevano una forza dirompente, anche quando erano lacerate e frammentate. Gli sguardi, i nostri sguardi, segnavano la mia vita o la mia morte. Tutto avveniva in modo istintuale, immagini adamantine si susseguivano, ci avvolgevano. L’aria era carica di simboli. Un grande mistero mi sovrastava. Tutto era ardente, infuocato. I sensi erano stimolati da ogni parola o gesto, i nervi tremavano e fremevano. La simbiosi si attuava nell’estasi e nel dolore. Trasmettere l’anima era la mia meta ad ogni seduta, trovare le parole giuste non era uno sforzo di volontà ma una prova di coraggio, il coraggio di gettarsi nel vuoto con la certezza che le parole perfette sarebbero arrivate, era chiudere gli occhi e tendere le mani verso di lui, poi cominciare a parlare e aspettare che la parte lunare e nascosta della mente straripasse con le parole visionarie che mi avrebbero unito a lui. L’unione d’anime era tutto ciò a cui aspiravo, non esisteva niente altro. Cominciai a scrivergli lettere in cui gli parlavo della profondità della mia anima, perché sapevo che a parole non ci sarei riuscita; questa è una delle tante che ho conservato: “Raccolta nel silenzio della sera mi ricordo il tuo sguardo. Il tuo tempo si ferma al mio fianco, mi ascolta e interrompe il mio pianto. E’ freddo in questa tenue sera mentre sento il tuo sguardo entrarmi nel pensiero e fermare l’angoscia. Mi perdo mentre ascolto l’eterno respiro del mondo e non scorgo nient’altro che il battito lento del tempo e lo spazio di morte attorno alle nostre povere divinità. Ricerco un immobile istante di gioia e di pace per calmare la mia affannosa ricerca di vita, la mia corsa per sfuggire al vuoto che affoga e cancella i pensieri. Quando finalmente mi coglierà il sonno potrò stringere al cuore il tuo sguardo, amarlo con tutto il mio povero amore imperfetto e lasciare che la tua voce penetri piano dentro la mente, così lentamente smetterò di tremare. Smetterà di tremare il mio tempo, il mio mondo non vacillerà, il tuo sguardo sarà nel mio sguardo e la tua parola fin dentro al mio cuore; smetterò di correre perché il tempo si sarà fermato e il vuoto sarà distante come mai è stato: quando tu passi nella mia mente l’attimo diviene eterno e il vuoto si ferma e ti lascia parlare. Tu mi parli e io tocco il dolce tuo cuore e se piango è perché non sarà eterno questo tuo parlare, non sarà eterna la mia tregua, non ci sarà mai l’infinito per noi, per le nostre parole, per le idee che si fanno diamanti, per la forza che entrambi ci avvolge. 

 Non sarà eterno questo momento assoluto in cui ti sento dentro al mio cuore e il tuo sguardo, la voce, il sorriso, sono per me, mentre io respiro un’energia nuova, e tutti i miei pensieri sono per te. Sono per me le tue parole che salvano, la luce che da te si irradia mentre il tempo diviene eterno.

Cado nel lento silenzio del sonno e voglio sognarti, in questa mia tana di erbe leggere, secche e profumate, di muschio e cortecce d’abete. Mentre dormo rivedo il tuo viso e ti seguo. Sei lontano come una stella, ma so che di nuovo potrai scendere in me, per questo ti aspetto. Mi copro la testa e gli occhi. Non ho voglia di correre di nuovo per sfuggire al vuoto. E so che dovrò farlo. Ma so che un momento verrà, assoluto, in cui il tuo cuore sarà nel mio cuore, e allora si fermeranno il vuoto e il tempo e l’angoscia del giorno, e io potrò fermarmi e riposare ancora, ancora nell’attimo eterno davanti ai tuoi occhi. Adoro il tuo mondo, il tuo passo sicuro, la tua tenerezza, la sapienza, la scienza, i tuoi libri, il tuo sonno, il tuo risveglio, la tua stanchezza. Vorrei chinarmi sui tuoi occhi stanchi, vorrei percorrere i tuoi passi. Vorrei restare nel tuo cuore, anche se non posso guarire, e non posso essere reale, perché non conosco realtà che non sia il mio sogno, o il mio silenzio. Ma le tue parole mi illuminano, il tuo sguardo mi rende più salda. E ancora cammino pensando te al mio fianco. Vorrei conoscere il segreto per darti me stessa senza dolore. Ti prego, dottore della mia anima, non ti dimenticare di me, perché io ti sento ogni momento, ti colgo nel freddo e nel buio come un calore lucente si coglie in una notte di neve. E ti prego, aspettami, perché i miei passi sono lenti, ma io tendo le mani verso di te e quando ti incontro vorrei donarti tutto di me, ma non voglio farti male, ne morirei di dolore; per questo ti dono piano me stessa come piano si dona una carezza ad un fiore. Perché sei prezioso e io desidero solo chiudere gli occhi accanto a te.”

Ma il tempo passava e quando la simbiosi non si attuava io ero presa da crisi di disperazione. Desideravo la sua presenza ogni giorno, quindi riempivo fogli di parole sotto l’azione di una strana e inarrestabile euforia. Ma non c’era mai il tempo di leggere tutto. Poi volevo che mi toccasse: solo la mano, per sentire una scossa, una bruciatura che dalla mano arrivava alla mente e al resto del corpo. Ricordo il mio grido, ogni volta che mi toccava, i miei occhi chiusi in un istante infinito. Volevo che quell’infinito non mi abbandonasse, ma la mano lentamente si ritraeva, ogni volta speravo di vedere un’abrasione, una scottatura, una bruciatura: l’avrei portata con me per il tempo che rimaneva fino alla volta successiva. Eppure era così delicata la sua mano, mente accarezzava la mia tenendola stretta. Sorridevo e gridavo quando mi toccava la mano. Non volevo nient’altro al mondo. Ma l’ora finiva: dieci minuti prima cominciavo a piangere, supplicando, mendicando ancora qualche minuto. Una volta, uscendo, vidi che dopo di me entrava una ragazza bellissima. Restai ferma dietro la porta, sentii che ridevano, e mi sentii disperata. Pensai che io stavo davvero male, che avevo bisogno di lui e che quindi avevo il diritto di stare con lui, che lei non sapeva nemmeno cosa fosse la nostra intimità. La volta successiva entrai in preda all’agitazione. ‘Quella persona è come me?’ gridai. ‘No’. ‘Io sono di più, per lei?’. ‘Lo sai già’, mi rispose. ‘Voglio sentirlo da lei’. ‘Lo sai che sei di più. Più di tutti gli altri’. ‘Mi  dia la mano’. ‘Adesso basta Emma’. Presi io la sua mano e lui non disse nulla. Baciai il dorso della sua mano e con la sua mano mi asciugai le lacrime. Lui sorrideva. Sentii una pace infinita. Allora riuscii ad andarmene. Un’altra volta mi venne comunicato che il mio appuntamento era annullato perché il dottore era stato chiamato dal direttore del Servizio Sanitario. Avevo aspettato quella seduta con trepidazione: cominciai a piangere e a urlare “Fatemi parlare con la signora, con qualcuno della famiglia, io devo vedere il dottore, qualcuno deve capirlo, io non mi muovo di qui.” Lo aspettai per un’ora.

Lo sguardo del dottore era carico di rimprovero, ma del tipo che si manifesta di fronte ad un bambino che non si vuole realmente sgridare; era una severità illuminata da un lungo sorriso, da un’ironia calda e profonda. I suoi occhi mi attraversavano mentre stavo col capo chinato, ma la sua bocca tesa mi lasciava intravedere la risata aperta che conoscevo così bene. Lentamente mi coprii il viso con la mano destra, nascosi gli occhi chiusi e poi li aprii, guardandolo dallo spiraglio delle dita aperte, poi cominciai a ridere silenziosamente; il suo riso, poi, aprì ancora la mia anima, gli chiesi scusa fra le lacrime. “L’hai fatta grossa, Emma”. “Lo so, dobbiamo fare in modo che non accada più.”. Ero di nuovo felice, in quel momento, ma sentivo di camminare sopra un sentiero troppo ripido e teso sull’abisso. Non avevo idea di come avrei fatto a non far accadere più scene di quel tipo. Sapevo che avrei dovuto evitarle, ed era quello che gli promettevo, ma dentro di me sapevo che sarebbero state evitate solo se io non avessi visto un’altra paziente entrare. Capii quel giorno che non ce l’avrei fatta nemmeno questa volta ad essere normale, a stare bene, a vivere in pace. Sapevo che in un rapporto così importante avevo fallito ancora, lo avevo fatto diventare ciò che non sarebbe mai potuto essere, e non potevo più tornare indietro. Lui non sarebbe mai stato per me solo il dottore: era sempre stato, fin dall’inizio, il mio assoluto; ma quella non era la realtà, era solo la mia realtà. Ma senza quella non potevo vivere. E con quella sapevo che non potevo più vivere. Gli scrissi di nuovo, una notte, e portai la lettera fino sotto la porta di casa sua: “Più forte del dolore, più forte del pianto, dei pensieri che mi inseguono, più forte dell’angoscia e del vuoto del cuore: tu, dottore dell’anima, sei più forte di tutto il dolore che sento. Più forte di quella me stessa malata che ti guarda aspettando la tua parola, la nostra vita. Vorrei donarti qualcosa di me che sia bello, che non sia malato, che sia degno di te. Ma ti dono solo le mie mani vuote, i miei occhi bagnati, il mio incerto sorriso o il mio lamento e il mio pianto; ti dono solo il mio cuore a brandelli, il mio tremito di paura, il mio goffo tentativo d’amore. Ti dono i miei passi incerti, il mio cammino vacillante, le mie braccia protese, il mio amore doloroso e convulso. Ma ti dono anche i miei momenti di essere, i fiori gialli brillanti nel sole, i pomeriggi radiosi, gli alberi alti verso il cielo. Ti dono il mio attimo eterno e prezioso che troppo spesso si spegne nel pianto; quel mio pianto, ti dono, di dolore e di gioia, e la mia mente malata, che non sa trattenere l’amore. Le onde si infrangono e io mi raccolgo fra le tue mani, che hanno saputo toccare il mio cuore. Ti dono il mio cuore, stasera, le mie mani strette, le mie mani fredde, vuote e silenziose, stasera, e ancora, se lo accetti, ancora il mio silenzioso pianto.”.

Lui mi diceva che le mie lettere erano molto belle, che non poteva assecondarmi ma che mi era vicino. Capivo che avrebbe dovuto bastarmi, ma non mi bastava. Trascorrevo le notti insonni cercando la soluzione ad una tragedia che non aveva sbocchi. Decisi di smettere di vederlo; durò una settimana poi ero di nuovo lì davanti al suo studio, in lacrime, con qualche regalo tra le mani. Non riuscivo più a trovare gioia ma solo affanno. Lo amavo molto, ma non riuscivo ad uscire dalla trappola in cui mi trovavo: non capivo come avrei potuto fare a cambiare quel rapporto, a mutarlo, a farlo crescere in pienezza senza annientarlo, senza viverlo con quella passione morbosa, con quel bisogno infinito di comunione assoluta, di pienezza, di eternità. Scrivevo, scrivevo, pensavo, mi ingegnavo, mi riempivo la mente di progetti irreali, fantastici. Ero sempre più lontana, sempre più perduta in un mio mondo circondato dal silenzio e dalle ombre. Gli scrivevo, gli scrivevo continuamente, ho tenuto tutte le copie delle lettere che gli ho mandato: “Ti sento in me come un cuore che pulsa nella notte, o nel chiarore, nei giorni di luce. Il mio sguardo riflette i tuoi occhi. Il tuo volto stanco. Il tuo volto. Lo adoro, quel volto che solo talvolta sorride. Ma quando mi sorride sono più alta del cielo. Mi fai comprendere ogni volta un tratto di vita. Io mi smarrisco, da sola, perdo l’equilibrio, senza di te; cado da un lato o dall’altro. Ma con te sono fuori dalla corda tesa. Sono oltre il confine; sono arrivata a un pianoro e con lo sguardo tocco il cielo. Tu mi doni l’equilibrio. E il pianto. Ma è un pianto di gioia; anche di timore di me stessa, della forza di questo amore che senza la tua mano mi può far cadere nel pozzo oscuro, alla parte opposta del cielo. Ma se tu mi reggi con le tue parole, io posso stare sul crinale anche quando tu riposi  e mi lasci. Ti prego, non volgere lo sguardo dai miei occhi…”

“Ti sento dentro come il cuore segreto della mia vita e quando tu ti allontani una vena si recide e io mi riempio di sangue. Ma è solo il timore, è solo il timore di non poterti dire, domani, me stessa, di aprire la finestra, una notte, e di non trovare più la tua stella, o la corda che tu mi tendi per salire fino a te. Non temere la mia sofferenza, perché è solo l’imperfezione del mio amore. Perdonami e volgi lo sguardo ai miei occhi, dona respiro al mio richiamo, manda la tua lunga strada di luce verso il mio piccolo angolo buio e io mi incamminerò, ancora e ancora, verso di te, e potrai vedere la tua scia brillante tingersi del mio pianto, ma è solo l’emozione per averti ritrovato.La terra è scura e il freddo mi avvolge i pensieri. Il tuo calore dorato scalda la mia memoria. Poi grido di notte e la mia eco non giunge, né la tua voce a calmarmi. Dove ti troverò, oltre che nelle mie parole, e nel respiro del mio cuore? Quando ci incontreremo fino ad unirci?”. Non ci unimmo mai, una notte non vidi più la sua stella e fu la fine.

Dopo tanti anni di questa dolorosa, intensa empatia da me così tanto anelata e così irreale, così ammalata, tutto accadde velocemente, come solo la vita e il destino - non certo noi con le nostre filosofie e i lunghi pensieri di interminabili notti – sanno fare.

Non bastarono le gocce di tranquillanti. Il giorno dopo telefonai ad una persona per la quale negli ultimi tempi avevo una forte attrazione. Era una persona che viveva ai margini della realtà, faceva discorsi allucinati, folli, ma questo mi spaventava e mi interessava, perché da tempo non ero più nella realtà, come lui. Era stato il fidanzato di una mia cara amica. Mi alzai così carica di emotività, pervasa da un’energia strana e pericolosa. Presi un appuntamento con lui. I giorni successivi mi pentii, perché capivo di essere entrata in un vortice di follia e di morte. Dormivo tutto il giorno, volevo morire. Se solo mi fossi uccisa allora! Se solo fossi stata capace di dire “No” durante la telefonata di conferma. Invece dissi sì e poi ripresi a dormire. Non ero stata capace di impormi di fronte a quel maleficio assurdo, di fronte alla mia distruzione. Raccontai a quella persona tutto quanto mi era capitato, tutto il male e il dolore e l’angoscia. Ma non riuscivo a piangere. Ascoltavo la mia voce come se fosse di un’altra, come se arrivasse da un altrove spaventoso e irreale. Poi non sentii altro che l’eco delle mie parole. I miei gesti non li sentivo. Li compivo ma il mio corpo non li avvertiva come se fosse stato anestetizzato. Dovevo compierli, non sapevo perché: le mani si muovevano e così il resto del corpo come per un comando esterno a me, ma io non mi percepivo, così come non sentivo più le mie parole. Sapevo che stavo parlando e muovendo il corpo, ma non sapevo chi decideva tutto questo, e non sapevo nemmeno quale parte di me muovevo, né quali parole usavo: lo sapevo dopo molto tempo dal loro compimento, dalla loro espressione. Così trascorse la giornata più tragica della mia vita senza sapere che lo sarebbe stata. Anche questo lo seppi dopo, come un’eco. Quando lo seppi, dopo, il giorno dopo, prima gridai di disperazione, poi, dal momento che non avrei potuto tornare indietro, presi tutte le mie medicine e mi coricai. Ricordavo solo il disgusto che il giorno prima mi aveva colto mentre vivevo quell’assurdo adulterio. Mi domandavo perché non fossi stata in grado di fermarmi ed andarmene. Poi ricordavo che, insieme al disgusto, provavo una eccitazione malata, un piacere insano per la mia stessa degradazione, odiavo quel fango eppure sentivo che non avrei potuto essere altrove, come se dovessi per forza seguire quel destino atroce. Mentre mi addormentavo, mi ricordai di quando, da bambine, io e mia cugina, durante le nostre radiose estati, nei lunghi pomeriggi trascorsi nella piscina, facevamo la gara a chi arrivava per prima a toccare il punto più fondo della vasca. Ricordai i miei  occhi aperti, l’acqua che diventava più scura mentre cercavo di arrivare a toccare le fredde mattonelle; ricordai il pulsare delle tempie e lo sforzo dei polmoni, poi alla fine il contatto; mia cugina mi precedeva, mi lanciava un sorriso pieno d’acqua e i suoi occhi brillanti si confondevano in quell’azzurro opaco dell’acqua fonda. Allora ci davamo la mano e risalivamo insieme, i suoi occhi luccicavano nel sole che ci colpiva mentre eravamo ancora sott’acqua, col viso rivolto al cielo. Poi c’erano le gocce d’acqua dorata e le nostre grida. Ricordai tutto questo mentre mi addormentavo nel sonno cattivo della morte cercata e pensai che quello che avevo fatto il giorno prima, e tante altre volte prima era stato solo sforzarmi di arrivare ad un fondo opaco, ma senza alcun riflesso del sole, senza occhi brillanti a guardarmi e senza mani a confortarmi, un fondo spaventoso in cui pulsavano le tempie e i polmoni scoppiavano e si voleva gridare per l’orrore ma la bocca si riempiva d’acqua e si soffocava. Qualcuno mi aveva costretto a fare quello sforzo per arrivare al fondo limaccioso e oscuro, per toccare le mattonelle viscide e coperte di detriti e di strani animali, anfibi e vermi del buio e della notte, del fango e dell’acqua profonda, mentre il fango sciolto mi sporcava le mani, il corpo, il viso, mi chiudeva gli occhi e la bocca, perciò non potevo né piangere né gridare; le gambe tremavano perciò non potevo scappare, ero come inchiodata a quel posto maledetto, dimenticato da Dio. Qualcuno, qualcosa mi aveva fatto arrivare fino lì, poiché mi ero mossa spinta da una enorme forza che non veniva da me. Eppure nessuno mi aveva aiutato a risalire, nessuno mi aveva preso per mano riportandomi alla superficie fatta di acqua pulita e zampillante e del biancore del cielo e delle gocce dorate del sole. Ero rimasta in quel fondo da sola, e volevo solo morire perché non potevo resistervi.

Mi risvegliai in ospedale senza capire dove fossi. Non c’era il fango, non c’era il sole, c’era un letto asettico e candido, e io credetti di essere arrivata alla terra di mezzo che avevo tanto cercato, sospesa nel vuoto tra il buio e la luce, nell’ora in cui non si distingue il chiarore ma non si sfiora ancora la notte. Dopo poco scorsi un altro letto vicino al mio, dove stava una donna addormentata. Capii dove mi trovavo e per alcune ore mi credetti in salvo, lontana da tutto, innalzata in un territorio dove non sarei stata toccata da nulla e da nessuno, come se fossi fuggita da un terreno di guerra per raggiungere uno stato neutrale, rifugio di esuli e di senza patria. Quello era l’ospedale, il luogo dove le colpe scemano, annacquate dai preparati della chimica, da lunghi sonni indotti dai sedativi, da parole semplici, da voci ovattate, da ferite tamponate. La prima cosa da tamponare fu il mio naso, dal momento che cominciò a sanguinare interrompendo così i miei pensieri. Cos’altro succedeva, ora? Ricordai più tardi che mi avevano fatto una lavanda gastrica, e che il tubo era stato introdotto dal naso, rompendo qualche capillare. I sedativi stavano facendo il loro lavoro, e non fu facile andare in bagno, cercare di interrompere il flusso del sangue. Quando ci riuscii le salviette erano sporche, come gran parte del mio viso. Non ci pensai e mi rannicchiai in quel letto estraneo eppure così sicuro, e dormii un sonno che avrei voluto fosse eterno. Non avevo un solo pensiero al mondo: volevo solo stare lì, in quella tana calda e sicura, senza muovermi mai più, senza agire, senza pensare, senza vivere. Tutto era d’improvviso dietro di me: la malattia, il dolore, gli sforzi, il mio matrimonio, il mio dottore, gli errori. C’eravamo solo io e quel  letto bianco, per sempre. Il resto era menzogna e follia, dovevo stare attenta a non parlare più. Invece parlai, parlai con dottori che non capivano, con la mia famiglia attonita, con le altre persone ricoverate. Poi un giorno lui arrivò: il mio dottore era venuto a trovarmi. Tutta l’irruenza del mio sentire tornò prepotente e implacabile e io ne ero di nuovo travolta. Lo guardai fissamente e gli chiesi se pensava di poter restare con me, seguirmi per sempre, stare al mio fianco. Mi disse che non poteva farlo nel modo in cui io volevo. Diventai di pietra e gli dissi che se non mi avesse cacciata tutto questo non sarebbe successo. Perché non mi trattava bene adesso, ora, perché non voleva starmi vicino se non per una visita di cortesia? Dentro mi stavo lacerando, sfaldando e disfacendo come carta sotto la grandine entrata d’improvviso da una finestra aperta. Mi disse che aveva un linfoma, che era grave, che doveva curarsi. Uscì dalla mia stanza e se ne andò. Più tardi lo cercai in ufficio, ci fu una discussione, io ero disperata. Me ne andai. Fu l’ultima volta che lo vidi.  Pensavo che se fino ad ora non vi eravamo riusciti adesso avremmo trovato un linguaggio in cui comunicare, un codice segreto che fosse costruttivo per entrambi. Doveva esserci, non potevamo perderci così dopo aver condiviso tanto, era impossibile anche solo pensarlo. Invece ci perdemmo, per sempre. Non trovammo mai quel luogo dove poter stare uniti malgrado le distanze della vita, quella chiave per aprire le menti senza invadere spazi che non erano destinati a noi due. Non avemmo il tempo per tentare ancora una strada che ci portasse a camminare insieme senza dolore. Morì quando io ero già stata trasferita all’ospedale di Pisa.

Sono passati molti anni e io vivo ancora con il rimorso di quell’ultima volta, quando lo lasciai con il ricordo di me con il viso in lacrime e gli occhi disperati e le mani protese, a rimproverargli il suo abbandono. E’ solo uno dei miei tanti grandi rimorsi. 


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