TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


Un nostro contributo ...

 

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Un nostro contributo su psicoanalisi, iniziazione e individuazione.

 di Luciano e Roberta Rossi

 (articolo pubblicato su Il Ruolo Terapeutico e qui riprodotto per gentile concessione della Franco Angeli editore)

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Che, fra gli analisti, nessuno abbia, prima di Perrella, dato alle similitudini fra iniziazione e psicoanalisi, importanza pari a quella che lui attribuisce loro, può apparire forse dubbio. Intanto perché molti colleghi, studiosi, cultori della materia, conducono per lo più una vita intellettuale silenziosa e ritirata, e solo pochi possono (o vogliono) accedere alla carta stampata, ma anche perché fra chi ha raggiunto la fama, e la pubblicazione delle sue idee, crediamo che vi sia anche chi ha trattato con abbondanza questo tema. Basti pensare per esempio a Jung e all’uso, che lui fece, della gnosi e dell’alchimia (entrambe iniziatiche) nella terapia analitica, oppure a Servadio e ai suoi “Passi sulla via iniziatica”, o ancora a Trevi là dove dice che “la psicoanalisi è il Vangelo gnostico del nostro tempo”. Pensare a questi studiosi citati (ma ve ne sono tanti altri) ci permette di capire che, da tempo, in ambito psicoanalitico, e ancor più in ambito junghiano, questo tema è conosciuto e trattato.

Senz’altro però va dato merito a Perrella d’alcune cose: il dare importanza agli aspetti iniziatici del percorso analitico, il trattare oggi pubblicamente questo tema e, infine, il farlo su una rivista di formazione psicoanalitica, il “Ruolo” in particolare. Merito, naturalmente, anche del Direttore l’aver accolto questo tema. Ma questa Sua apertura non è certo una novità per nessuno. Merito di entrambi infine, Perrella ed Erba, l’averci stimolato e il consentirci di aggiungere al tema qualche riflessione e qualche notizia. 

Anche noi ci occupiamo di questo argomento da un po’ di tempo. Abbiamo organizzato un Centro di psicodialettica (con indirizzo cepsid@psicodialettica.com, dove “cepsid” significa appunto Centro di psicodialettica) che si occupa specificamente della dialettica dell’individuazione, dove “individuazione” significa per noi “percorso iniziatico”. Abbiamo già al nostro attivo, sull’argomento, oltre agli articoli, due libri pubblicati, più due Working papers e due tesi di laurea.

In una di queste ultime (Roberta Rossi: La dialettica dell’individuazione. Aspetti culturali e clinici del processo individuativo) si segnalano quattro analogie teoriche, pratiche e rituali fra psicoanalisi e via iniziatica. Vale la pena, crediamo, di prender atto, anche dalla nostra posizione di psicoanalisti, degli aspetti iniziatici del nostro mestiere, perché, se qualche altra pratica, prima di Freud, ha conosciuto un processo e un percorso molto simili a quelli analitici, è, infatti, cosa di grande (ed euristica) utilità istituirne i paralleli e le probabili, anche se solo implicite, influenze.

Si afferma dunque nella tesi suddetta:

“In primo luogo possiamo dire, da un lato, che la psicoterapia agisce sull'individuo anche per iniziazione e, dall'altro, che l'iniziazione si rivela, alla fine, anche terapeutica. Il primo aspetto, e cioè che la psicoterapia è iniziazione, discende dal fatto che essa è, nella sua prassi, rito inderogabile (setting), coinvolgimento affettivo profondo (relazione). Il secondo aspetto, e cioè che l'iniziazione è terapeutica, discende dalla constatazione che l'iniziazione è trasformativa, porta verso il miglioramento personale e l'impegno sociale, spinge verso l'amore e verso il lavoro.

In secondo luogo entrambi, sapere iniziatico e sapere psicoterapeutico, sono tipi di sapere non solo intellettuale, ma anche (e saremmo tentati di dire soprattutto) emotivo; sono una forma di conoscenza che può esprimersi, e comunicarsi, solo, e fondamentalmente, in un sentire che è, innanzitutto, esperienza, empatia, coinvolgimento.

In terzo luogo sono ambedue cammini pazienti e operosi, percorsi all'ombra silenziosa dell'esitazione, e nell'aura, sottile e vaga, di un pericolo psicologico incombente. Forti, anche se spesso inconsce, sono perciò, in entrambi i cammini, la paura che il viandante prova, la sua resistenza a procedere, la sua tentazione di tornare sulla vecchia sponda, naturale, protetta, amata; sponda che però ci trattiene, se non la abbandoniamo, ai margini di noi stessi, ai margini della vita evolutiva dello Spirito, che ci fissa nello stato di eterni bambini (cfr. il concetto di puer eternus [in Von Franz, M. L., L’eterno fanciullo, Como, Red]) i quali non vogliono in alcun modo iniziarsi alla vita adulta, legati, come sono, al paradiso incantato dell'infanzia.

In quarto luogo si tratta, in entrambi i casi, di riti di trasformazione e di passaggio; ciò significa che si devono attraversare soglie, vincere guardiani, trovare tesori nascosti e ben custoditi da draghi od altre creature spaventevoli. S’ignora inoltre, in entrambi i casi, che forma o che aspetto abbia questo tesoro.

E più avanti la Tesi così prosegue:

“La psicologia, in particolare per merito di Jung, ci ha reso coscienti che questo è invero un tesoro particolare, cui la fantasia umana ha dato, nel corso del tempo, molti nomi, ma che ha avuto, in fondo, sempre la stessa origine: esso è nato per il tramite della proiezione di parti di noi stessi fuori di noi, sul mondo esterno, che diviene così scenario delle nostre rappresentazioni; e che ripropone dunque, alla nostra percezione, sempre la stessa cosa: quella luce interiore che ognuno cerca fuori di sé, perché crede che non appartenga al mondo interiore, bensì a quello esterno.

Dice [infatti] Jung: “L'alchimista aveva realmente lottato con i problemi della materia, quando la coscienza indagatrice s'era trovata davanti allo spazio oscuro dell'ignoto e aveva creduto di ravvisarvi figure e leggi, che tuttavia non avevano origine nella materia, bensì nell'anima. Tutto ciò che è ignoto e vacuo viene riempito da proiezioni psicologiche; è come se nell'oscurità si rispecchiasse il retroscena psichico dell'osservatore. Quanto egli vede e crede di riconoscere nella materia è costituito soltanto [...] dai dati del proprio inconscio che egli vi proietta”. [JUNG, C., G., 1944, p.240]. Egli scopre cioè, nella materia, cose che sono soltanto sue”.

Le recenti conquiste psicologiche e l’antica saggezza, tuttavia, spesso appaiono, pur nella loro forza persuasiva, non ancora tali da tranquillizzare colui che cammina verso l'ignoto: di tale tesoro occulto il viandante sa ancora, infatti, molto poco. Per ora, in fondo, sa solo che esso, l'oro puro dei filosofi, altro non è che lui medesimo, nella veste, nella forma, e con quell'aspetto, con cui egli attende se stesso in fondo alla via iniziatica. Dunque molte domande fanno angosciosa ressa nel suo cuore: Come è questo noi che ci attende? In altre parole, come diventeremo? O ancora: come è questo Sé? Quanto è diverso da come siamo oggi? Cosa dovrò perdere di me? Sarà cosa dolorosa scalpellare la dura corteccia del mio cuore per togliere le concrezioni che lo ricoprono, le false illusioni, per sollevare il velo di Maja che nasconde ai miei occhi la luce?

Così la tesi dice più oltre: “Dunque questa via appare, tanto in psicoterapia quanto nel cammino iniziatico, interminabile, dolorosa ed incerta; in entrambi i casi è trasformazione senza fine, in entrambi i casi non si sa bene dove conduce”.

 La terapia, già Freud l'aveva detto, è interminabile. Occorre restare sempre intenti all'opera: anche se il risultato raggiunto, allo spirito stanco e provato, può apparire adeguato ad una vita “buona”, esso resta eternamente incompleto. Ci saranno, in analisi, alcuni segni che testimonieranno trasformazioni e che faranno presumere che il viandante potrà camminare da oggi “senza guida esterna”; ma non ci sarà mai alcun segno che testimoni che il cammino è terminato.

Così è per l'iniziato che, pur se giunto a percorsi avanzati, deve restare in cuor suo sempre neofita. La nostra vita, il nostro tempo, sono grandezze finite, il cammino possibile possiede, al contrario, una estensione infinita.

Ma un altro parallelo importante, fra psicoterapia e iniziazione, riguarda la domanda dell'adepto e dell'analizzando.

La tesi ce l’illustra con queste parole: “Essi pervengono al tempio, e al gabinetto di cura, con una domanda che presso a poco è, in entrambi i casi, la seguente: “Desidero la luce; voi che sapete e potete, ditemi cos’è, deponetela nella mia mente e nel mio cuore, che sono oggi angosciati dalla tenebra”. Uguale è anche la risposta del maestro e dell'analista: a volte il silenzio, a volte la riflessione comune sulla domanda; i soli modi illuminati di rispondere adeguatamente sono questi”.

Per illustrare quest’aspetto del percorso iniziatico, riportiamo, brevissimamente quanto liberamente, da Schuré [I grandi iniziati, 1990, p.104 e segg.] la vicenda del pellegrino arrivato a Menfi, “dove periscono gli sciocchi che hanno bramato scienza e potere”; egli viene da terre lontane, “desideroso d’istruirsi ai Misteri [...], di penetrare il segreto delle cose”.

Iside e Osiride, alla domanda d’istruzione del pellegrino, rispondono dall’interno del suo cuore con un sussurro incomprensibile. Egli bussa allora alla porta del Tempio per sentire dalla bocca dello ierofante, che certamente sa, il segreto, cui egli brama, con parole chiare e distinte. Sorprendentemente egli viene scoraggiato da una serie di ammonimenti: “nessuno sollevò mai il mio velo”, “la pazzia o la morte coglieranno chi è debole e malvagio”, “sei ancora in tempo per tornare sui tuoi passi”, ecc.

Dopo di che, l'allievo che non si lasciava sgomentare veniva lasciato solo: i maestri non gli davano alcun aiuto, non rispondevano alle sue domande; e il discepolo si stupiva della loro freddezza. Nulla gli veniva rivelato; “aspetta e lavora” era per lo più la risposta. E più la domanda persisteva, più il progresso dell'adepto si allontanava. Questo amorevole silenzio voleva presso a poco significare: “Non dipende da noi; la verità non si può donare. O la si trova in se stessi, o non la si trova affatto. Non possiamo fare di te un illuminato; devi diventarlo da solo. Tu intanto lavora e prega”.

Trascorrevano così i mesi e gli anni; e l'adepto sentiva avvenire in lui una lenta e incomprensibile trasformazione. [...]

“Similmente – riprende la tesi – accade in psicoterapia: dapprima l'uomo, che si trova nelle tenebre del dolore e dell'ignoranza, è portatore solo di un bisogno assoluto di conoscenza e sostegno. Ma troppo spesso lo ignora; nel suo cuore non si è formato ancora il sentimento che la sua esistenza non sboccia, che egli potrebbe, e dovrebbe, formulare una domanda d’aiuto, che dovrebbe coltivare il desiderio di varcare la soglia della sua infanzia simbiotica.

Poi, in un secondo tempo, nel portatore di bisogno si forma, a volte per circostanze fortuite, finalmente la domanda: È questa la condizione per iniziare il cammino. Solo chi bussa può entrare; nulla si può fare, infatti, per chi ha semplicemente bisogno, ma non pone la domanda di essere illuminato.

Così, colui che bussa viene, come abbiamo detto, invitato ad entrare. Ma, come nei misteri di Ermete, anche in psicoterapia non viene direttamente risposto alla domanda. Rispondere sarebbe, infatti, un evento che lo farebbe restare un figlio passivo e totalmente accudito, incapace di camminare da solo, incapace di conoscere la propria luce; dunque a chi ha bussato viene risposto a volte solo con affettuoso silenzio, a volte con una risposta sulla domanda. Risposta che si propone di trasformare il quesito e farlo passare, dalla condizione di una domanda all'al­tro, a quella di una domanda a se stesso.

Solo con questa pratica, colui che ha bussato capirà che, se portare la domanda gli può aprire la porta del tempio, solo l'abbandono della domanda (di ricevere la luce dell'altro) gli porterà la sua propria luce di adulto. Anziché adottare supinamente la legge del padre, cercherà allora la sua propria legge; anziché subire passivamente la morale data, cercherà una sua propria etica da affiancare a quella del padre. Solo ora il figlio e il padre, il neofita e il maestro, potranno procedere assieme.

Tre sono, riassumendo, i momenti della dialettica dell'anima:

a) L'assenza della domanda è la condizione di partenza. Il bambino, il malato, il profano, colui che è senza luce, non è dapprima portatore di domanda perché la condizione simbiotica è un bisogno che non sa d’essere bisogno, una condizione che è, scioccamente, paga di sé. La domanda d’altra luce, la domanda da rivolgere all'altro, ad un altro uomo, ancora non ci sono perché l'altro non esiste, in quanto non è stato ancora da lui costruito; non è ancora proiettato fuori di sé.

b) La formazione della domanda è la seconda condizione che l'anima conosce. Essa è l'uscita (del bisogno) da se stesso per estraniarsi e conoscere l'estraneo; ed è propriamente il momento dialettico-negativo. Momento fondamentale di formazione della personalità, tale scissione costruisce l'altro e si oppone a lui, vuoi con una protesta, vuoi con una domanda, vuoi con una precoce proposta d’eteroriconoscimento. È un momento d’opposizione, di dialettica delle autocoscienze. È il momento della dialettica del servo che vuol diventare signore e chiede di esserlo subito, senza quella mediazione del lavoro che lo renderà consapevole d’essere colui che può, che sa, che vale. E quindi d’autoriconoscersi come colui che non ha bisogno di chiedere, a qualcuno fuori di sé, per sapere.

Ma c'è una successiva modalità della seconda fase: quella in cui si capisce e si accetta finalmente la necessità di lavorare con le proprie forze, di camminare con le proprie gambe, e di raggiungere così veramente la propria autentica trasformazione.

Vincere questo desiderio di immediatezza, e passare, da un'ottica di pretesa capricciosa, ad un etica di lavoro, è la conquista che, nella fase di apprendistato, il neofita deve compiere. Il neofita non deve chiedere; deve eliminare lentamente dal cuore la domanda e lavorare in silenzio.

c) La guarigione, o illuminazione, è dunque nuovamente caratterizzata dall'assenza di domanda all'altro. Egli non pone più domande fuori di sé, perché ha ormai ritirato l'altro dentro di sé, ha ritirato le sue proiezioni, ora capisce che ciò, che in passato credeva di chiedere all'altro, in realtà lo chiedeva a se stesso. Non chiederà "regali" immeritati ai maestri/padri/analisti, ma chiederà invece lavoro a se stesso.

La terza fase è dunque diversa dalla prima. Quest’assenza di domanda non è più un'assenza; manca sì di nuovo la domanda all'altro fuori di sé, ma è presente la domanda a se stesso; anzi, per essere più precisi, all'altro ritornato in sé. Egli capisce finalmente che deve essere il vero maestro di se stesso e cercare in sé, nell'avara solitudine della meditazione, il segreto della trasformazione che nessuno, se non lui stesso, gli può dare.

L'altro, il Maestro, esiste ancora ma è in lui; ora finalmente amato, non più opposto. Io e Tu son diventati Noi. L'unità si è ricomposta; ma tale sintesi, che nella prima fase era una simbiosi confusa (e nella quale non era possibile distinguere l'uno dall'altro, le tenebre dalla luce, il bene dal male, il bianco dal nero), è ora unità nella distinzione, unità di bianco e di nero, fra i quali non si deve scegliere. Anche il nero è nostro; non va scisso ma utilizzato, non va buttato ma riconvertito, non va nascosto ma guardato, non va condannato ma capito, non va emarginato ma invitato alla nostra mensa, non va espatriato ma reintegrato in famiglia. Non possiamo scegliere il bianco e buttare il nero: se lo facessimo, un giorno esso ci mancherebbe perché è comunque parte di noi; e noi, senza di lui, saremmo esseri incompleti.

Essere illuminato non vuol dire essere bianco, bensì essere completo: e questo tanto in psicoterapia quanto nell'iniziazione.

 

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Illustrata fino a questo la nostra posizione culturale, veniamo ad un breve commento alle riflessioni di Perrella.

Non ci vogliamo occupare di tutto l’articolo, certamente interessante, ma solo di pochi punti sui quali sentiamo affinità di interessi.

Dunque Perrella dice che la passe psicoanalitica è come un esame di ammissione, ma dice anche che non sei mai passato del tutto e che la tua formazione deve essere permanente. Questo ricorda molto da vicino i concetti d’iniziazione formale e d’iniziazione effettiva che troviamo anche in ambito iniziatico/esoterico. La cerimonia ti fa appartenere formalmente alla classe degli iniziati, ma quello è solo un initium. Anzi, proprio adesso viene il bello: il vero lavoro, l’opus alchemico, comincia solo ora. Questa considerazione ci porta ad un secondo punto: le associazioni, dice Perrella, non possono farsi carico della formazione perché non possono “sovrapporre il valore iniziatico della formazione al valore di riconoscimento pubblico”. Il riconoscimento pubblico è l’initium:: poi viene la vita; viene il confronto. Fabricando fit faber. E allora occorre la scuola d’Atene, l’Accademia platonica delle Arti, nella quale si vive assieme al Maestro e le conoscenze passano non solo attraverso le parole. Non sappiamo se nella sua Accademia accade proprio così. Perrella accenna continuamente al parallelo, ma non lo approfondisce. Da parte nostra diciamo che per l’iniziazione effettiva dell’analista occorre il lavoro con i pazienti. Sarà solo il lavoro come terapeuta a darti la vera, definiva, formazione. Non sappiamo se le iniziazioni cui noi facciamo riferimento (per altro solo dottrinale, teorico) siano “false iniziazioni”, come Perrella le chiama. Certamente le analogie con le istituzioni psicoanalitiche sono molto forti, anche se non assolute.

Da ultimo vogliamo riprendere anche una riflessione di Tonon (Individuazione ed autorealizzazione) che tocca questo tema. Specialmente, crediamo, là dove lei parla della “estrema difficoltà del soggetto a staccarsi di dosso la pelle della seconda natura per individuarsi”. Si tratta, detto in termini junghiani, di deporre la Persona per fare Anima (per dirla con Hillmann). Se pensiamo alla grande società (quella allargata o delle Persone, non quella iniziatica, o delle Anime, che possiamo considerare ristretta) e andiamo poi a contare le Persone e le Anime che la costituiscono ci rendiamo subito conto di quanto sia iniziatico il fare Anima e di quanto sia ristretta questa seconda società; e quanto, inoltre, sia lungo il percorso di chi “rinuncia a vivere una vita come tante”. Lungo e difficile perché la società delle Persone non ti lascia andare facilmente. Tonon parla di “estrema difficoltà”.

Questo ci fa venire in mente Jung là dove dice: “Il primo passo in direzione dell’individuazione è tragica colpa [...] e ad ogni passo verso l’individuazione si produce una nuova colpa che richiede una nuova espiazione” (Jung, 1916b; Opere, vol. VII, 1983, pag. 311).

Vogliamo anche ricordare che, nella Tesi di cui abbiamo dato notizia, si dice: “Anche il collettivo, come la madre, difficilmente perdona; in questo caso la colpa è l’abbandono della Persona, quella maschera che la società vuole, e impone, al singolo, anche quando l’Anima o il punto di vista individuale non [ ... siano orientati] in senso opposto alle norme collettive. La società condannerà facilmente il singolo ad una solitudine dalla quale potrà uscire solo in virtù di meriti creativi particolari. A chi tale via singolare non è concessa, non resterà che avviarsi all’isolamento o riconfluire nella Persona. E a chi la disidentificazione [ ... ] dal collettivo riesce con successo, o in via spontanea o in terapia, naturalmente con l’integrazione, nell’individualità, delle norme collettive, è comunque accaduto di aver superato “questa prova eroica in un viaggio periglioso fa Scilla e Cariddi, fra il pericolo di soccombere da un lato al potere del collettivo, dall’altro alla forza e al fascino delle immagini interiori” (Carotenuto, Trattato di psicologia analitica, vol. II, pag. 255)”.

Anche l’iniziato corre questi sempre due pericoli: la condanna della società allargata e il pericolo della gran luce verso la quale cammina.

 

 


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