TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


Uomo e società ...

 

Home | Presentazione | Storia del Centro | Il pensiero | Trasformazione | Letture

Pubblicazioni | Links | Articoli | Proprietà  


 

 

Uomo e società

nelle visioni antropologiche di Freud, Jung e Adler

di Roberta Rossi

 

 

a)   Premesse culturali

 

Scrive E. Severino (La filosofia moderna, p. 218) che "mentre per l'idealismo di Schelling e Hegel ... l'Io è infinito e coincide con la realtà assoluta, per Fichte, invece, l'Io è ancora finito ed ha il compito ... di togliere ciò che gli è assolutamente opposto [il corsivo è mio]"; sappiamo che, per Fichte, questo opposto irriducibile era il Non-io, vale a dire tutto ciò che non è Io. Tale posizione appare ancora quella cartesiana, in cui alla res cogitans (Io) si oppone la res extensa (Non-io).

E aggiunge, Severino, esprimendosi ormai in un'atmosfera hegeliana: "[In Fichte] i due termini [della relazione, ossia Io e Non-Io] sono assolutamente opposti ... sì che il compito [ora] consiste nella realizzazione non antinomica ... della relazione, ossia della sintesi tra i due termini ... la soluzione di tale compito consiste nell'azione che introduce un termine medio ... tale azione non può che essere un attività dell'Io, con la quale l'Io e il Non-io si limitano reciprocamente." (ibidem, p. 220)

Ma per Fichte tale sforzo non può giungere a compimento. Il compito sarà portato a termine solo più tardi da Schelling e da Hegel, che mostrano l'insostenibilità del dualismo e dell'opposizione assoluta, "alla quale la filosofia di Fichte è invece voluta restare fedele". (ibidem, p. 222)

In Hegel le cose sono destinate a cambiare e a psicologizzarsi. All'inizio della Fenomenologia dello spirito abbiamo una coscienza di fronte al suo oggetto; fra i due c'è una alterità insuperabile. In questo momento iniziale la coscienza sensibile è certa del suo oggetto, che è esterno, indipendente da lei e conoscibile solo come fenomeno. È la forma di certezza più povera e più vuota, che nemmeno sa che, questa cosa esterna, l'aveva messa preventivamente, lei stessa, fuori di sé. Ma ben presto la coscienza comincia ad attribuire delle proprietà a questa cosa, a riflettere su di essa, a riappropriarsene, ad avere coscienza di sé, ad avere coscienza dell'altro come di se stessa.  A cogliere il senso di proiezione e introiezione. Emblematico in tal senso uno dei più recenti titoli di Paul Ricoeur: "Soi meme comme un autre".

Da qui Hegel proseguirà con numerose separazioni e sintesi, proiezioni e ritiri delle proiezioni. Ma crediamo che questo cenno alla filosofia idealistica tedesca, in cui si formarono i padri della psicologia dinamica, possa bastare per introdurre i nostri scopi contingenti, che non sono filosofici ma psicodinamici, e che si possa passare senz'altro a trattare brevemente le visioni antropologiche dei tre massimi psicologi d'inizio secolo XX°.

 

b)       Freud: O uomo ... O società (Entweder  ... oder). Tertium non datur!

Anche Freud, come Fichte, pone il dilemma natura-cultura in termini inconciliabili: o libertà o repressione. L'Io è per lui in balia del conflitto fra principio del piacere e principio di realtà, tra scarico e arginatura, fra natura e cultura. Jung risolverà, come vedremo, il tema dell'opposizione ponendo l'Io non solo come elemento in conflitto ma anche come Terzo che porta in sé i termini del conflitto e li media.

La dottrina dell'Io segna dunque una grande differenza fa i due. In Freud l'Io è in parte conscio e in parte inconscio e in ogni caso in opposizione con l'Es. In Jung l'io non solo è conscio, ma si sdoppia e svolge due ruoli. Per Jung, infatti, è: a) sia l'insieme delle rappresentazioni consce che stanno al centro della coscienza (a questo Io, a queste rappresentazioni consce, si contrappone il Non-Io); b) sia funzione mediatrice fra Io e Non-io, fra coscienza e inconscio, fra individuale e collettivo.

In un contesto di psicologia sociale Freud ci ricorda come la cultura abbia dovuto fondare istituzioni e metodi educativi che, sebbene costituiscano un indubbio disagio, sono tuttavia assolutamente necessari; e, per converso, pur essendo necessari restano inevitabilmente opposti agli istinti naturali. Tale opposizione, lo ripetiamo, in Freud appare un'alterità immediata e insuperabile [FREUD, S., 1929]. Jung ancora pone la stessa opposizione, ma non più in termini antinomici. Anche per Jung le terrificanti rappresentazioni dell'inconscio collettivo non possono essere trattate direttamente dal soggetto conoscente, tuttavia sono suscettibili di una mediazione simbolica [JUNG, C.G., 1912]. 

Jung accoglie tutto nel suo sistema, anche gli opposti. Accetta i fatti così come li trova; non accetta di esser considerato contraddittorio per questo; sono le cose ad esserlo. Quando due fatti sono in contraddizione Jung non scarta una dei due dicendo o l'uno o l'altro (o ... o, Entweder ... oder) ma li accetta entrambi (e ... e, Sowohl ... als-auch). Jung non accetta di fermarsi alle antinomie, ma crede che si possa procedere dialetticamente e operare una sintesi. Crede che la vita stessa proceda dialetticamente e trae dalla vita, e dai suoi miti e dai riti, lo spunto per il suo progetto di composizione simbolica.

Sappiamo che a fermarsi alle antinomie è il Freud della sua opera più matura: Il disagio della civiltà (1929). Ascoltiamo come conclude quel saggio: "E ora c'è aspettarsi che l'altra delle due potenze celesti, l'Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale". Opposizione irriducibile fino all'ultima riga dunque, in cui si riafferma che l'unico metodo sarà la lotta senza quartiere il cui esito non sarà mai definitivo. Una condizione senza via d'uscita.

Lotta che infuria lungo tutto lo scritto, sin dalle prime frasi. La società, la civiltà, la cultura rendono l'uomo infelice. "Il mio lavoro, se avesse bisogno di un titolo, potrebbe chiamarsi: L'infelicità delle civiltà". Una civiltà tutta rivolta a reprimere le passioni dell'uomo, un uomo assediato dai suoi bisogni inconsci tenuti a bada solo dalle costrizioni sociali e dai sensi di colpa. Le istituzioni sociali sono prima di tutto baluardi contro l'incesto e il parricidio. Baluardi però che fanno soffrire e limitano colui che proteggono. Freud è rassegnato ad accettare tutto questo. La civiltà è disagio, ma disagio inevitabile; in altre parole l'uomo non può vivere senza società, ma nell'ambito della società non è felice. La felicità non rientra per Freud nei piani della creazione. Nessuna mediazione è possibile per lui; la mediazione sarà presente solo in Jung. Mentre addirittura una sorta di armonia, di feeling, fra uomo e società, è presente solo in Adler. La composizione del conflitto in Freud non c'è, al massimo si può pensare ad una tregua. Il nostro prossimo non merita per Freud il nostro amore: "Devo confessare onestamente che egli ha più diritto alla mia ostilità, anzi, al mio odio".

L'uomo trova un ostacolo nella società. Questa impone grandi sacrifici "non solo alla sessualità, ma anche alle tendenze aggressive dell'uomo". Freud ammette di avere tardato molto a riconoscere, a differenza di Adler, l'esistenza autonoma di un aggressività di fondo. Ormai a questo punto, siamo nel '29, nove anni dopo la svolta, egli ritiene che l'aggressività sia la manifestazione esteriore di un'invisibile e onnipresente pulsione di morte.

E senza speranza sono anche le lettere che scrive ad Einstein. La guerra è e sarà sempre inevitabile, dice in quella lettera in cui conclude: "Mi spiace, ma non posso offrirle una visione più consolante".

Pensiamo tuttavia di riservare a Freud uno spazio minore, a dispetto della sua indubitabile importanza. Lo facciamo sorretti dalla convinzione che il suo mancato superamento del punto di vista dualistico abbia, per noi, interesse minore che non le posizioni più ottimistiche di Jung e di Adler. Non solo queste godono di maggiore modernità, ma la posizione tarda di Freud è inficiata dal sospetto che, in quel periodo, molto abbiano influito sulle sue idee la lunga malattia, la tristezza saturnina che lo affliggeva da tempo, la solitudine in cui si era confinato. "Quanto a me - scriveva a Lou Salomé nel '27 - la tetraggine della vecchiaia, la disillusione più completa, paragonabile al raggelamento della luna, a un congelamento interiore, ... la mia sciatteria e la mia indolenza, stanno avendo la meglio su di me".

Freud, scrivendo a René Laforgue, in un certo senso rinnegherà Il disagio della civiltà. Dirà infatti: "È l'opera di un vecchio!". Ma non possiamo trarre conclusioni affrettate; questo giudizio si riferisce solo alla natura poco scientifica dell'opera e non alla condanna del dualismo, che resta per lui insuperabile e non può approdare mai né alla dialettica come in Jung né alla spinta sociale come in Adler.

Il padre della psicoanalisi resta impotente e rancoroso di fronte alla società; non dialoga con lei, né l'ama. Ogni rivendicazione del singolo al diritto all'individuazione è per lui negata. Dice Montefoschi (L'uno e l'altro):

 viene così sancita biologicamente l'incapacità dell'essere umano di diventare padrone della propria esistenza e artefice della storia, anche perché tutta la storia dell'uomo si riduce al passaggio dalla dipendenza dall'autorità del padre primordiale a quella dell'ordine costituito dalla società ... non c'è l'uomo quale soggetto della storia; l'uomo resta ... nella sua impotenza originaria ... Freud considera la vita umana, in quanto umana, soltanto in funzione della società, tanto è vero che l'istinto è ritenuto pericoloso non per l'uomo stesso, ma per l'organizzazione sociale.

 O sei sociale o sei animale; tertium non datur. Non è possibile essere e l'uno e l'altro. "O civiltà e repressione istintiva, o libertà istintiva e ritorno alla barbarie" (ibid., p.279). Si può abitare solo in uno dei due corni del dilemma. Un terzo luogo sarà invece possibile per Jung, come vedremo fa poco. E non solo per Jung. Marcuse stesso era stato, pur restando freudiano "di sinistra", capace d'intravedere una possibilità sintetica nella dimensione estetica (Eros e civiltà). Dice infatti: "Nella dimensione estetica sta l'unione erotica della civiltà con la natura, dove l'ordine è bellezza e il lavoro è gioco".

La sintesi non è una via di mezzo in cui entrambi i corni del dilemma non ci sono più; è bensì una via in cui e l'uno e l'altro sono spinti ad esser presenti nell'unione ai massimi livelli compatibili. Nella sintesi si realizza una possibilità dinamica e liberatoria per l'uomo. La libertà di cui stiamo parlando è libertà dalla fissità del già dato, dall'adesione immediata a ciò che ci appare insuperabile, così come viene visto ora. La dialettica presuppone una possibilità in divenire in cui ciò che oggi appare assolutamente altro possa diventare oggetto di mediazione, di adesione ad un compromesso in cui la presenza dell'altro non sia possibile perché attenuata, ma perché accettata. Accettata perché ci appaiono possibili dei momenti sacrificali in cui si lascia spazio all'altro, in quanto ciò appare di reciproca convenienza.

 c)   Jung: E uomo ... E società (Sowohl ... als-auch)

  ... il contrasto totale non conosce un terzo termine - Tertium non datur! La scienza si arresta ai confini della logica; non così la natura, che fiorisce anche lì dove nessuna teoria è ancora mai penetrata. La venerabilis natura non s'arresta davanti al contrasto, ma se ne serve per formare, dagli elementi avversi, un nuovo essere". (Jung, 1946, La psicologia del transfert, Il Saggiatore,1974, pag. 189)

 

Come vediamo dalla precedente citazione, posta in epigrafe per la sua importanza, a differenza di Freud, Jung crede nella possibilità formativa e trasformativa dell'uomo. Così che può scrivere a tal proposito S. Montefoschi (L'uno e l'altro, p. 277):

 Il discorso [di Jung]  ... inizia proprio dove quello di Freud si chiude nella drammatica visione dell'impossibilità, per l'uomo, di risolvere il conflitto tra istintualità e relazione, tra libertà e vita sociale, e ricollegandosi alla concezione di fondo dell'antropologia freudiana che pone l'uomo come oggetto di un conflitto fra natura e cultura, la ribalta e nel proporre l'Io come soggetto del conflitto riconosce nel conflitto stesso la natura umana.

Istinto e società non sono per Jung più fuori dell'uomo, né l'uomo è oggetto in balia degli stessi. Se l'uomo è soggetto, è data per lui anche la possibilità di porsi come arbitro e mediatore del conflitto. Sarà il simbolo, o meglio l'attività simbolica, a consentire, operando la trasformazione dell'istinto in creatività, la possibilità di coesistenza o d'incontro fra i due inconciliabili. Dice ancora Montefoschi (Un pensiero in divenire, p.195-196):

 [ In Freud] il dramma si presenta così senza soluzione in quanto il conflitto non si può evolvere in dialettica mancando il terzo, quel terzo che, riconoscendo in sé i termini contrari, se ne riconosca soggetto mediatore. Il terzo è proprio l'unità dialettica, quell'uno che contiene i due e che nel riconoscerli in sé stesso già si fa terzo trascendendoli quale soggetto che li media.

 Giova qui ricordare quanto abbiamo detto a pagina due, ossia che il concetto di Io in Jung risente della presenza di questo Terzo; la sua definizione, come conseguenza del pensiero dialettico, non può che scostarsi sensibilmente da quella freudiana. L'Io è qui anche mediatore fra se stesso e l'oppositore eterno.

Questa mediazione Jung la compirà attraverso il simbolo, come vedremo fra poco. Vorremmo provare, con alcuni piccoli schemi, ad illustrare graficamente questa possibilità mediativa (vedi tavole di pag. 7-8-9). Il simbolo permette di fare incontrare una parte del soggetto e una parte dell'oggetto, un rappresentate del soggetto e un rappresentante dell'oggetto. L'esempio di mediazione più citato in ambito junghiano è il rito wachandi: gli uomini scavano una buca nella terra e vi infiggono una spada. Un rappresentante del figlio e un rappresentante della madre si uniscono. Il figlio distacca da sé la spada e distacca dalla madre la terra. Quel rito è il luogo delle possibilità mediative.

Jung fa così incontrare un opposto con l'altro, in particolare l'Io conscio con il Non-io inconscio, e provoca un confronto fra i due, come nella tecnica dell'immaginazione attiva, che mira al superamento di entrambi in quanto separati, ma non in quanto distinti, e cerca la loro sintesi nella distinzione. Si sente in questo l'influenza di Hegel (identità finale di soggetto e oggetto), ma anche quella di Holderlin; il traguardo finale del processo individuativo può, infatti, riassumersi nella celebre ed essenziale espressione del poeta di Nekkar: il traguardo finale è l'uno in se stesso distinto.

Senza individuazione, la coscienza rischia d'essere inghiottita da un lato nel conscio collettivo (sociale o culturale), dall'altro nell'inconscio impersonale, il collettivo naturale. Attraverso l'individuazione, la coscienza però diventa capace di un incontro con entrambi, in modo personale, singolare, individuato. Lo fa assumendosi il peso del proprio essere personali, conservando la stima di sé anche fuori dai ruoli e dalle attese, tollerando la tensione della minaccia che gli viene sia dalla natura-madre-inconscio, che dalla cultura-padre-società. Per diventarne capaci occorre sperimentarsi nel conflitto e diventare consapevoli della propria capacità di confronto con l'altro.

Fra i due opposti c'è dapprima separatezza, per divieto di contatto diretto con l'oggetto, a causa della pericolosità dell'altro da sé. Ma poi si scopre che si può sostituire quest'ultimo con il simbolo. Il simbolo permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L'unione del soggetto col simbolo (rappresentante dell'oggetto) è concessa. In terapia il simbolo è impersonato dall'analista. Analista che è analogo al padre, analogo alla madre. È l'analogia che consente il trasferimento da qualcosa di sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante a qualcosa di accessibile, lecito, accettabile.  

Riporto da Negazioni (L. Rossi, Quattroventi, Urbino, 1992) lo schema seguente:

 


 

O = oggetto in sé (madre)

G = oggetto analogo distaccabile (terra)

C = soggetto in sé (figlio)

R = soggetto analogo distaccabile (spada)

 In quella che appare, per una visione statica, un'opposizione irriducibile, per una visione dialettica si dà, come possibilità latente non ancora percepita, un terzo polo disponibile per possibili operazioni di mediazione. Avviene allora la mitosi degli opposti, per distaccare da sé gli elementi capaci di compiere uno spostamento simbolico e un'unione degli elementi opposti distaccati. Saranno precisamente questi ultimi a potersi unire e a fornire la possibilità di sintesi. La spada e la terra si uniscono, realizzando in tal modo l'unione simbolica rituale del figlio con la madre.  I rapporti fra natura e cultura non possono essere diretti, ma possono passare attraverso un terzo, il rito simbolico, dal quale vengono mediati, trasformati e resi atti ad unirsi in una modalità socialmente consentita. Jung illustra tutto ciò nel lavoro Wandlungen und Symbole der Libido (Trasformazioni e simboli della libido), divenuto più tardi Symbole der Wandlung (Simboli della trasformazione). Lì si afferma che, per il figlio, all'inizio della vita, padre e madre dovevano essere oggetti innocui. Cos'è poi accaduto? Come mai il padre e la madre in seguito non sono più oggetti semplici e concreti, ma sono diventati, agli occhi del figlio e della figlia, numinosi e terribili? La qualità sconosciuta e inquietante, che rende temibili padre e madre, è la libido del figlio, che fa di un oggetto innocuo una "imago" archetipica. Ora questa imago, inavvicinabile a causa del divieto, dev'essere trasformata in un simbolo accessibile. Chi lo farà? Sarà la capacità riflessiva del figlio che trasporta la libido dall'oggetto al simbolo e poi s'interesserà solo di quest'ultimo. Il soggetto potrà congiungersi ora con il nuovo oggetto trasformato (Wandlungen) e divenuto "simbolo della libido" (Symbole der Libido). Dei due opposti uno solo compie l'opera (il soggetto-paziente) e uno solo diventa simbolo della trasformazione, Symbole der Wandlung, (l'oggetto-analista). La relazione fra i due non più antinomica, ma è divenuta dialettica perché "risolta" dal simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l'oggetto. Risolta perché l'unione fra i due ora può avvenire. Si opera così la sintesi di soggetto e oggetto: ne risulta il Sé, il figlio della coppia bambino-genitore, colui che è completo.  La madre diventa il femminile interno al figlio con cui il maschile del figlio può congiungersi.

Vi sono tanti aspetti della realtà in cui tali due opposti non possono avere rapporti diretti. È lì allora che occorre l'opera del terzo. Il soggetto, in quanto capace di produrre sim­boli, opera una trasformazione dell'oggetto, a sua volta capace di assumere in sé il simbolo in forza dell'analogia, e lo investe di energia. Per prendere contatto con gli oggetti naturali in via mediata, occorre che la parte riflessiva o epistemologica del soggetto operi una trasformazione dell'oggetto da naturale a simbolico (ma in realtà si tratta di uno spostamento dell'investimento dall'oggetto originario all'oggetto simbolico) e prenda poi contatti con l'oggetto simbolico da lei costruito, con un procedimento creativo e artificiale. Anziché rapportarsi immediatamente con un oggetto naturale, il soggetto si rapporta ad esso in modo mediato, tramite un oggetto da lui stesso prodotto. Il soggetto  costruisce dunque se stesso: oggetto simbolico per un certo verso, soggetto di un'operazione epistemologica per un altro verso. L'oggetto privo di mistero e di pericolo è stato creato traendolo dalla natura, che deve esser assoggettata per questo ad un artificio consapevole della riflessione se si vuole che il soggetto sappia di se stesso e colga la forza dell'analogia che ha permesso la trasformazione dell'oggetto inquietante. Il soggetto ora sa con chi si rapporta e da quale posizione. Egli percepisce se stesso all'interno del terzo come soggetto riflessivo e sa di rapportarsi col terzo in quanto oggetto trasformato. Riflettere, distinguere e giudicare non è semplicemente negare o fuggire l'immediatezza del naturale, ma soprattutto affermare la maggior adeguatezza, ai fini ontologici, della mediazione riflessiva.

In Jung si riafferma dunque un'ottica sociologica, secondo la quale la società può unirsi all'uomo senza opprimerlo. Può l'uomo individuarsi senza uscire dalla società? Jung precede proprio questo. L'eroe alla fine del suo viaggio solitario rientra nei ranghi, evitando ogni tentazione maniacale, e consegna il tesoro conquistato a tutti gli uomini come un dono.

Dice Montefoschi (Un pensiero in divenire, p. 82):

 L'io è diventato solo il portatore consenziente del processo che si realizza in lui e, tramite lui, nell'umanità. Il dono prezioso che l'eroe riporta dal suo viaggio è destinato quindi all'umanità. L'eroe torna ad essere anonimo, un uomo tra gli uomini ...

 Il divenire del singolo appare in Jung solo come un momento del divenire sociale, fase e strumento di quest'ultimo.

 

 

d) Adler: uomo PRO società … una visione etico-sociale (psicologia sociale)

 

"Essenzialmente, l'adattamento sociale e quindi il comportamento etico non sono visti come una semplice restrizione della natura umana, una modificazione determinata da pressioni esterne o il risultato di un conflitto intrinseco tra forze opposte interne, ma piuttosto come una forma di espressione in armonia con una predisposizione naturale." (Ansbacher, 1956, La psicologia individuale di Alfred Adler, Martinelli, 1997, pag.153)

  Non una restrizione della natura umana dunque, ma un comportamento in armonia con una predisposizione naturale: ecco cosa è per Adler l'adattamento sociale; un comportamento che, in qualche modo e con certe qualità, già appartiene, naturaliter, all'umano. Non è dunque, come per Freud, il risultato d'una sottomissone obbligatoria ad una realtà che l'opprime e la schiaccia. Non un frutto di forze sociali che hanno sottomesso quelle egoistiche, né, tantomeno, il risultato di formazioni reattive.

"Le bon, alors, pas l'obbligatoire!", direbbe forse Paul Ricoeur, contribuendo al nostro dibattito: il sociale lo accettiamo perché è buono, non perché è obbligatorio.

L'uomo di Adler è ben lontano dunque dall'individuo freudiano, quello che Celine chiamerebbe le malheureux de ce monde, lo sventurato della terra, che si adatta alle imposizioni sociali contro la propria volontà: l'individuo adleriano possiede al contrario, "per sua natura", una "felice" spinta sociale originaria. È questo che fa della "psicologia individuale" una dottrina sociale di cui vogliamo seguire brevemente il percorso storico iniziale.

Ai tempi della prima formulazione del suo pensiero (Il temperamento nervoso, 1912), Adler ipotizzò un unico principio dinamico fondamentale: la pulsione aggressiva o volontà di potenza. A contrastare tale pulsione, da lui definita anche "finzione di sopraffazione", doveva poi essere un sentimento comunitario che si costituiva come fattore secondario antitetico all'aspirazione aggressiva alla superiorità. Egli lo definì, di conseguenza, una "controfinzione".

Questa prima teorizzazione fu ben presto abbandonata per far posto ad una seconda, e per lui definitiva, dinamica psicologica. Quest'ultima venne caratterizzata da due pulsioni: quella alla superiorità e quella sociale; spinte, queste, non più antitetiche bensì parallele (almeno in potenza) e che devono, e possono, armonizzarsi fra loro. Nella nuova ipotesi il sentimento sociale non è più una forza dinamica secondaria che nasce a controbilanciare la volontà di potenza, ma una spinta primaria, utilizzata dall'individuo per la sua aspirazione, socialmente neutra, alla superiorità.

 "L'apparente conflitto tra "le due grandi tendenze", l'innato Gemeinschaftsgefuhl e l'innata spinta alla superiorità, nella teoria adleriana è risolto mediante un'idea di ragione […]. Si è superiori solo se si è ragionevoli, il che significa riconoscere l'interesse sociale, sì che le proprie azioni siano superiori dal punto di vista del mondo, e per gli altri siano di utilità." (Hillman, 1983, Le storie che curano, Raffaello Cortina, 1984, pagg143,144)

Quindi, se da un lato Adler è in accordo con Jung nel discostarsi dalla pessimistica visione freudiana di un uomo imprigionato in un insolubile conflitto con la società, egli compie però, dall'altro, un passo ulteriore rispetto a Jung e si avvia verso l'idea di un uomo naturalmente sociale. Per Adler, infatti, il sentimento comunitario caratterizza l'uomo fin dai primi mesi di vita; si tratta di una sua spinta innata. Una spinta però, e questo è un punto fondamentale, che ha bisogno d'essere successivamente sviluppata attraverso un adeguato sistema educativo, e non raggiunta, come vuole Jung, attraverso un cammino individuativo. Quale differenza sussista fra i due lo vedremo fra poco in sede di conclusioni.

Prima di questo ci compete, infatti, un altro compito: chiarire la natura di questa pulsione; ciò perché i termini "spinta innata" e "sviluppo" possono senza dubbio apparire contraddittori o, nella migliore delle ipotesi, configurarsi ancora una volta come i protagonisti di quell'antico confronto che caratterizzò la filosofia presocratica: l'essere e il divenire.

Mentre la volontà di potenza è un vero e proprio istinto che non necessita, come il termine stesso lascia intuire, di nessuno sviluppo ulteriore, perché si dia la sua influenza sul comportamento umano, il sentimento comunitario necessita di ulteriore evoluzione. A questo proposito Adler sostiene (1933e, pag. 257) che si deve "considerare il substrato innato del sentimento sociale troppo piccolo e non abbastanza forte da divenire efficiente senza l'aiuto della società".

Dobbiamo, sì, dunque pensare al sentimento sociale, o di cooperazione, come ad una componente innata dell'uomo, ma soltanto nei termini di una "potenzialità da sviluppare" attraverso un aiuto sociale specifico: ciò che è innato e spontaneo, allora, non è una capacità pienamente sviluppata, bensì una potenzialità: dovremo quindi parlare non tanto d'istinto sociale, ma più precisamente di spinta sociale.

Lo sviluppo di tale potenzialità avviene originariamente all'interno della relazione primaria madre-bambino: la funzione materna, secondo Adler, è proprio quella di instillare nel bambino il senso della comunità. Già nei primi mesi di vita (nel comportamento del bambino, nelle sue espressioni verbali, nella modalità comunicativa in senso lato e nel gioco) possiamo spesso osservare i frutti di questa educazione alla relazione sociale. La possibilità che un individuo sviluppi la propria spinta sociale innata dipenderà allora dalla compresenza di due fattori: quello ambientale, soprattutto la funzione materna, e quello biologico, ossia la dotazione naturale.

 "La possibilità di educare il bambino dipende dall'ampiezza del suo innato, differenziato e crescente sentimento sociale attraverso il quale si unisce all'ideale comune. È così che le richieste della comunità divengono le richieste personali e la logica immanente della società, con i suoi problemi e le sue necessità, diviene il compito individuale per il bambino." (Ansbacher, pag. 145; Adler, 1922b, pag. 119)

 Guardando lo sviluppo psicologico da un punto di vista sociale possiamo considerare la relazione terapeutica analista-paziente come una riedizione dell'antica relazione madre-bambino, in cui il terapeuta assume la funzione sociale materna.

Per comprendere quanto per Adler il sentimento di comunità sia parte fondante della natura umana, o meglio della natura tutta, occorre fare breve cenno ad uno dei principi fondamentali della psicologia individuale: il "principio dell'influenza cosmica". Secondo tale principio ogni soggetto è influenzato dal cosmo e ne porta interiormente le tracce; e anche il senso di comunità, quindi, altro non sarebbe che il riflesso di tale legame. Per cui l'uomo che vive secondo il senso sociale è l'uomo che ha accettato presso di sé le naturali esigenze della comunità e, in senso più lato, del cosmo stesso.

Ma tale principio non può non evocare nelle nostre menti la teorizzazione junghiana sull'inconscio collettivo e gli archetipi, ed è proprio sull'interdipendenza del genere umano dal collettivo e sull'importanza della relazione, a livello teorico prima, e clinico poi, che s'incontrano i due allievi ribelli, Jung e Adler, anche se le rispettive letture restano personali. A tale proposito scrive Ellenberger:

 "In quanto esseri animati, noi ci sentiamo naturalmente legati a tutto il genere umano, passato, presente e futuro; e mentre Jung dimostra questo legame universale in modo oggettivo, in forma di modelli archetipici che si ripetono attraverso la storia, la cultura, l'istinto, Adler è interessato invece al sentimento e all'azione di questo legame: in che modo esso agisce nell'uso che se ne fa. Come si comportano gli esseri umani rispetto al loro modo altruistico di sentire la comunità universale? Lo sfondo filosofico è qui l'etica di Kant: l'imperativo sono le relazioni umane." (Ellenberger, 1970, La scoperta dell'inconscio, Universale Bollati Boringhieri, 1976, pag. 143, vol. II)

 

e) Coscienza antinomica, sintetica, edotta: critica di un parallelo.

Dunque la posizione di Adler sembra essere, prima facie, simile alla posizione sintetica di Jung, così come quella di Freud appare simile alla fase oppositiva junghiana. Le definizioni di questi stadi evolutivi rimandano ad un modello quinario da noi precedentemente sviluppato (La dialettica dell'individuazione, Il Sagittario, n° 9), che prevede tre fasi e due movimenti.

Gli elementi dialettici, allora ipotizzati, possono nella fattispecie essere schematizzati come segue:

 

FASE SIMBIOTICA  à  FASE OPPOSITIVA  à  FASE SINTETICA

 

NATURA       à  SVILUPPO  DI  FREUD à SVILUPPO  DI  JUNG  E  DI  ADLER

 

 

Ma ciò che soprattutto importa chiederci ora è se la posizione di Adler sia una posizione sintetica alla stessa stregua di quella di Hegel e Jung oppure assuma un rilievo affatto peculiare.

Anche la filosofia conosce questo dilemma e propone tre risposte al quesito sulla coscienza finale: a) quella, archetipica, della completezza iniziale; b) quella che dubita di ogni cogito immediato e dispera; c) quella, infine, di chi cammina proprio perché dubita.

Quest'ultima, che facciamo nostra, è la via del sospetto senza disperazione, il cammino di colui che sa che nulla otterrà senza sforzo. L'uomo finale di Adler e Jung hanno certamente molti tratti di quest'ultima posizione. È questa anche la posizione che Paul Ricoeur (1990, pag. 27) descrive con parole lapidarie: "Soggetto esaltato, soggetto umiliato: è sempre, pare, con questa opposizione che ci si avvicina al soggetto"; egli lo fa là dove s'interroga sulla possibilità di "un luogo epistemologico situato al di là di quest'alternativa del cogito e dell'anti-cogito", e sulla effettiva possibilità di un soggetto che, prima affermato da Cartesio e poi negato da Freud, in Hegel e Jung si nega per affermarsi.

Nella visione di quest'ultimo il soggetto volta le spalle ad un infanzia dorata per incamminarsi verso una "selva oscura", senza ritorno come la nigredo degli alchimisti, negandosi così al passato, ma solo per ritrovare se stesso nel lavoro e nello sforzo. All'eroe di Jung non è dunque consentito rimanere nella condizione tetica di Cartesio o nella condizione oppositiva di Freud.

Si può dire lo stesso dell'uomo di Adler? C'è in lui una linea evolutiva altrettanto esplicita?

Abbiamo visto che per Adler il senso sociale, all'inizio, non ha ancora uno spessore ontologico; la socialità iniziale adleriana non è ancora "atto", ma soltanto "potenza".

Chiudiamo allora con una domanda.

Il percorso dalla potenza all'atto, attraverso il quale l'uomo adleriano raggiunge, con il concorso formativo dell'ambiente, la realizzazione ontologica finale, è altrettanto voluto e perseguito ad ogni costo e senza l'aiuto della società come nel caso di Jung?

O non accade piuttosto il contrario e la tumultuosa ed eroica disubbidienza junghiana, la sua opposizione solitaria e la differenziazione definitiva dal collettivo sociale, appaiono, ancorché adattate, come malattia e peccato al tranquillo e sociale scorrere delle ore adleriane?

Conosciamo la risposta di Adler. Ma per i suoi epigoni, a novant'anni di distanza, in anni in cui forse l'adattamento non è più considerato un bene assoluto, la soluzione ricalca ancora quella del Maestro?

 

 


Home | Presentazione | Storia del Centro | Il pensiero | Trasformazione | Letture

Pubblicazioni | Links | Articoli | Proprietà  

Copyright 2003 - Centro internazionale di Psicodialettica - All Rights Reserved

Per contattarci scrivete a: luciano.rossi38@alice.it