TEMI DI PSICODIALETTICA a cura del Centro internazionale di Psicodialettica Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta
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Uomo e società ... |
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Uomo
e società nelle
visioni antropologiche di Freud, Jung e Adler di
Roberta Rossi a)
Premesse
culturali Scrive
E. Severino (La filosofia moderna,
p. 218) che "mentre per l'idealismo di Schelling e Hegel ... l'Io è
infinito e coincide con la realtà assoluta, per Fichte, invece, l'Io è
ancora finito ed ha il compito ... di togliere
ciò che gli è assolutamente opposto [il corsivo è mio]";
sappiamo che, per Fichte, questo opposto irriducibile era il Non-io, vale
a dire tutto ciò che non è Io. Tale posizione appare ancora quella
cartesiana, in cui alla res cogitans
(Io) si oppone la res extensa
(Non-io). E
aggiunge, Severino, esprimendosi ormai in un'atmosfera hegeliana:
"[In Fichte] i due termini [della relazione, ossia Io e Non-Io] sono
assolutamente opposti ... sì che il compito [ora] consiste nella
realizzazione non antinomica ... della relazione, ossia della sintesi tra
i due termini ... la soluzione di tale compito consiste nell'azione che
introduce un termine medio ... tale azione non può che essere un attività
dell'Io, con la quale l'Io e il Non-io si limitano reciprocamente." (ibidem,
p. 220) Ma
per Fichte tale sforzo non può giungere a compimento. Il compito sarà
portato a termine solo più tardi da Schelling e da Hegel, che mostrano
l'insostenibilità del dualismo e dell'opposizione assoluta, "alla
quale la filosofia di Fichte è invece voluta restare fedele". (ibidem,
p. 222) In
Hegel le cose sono destinate a cambiare e a psicologizzarsi. All'inizio
della Fenomenologia dello spirito abbiamo
una coscienza di fronte al suo oggetto; fra i due c'è una alterità
insuperabile. In questo momento iniziale la coscienza sensibile è certa
del suo oggetto, che è esterno, indipendente da lei e conoscibile solo
come fenomeno. È la forma di certezza più povera e più vuota, che
nemmeno sa che, questa cosa esterna, l'aveva messa preventivamente, lei
stessa, fuori di sé. Ma ben presto la coscienza comincia ad attribuire
delle proprietà a questa cosa, a riflettere su di essa, a
riappropriarsene, ad avere coscienza di sé, ad avere coscienza dell'altro
come di se stessa.
A cogliere il senso di proiezione e introiezione. Emblematico in
tal senso uno dei più recenti titoli di Paul Ricoeur: "Soi meme
comme un autre". Da
qui Hegel proseguirà con numerose separazioni e sintesi, proiezioni e
ritiri delle proiezioni. Ma crediamo che questo cenno alla filosofia
idealistica tedesca, in cui si formarono i padri della psicologia
dinamica, possa bastare per introdurre i nostri scopi contingenti, che non
sono filosofici ma psicodinamici, e che si possa passare senz'altro a
trattare brevemente le visioni antropologiche dei tre massimi psicologi
d'inizio secolo XX°. b)
Freud:
O uomo ... O
società (Entweder
... oder). Tertium
non datur! Anche
Freud, come Fichte, pone il dilemma natura-cultura in termini
inconciliabili: o libertà o repressione. L'Io è per lui in balia del
conflitto fra principio del piacere e principio di realtà, tra scarico e
arginatura, fra natura e cultura. Jung risolverà, come vedremo, il tema
dell'opposizione ponendo l'Io non solo come elemento in conflitto ma anche
come Terzo che porta in sé i termini del conflitto e li media. La
dottrina dell'Io segna dunque una grande differenza fa i due. In Freud
l'Io è in parte conscio e in parte inconscio e in ogni caso in
opposizione con l'Es. In Jung l'io non solo è conscio, ma si sdoppia e
svolge due ruoli. Per Jung, infatti, è: a) sia l'insieme delle
rappresentazioni consce che stanno al centro della coscienza (a questo Io,
a queste rappresentazioni consce, si contrappone il Non-Io); b) sia
funzione mediatrice fra Io e Non-io, fra coscienza e inconscio, fra
individuale e collettivo. In
un contesto di psicologia sociale Freud ci ricorda come la cultura abbia
dovuto fondare istituzioni e metodi educativi che, sebbene costituiscano
un indubbio disagio, sono tuttavia assolutamente necessari; e, per
converso, pur essendo necessari restano inevitabilmente opposti agli
istinti naturali. Tale opposizione, lo ripetiamo, in Freud appare un'alterità
immediata e insuperabile [FREUD, S., 1929]. Jung ancora pone la stessa
opposizione, ma non più in termini antinomici. Anche per Jung le
terrificanti rappresentazioni dell'inconscio collettivo non possono essere
trattate direttamente dal soggetto conoscente, tuttavia sono suscettibili
di una mediazione simbolica [JUNG, C.G., 1912].
Jung
accoglie tutto nel suo sistema, anche gli opposti. Accetta i fatti così
come li trova; non accetta di esser considerato contraddittorio per
questo; sono le cose ad esserlo. Quando due fatti sono in contraddizione
Jung non scarta una dei due dicendo o l'uno o l'altro (o
... o, Entweder ... oder) ma li accetta entrambi (e
... e, Sowohl ... als-auch). Jung non accetta di fermarsi alle
antinomie, ma crede che si possa procedere dialetticamente e operare una
sintesi. Crede che la vita stessa proceda dialetticamente e trae dalla
vita, e dai suoi miti e dai riti, lo spunto per il suo progetto di
composizione simbolica. Sappiamo
che a fermarsi alle antinomie è il Freud della sua opera più matura: Il
disagio della civiltà (1929). Ascoltiamo come conclude quel saggio:
"E ora c'è aspettarsi che l'altra delle due potenze celesti, l'Eros
eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario
altrettanto immortale". Opposizione irriducibile fino all'ultima riga
dunque, in cui si riafferma che l'unico metodo sarà la lotta senza
quartiere il cui esito non sarà mai definitivo. Una condizione senza via
d'uscita. Lotta
che infuria lungo tutto lo scritto, sin dalle prime frasi. La società, la
civiltà, la cultura rendono l'uomo infelice. "Il mio lavoro, se
avesse bisogno di un titolo, potrebbe chiamarsi: L'infelicità
delle civiltà". Una civiltà tutta rivolta a reprimere le
passioni dell'uomo, un uomo assediato dai suoi bisogni inconsci tenuti a
bada solo dalle costrizioni sociali e dai sensi di colpa. Le istituzioni
sociali sono prima di tutto baluardi contro l'incesto e il parricidio.
Baluardi però che fanno soffrire e limitano colui che proteggono. Freud
è rassegnato ad accettare tutto questo. La civiltà è disagio, ma
disagio inevitabile; in altre parole l'uomo non può vivere senza società,
ma nell'ambito della società non è felice. La felicità non rientra per
Freud nei piani della creazione. Nessuna mediazione è possibile per lui;
la mediazione sarà presente solo in Jung. Mentre addirittura una sorta di
armonia, di feeling, fra uomo e società,
è presente solo in Adler. La composizione del conflitto in Freud non c'è,
al massimo si può pensare ad una tregua. Il nostro prossimo non merita
per Freud il nostro amore: "Devo confessare onestamente che egli ha
più diritto alla mia ostilità, anzi, al mio odio". L'uomo
trova un ostacolo nella società. Questa impone grandi sacrifici "non
solo alla sessualità, ma anche alle tendenze aggressive dell'uomo".
Freud ammette di avere tardato molto a riconoscere, a differenza di Adler,
l'esistenza autonoma di un aggressività di fondo. Ormai a questo punto,
siamo nel '29, nove anni dopo la svolta, egli ritiene che l'aggressività
sia la manifestazione esteriore di un'invisibile e onnipresente pulsione
di morte. E
senza speranza sono anche le lettere che scrive ad Einstein. La guerra è
e sarà sempre inevitabile, dice in quella lettera in cui conclude:
"Mi spiace, ma non posso offrirle una visione più consolante". Pensiamo
tuttavia di riservare a Freud uno spazio minore, a dispetto della sua
indubitabile importanza. Lo facciamo sorretti dalla convinzione che il suo
mancato superamento del punto di vista dualistico abbia, per noi,
interesse minore che non le posizioni più ottimistiche di Jung e di
Adler. Non solo queste godono di maggiore modernità, ma la posizione
tarda di Freud è inficiata dal sospetto che, in quel periodo, molto
abbiano influito sulle sue idee la lunga malattia, la tristezza saturnina
che lo affliggeva da tempo, la solitudine in cui si era confinato.
"Quanto a me - scriveva a Lou Salomé nel '27 - la tetraggine della
vecchiaia, la disillusione più completa, paragonabile al raggelamento
della luna, a un congelamento interiore, ... la mia sciatteria e la mia
indolenza, stanno avendo la meglio su di me". Freud,
scrivendo a René Laforgue, in un certo senso rinnegherà Il
disagio della civiltà. Dirà infatti: "È l'opera di un
vecchio!". Ma non possiamo trarre conclusioni affrettate; questo
giudizio si riferisce solo alla natura poco scientifica dell'opera e non
alla condanna del dualismo, che resta per lui insuperabile e non può
approdare mai né alla dialettica come in Jung né alla spinta
sociale come in Adler. Il
padre della psicoanalisi resta impotente e rancoroso di fronte alla società;
non dialoga con lei, né l'ama. Ogni rivendicazione del singolo al diritto
all'individuazione è per lui negata. Dice Montefoschi
(L'uno e l'altro): viene
così sancita biologicamente l'incapacità dell'essere umano di diventare
padrone della propria esistenza e artefice della storia, anche perché
tutta la storia dell'uomo si riduce al passaggio dalla dipendenza
dall'autorità del padre primordiale a quella dell'ordine costituito dalla
società ... non c'è l'uomo quale soggetto della storia; l'uomo resta ...
nella sua impotenza originaria ... Freud considera la vita umana, in
quanto umana, soltanto in funzione della società, tanto è vero che
l'istinto è ritenuto pericoloso non per l'uomo stesso, ma per
l'organizzazione sociale. O sei sociale o sei animale; tertium non datur. Non è possibile essere e l'uno e
l'altro. "O civiltà e repressione istintiva, o libertà istintiva e
ritorno alla barbarie" (ibid., p.279). Si può abitare solo in uno
dei due corni del dilemma. Un terzo luogo sarà invece possibile per Jung,
come vedremo fa poco. E non solo per Jung. Marcuse stesso era stato, pur
restando freudiano "di sinistra", capace d'intravedere una
possibilità sintetica nella dimensione estetica (Eros
e civiltà). Dice infatti: "Nella dimensione estetica sta
l'unione erotica della civiltà con la natura, dove l'ordine è bellezza e
il lavoro è gioco". La sintesi non è una via di mezzo in cui entrambi i corni del dilemma non ci sono più; è bensì una via in cui e l'uno e l'altro sono spinti ad esser presenti nell'unione ai massimi livelli compatibili. Nella sintesi si realizza una possibilità dinamica e liberatoria per l'uomo. La libertà di cui stiamo parlando è libertà dalla fissità del già dato, dall'adesione immediata a ciò che ci appare insuperabile, così come viene visto ora. La dialettica presuppone una possibilità in divenire in cui ciò che oggi appare assolutamente altro possa diventare oggetto di mediazione, di adesione ad un compromesso in cui la presenza dell'altro non sia possibile perché attenuata, ma perché accettata. Accettata perché ci appaiono possibili dei momenti sacrificali in cui si lascia spazio all'altro, in quanto ciò appare di reciproca convenienza. c)
Jung:
E uomo ... E società (Sowohl
... als-auch) ...
il contrasto totale non conosce un terzo termine - Tertium
non datur! La scienza si arresta ai confini della logica; non così la
natura, che fiorisce anche lì dove nessuna teoria è ancora mai
penetrata. La venerabilis natura non s'arresta davanti al contrasto, ma se ne
serve per formare, dagli elementi avversi, un nuovo essere". (Jung,
1946, La psicologia del transfert,
Il Saggiatore,1974, pag. 189) Come
vediamo dalla precedente citazione, posta in epigrafe per la sua
importanza, a differenza di Freud, Jung crede nella possibilità formativa
e trasformativa dell'uomo. Così che può scrivere a tal proposito S.
Montefoschi (L'uno e l'altro, p.
277): Il
discorso [di Jung] ... inizia
proprio dove quello di Freud si chiude nella drammatica visione
dell'impossibilità, per l'uomo, di risolvere il conflitto tra istintualità
e relazione, tra libertà e vita sociale, e ricollegandosi alla concezione
di fondo dell'antropologia freudiana che pone l'uomo come oggetto
di un conflitto fra natura e cultura, la ribalta e nel proporre l'Io
come soggetto del conflitto riconosce nel conflitto stesso la natura
umana. Istinto
e società non sono per Jung più fuori dell'uomo, né l'uomo è oggetto
in balia degli stessi. Se l'uomo è soggetto, è data per lui anche la
possibilità di porsi come arbitro e mediatore del conflitto. Sarà il
simbolo, o meglio l'attività simbolica, a consentire, operando la
trasformazione dell'istinto in creatività, la possibilità di coesistenza
o d'incontro fra i due inconciliabili. Dice ancora Montefoschi (Un
pensiero in divenire, p.195-196): [
In Freud] il dramma si presenta così senza soluzione in quanto il
conflitto non si può evolvere in dialettica mancando il terzo, quel terzo
che, riconoscendo in sé i termini contrari, se ne riconosca soggetto
mediatore. Il terzo è proprio l'unità dialettica, quell'uno che contiene
i due e che nel riconoscerli in sé stesso già si fa terzo trascendendoli
quale soggetto che li media. Giova
qui ricordare quanto abbiamo detto a pagina due, ossia che il concetto di
Io in Jung risente della presenza di questo Terzo; la sua definizione,
come conseguenza del pensiero dialettico, non può che scostarsi
sensibilmente da quella freudiana. L'Io è qui anche mediatore fra se
stesso e l'oppositore eterno. Questa
mediazione Jung la compirà attraverso il simbolo, come vedremo fra poco.
Vorremmo provare, con alcuni piccoli schemi, ad illustrare graficamente
questa possibilità mediativa (vedi tavole di pag. 7-8-9). Il simbolo
permette di fare incontrare una parte del soggetto e una parte
dell'oggetto, un rappresentate del soggetto e un rappresentante
dell'oggetto. L'esempio di mediazione più citato in ambito junghiano è
il rito wachandi: gli uomini scavano
una buca nella terra e vi infiggono una spada. Un rappresentante del
figlio e un rappresentante della madre si uniscono. Il figlio distacca da
sé la spada e distacca dalla madre la terra. Quel rito è il luogo delle
possibilità mediative. Jung
fa così incontrare un opposto con l'altro, in particolare l'Io conscio
con il Non-io inconscio, e provoca un confronto fra i due, come nella
tecnica dell'immaginazione attiva, che mira al superamento di entrambi in quanto
separati, ma non in quanto distinti, e cerca la loro sintesi nella
distinzione. Si sente in questo l'influenza di Hegel (identità finale di
soggetto e oggetto), ma anche quella di Holderlin; il traguardo finale del
processo individuativo può, infatti, riassumersi nella celebre ed
essenziale espressione del poeta di Nekkar: il traguardo finale è l'uno
in se stesso distinto. Senza
individuazione, la coscienza rischia d'essere inghiottita da un lato nel
conscio collettivo (sociale o culturale), dall'altro nell'inconscio
impersonale, il collettivo naturale. Attraverso l'individuazione, la
coscienza però diventa capace di un incontro con entrambi, in modo
personale, singolare, individuato. Lo fa assumendosi il peso del proprio
essere personali, conservando la stima di sé anche fuori dai ruoli e
dalle attese, tollerando la tensione della minaccia che gli viene sia
dalla natura-madre-inconscio, che dalla cultura-padre-società. Per
diventarne capaci occorre sperimentarsi nel conflitto e diventare
consapevoli della propria capacità di confronto con l'altro. Fra
i due opposti c'è dapprima separatezza, per divieto di contatto diretto
con l'oggetto, a causa della pericolosità dell'altro da sé. Ma poi si
scopre che si può sostituire quest'ultimo con il simbolo. Il simbolo
permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L'unione del soggetto col
simbolo (rappresentante dell'oggetto) è concessa. In terapia il simbolo
è impersonato dall'analista. Analista che è analogo al padre, analogo
alla madre. È l'analogia che consente il trasferimento da qualcosa di
sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante a qualcosa di
accessibile, lecito, accettabile. Riporto
da Negazioni (L. Rossi, Quattroventi, Urbino, 1992) lo schema
seguente:
O
= oggetto in sé (madre) G
= oggetto analogo distaccabile (terra) C
= soggetto in sé (figlio) R
= soggetto analogo distaccabile (spada) In
quella che appare, per una visione statica, un'opposizione irriducibile,
per una visione dialettica si dà, come possibilità latente non ancora
percepita, un terzo polo disponibile per possibili operazioni di
mediazione. Vi
sono tanti aspetti della realtà in cui tali due opposti non possono avere
rapporti diretti. È lì allora che occorre l'opera del terzo. Il
soggetto, in quanto capace di produrre simboli, opera una trasformazione
dell'oggetto, a sua volta capace di assumere in sé il simbolo in forza
dell'analogia, e lo investe di energia. Per prendere contatto con gli
oggetti naturali in via mediata, occorre che la parte riflessiva o
epistemologica del soggetto operi una trasformazione dell'oggetto da
naturale a simbolico (ma in realtà si tratta di uno spostamento
dell'investimento dall'oggetto originario all'oggetto simbolico) e prenda
poi contatti con l'oggetto simbolico da lei costruito, con un procedimento
creativo e artificiale. Anziché rapportarsi immediatamente con un oggetto
naturale, il soggetto si rapporta ad esso in modo mediato, tramite un
oggetto da lui stesso prodotto. Il soggetto
costruisce dunque se stesso: oggetto simbolico per un certo verso,
soggetto di un'operazione epistemologica per un altro verso. L'oggetto
privo di mistero e di pericolo è stato creato traendolo dalla natura, che
deve esser assoggettata per questo ad un artificio consapevole della
riflessione se si vuole che il soggetto sappia di se stesso e colga la
forza dell'analogia che ha permesso la trasformazione dell'oggetto
inquietante. Il soggetto ora sa con chi si rapporta e da quale posizione.
Egli percepisce se stesso all'interno del terzo come soggetto riflessivo e
sa di rapportarsi col terzo in quanto oggetto trasformato. Riflettere,
distinguere e giudicare non è semplicemente negare o fuggire
l'immediatezza del naturale, ma soprattutto affermare la maggior
adeguatezza, ai fini ontologici, della mediazione riflessiva. In
Jung si riafferma dunque un'ottica sociologica, secondo la quale la società
può unirsi all'uomo senza opprimerlo. Può l'uomo individuarsi senza
uscire dalla società? Jung precede proprio questo. L'eroe alla fine del
suo viaggio solitario rientra nei ranghi, evitando ogni tentazione
maniacale, e consegna il tesoro conquistato a tutti gli uomini come un
dono. Dice
Montefoschi (Un pensiero in divenire, p. 82): L'io
è diventato solo il portatore consenziente del processo che si realizza
in lui e, tramite lui, nell'umanità. Il dono prezioso che l'eroe riporta
dal suo viaggio è destinato quindi all'umanità. L'eroe torna ad essere
anonimo, un uomo tra gli uomini ... Il
divenire del singolo appare in Jung solo come un momento del divenire
sociale, fase e strumento di quest'ultimo. d)
Adler: uomo PRO società … una visione etico-sociale (psicologia
sociale) "Essenzialmente,
l'adattamento sociale e quindi il comportamento etico non sono visti come
una semplice restrizione della natura umana, una modificazione determinata
da pressioni esterne o il risultato di un conflitto intrinseco tra forze
opposte interne, ma piuttosto come una forma di espressione in armonia con
una predisposizione naturale." (Ansbacher, 1956, La
psicologia individuale di Alfred Adler, Martinelli, 1997, pag.153) Non una restrizione della natura umana dunque, ma un
comportamento in armonia con una predisposizione naturale: ecco cosa è
per Adler l'adattamento sociale; un comportamento che, in qualche modo e
con certe qualità, già appartiene, naturaliter,
all'umano. Non è dunque, come per Freud, il risultato d'una sottomissone
obbligatoria ad una realtà che l'opprime e la schiaccia. Non un frutto di
forze sociali che hanno sottomesso quelle egoistiche, né, tantomeno, il
risultato di formazioni reattive. "Le
bon, alors, pas l'obbligatoire!", direbbe forse Paul Ricoeur,
contribuendo al nostro dibattito: il sociale lo accettiamo perché è
buono, non perché è obbligatorio. L'uomo
di Adler è ben lontano dunque dall'individuo freudiano, quello che Celine
chiamerebbe le malheureux de ce
monde, lo sventurato della terra, che si adatta alle imposizioni
sociali contro la propria volontà: l'individuo adleriano possiede al
contrario, "per sua natura", una "felice" spinta
sociale originaria. È questo che fa della "psicologia
individuale" una dottrina sociale di cui vogliamo seguire brevemente
il percorso storico iniziale. Ai
tempi della prima formulazione del suo pensiero (Il temperamento nervoso, 1912), Adler ipotizzò un unico
principio dinamico fondamentale: la pulsione aggressiva o volontà di
potenza. A contrastare tale pulsione, da lui definita anche "finzione
di sopraffazione", doveva poi essere un sentimento comunitario
che si costituiva come fattore secondario antitetico all'aspirazione
aggressiva alla superiorità. Egli lo definì, di conseguenza, una "controfinzione". Questa
prima teorizzazione fu ben presto abbandonata per far posto ad una
seconda, e per lui definitiva, dinamica psicologica. Quest'ultima venne
caratterizzata da due pulsioni: quella alla superiorità e quella
sociale; spinte, queste, non più antitetiche bensì parallele (almeno in
potenza) e che devono, e possono, armonizzarsi fra loro. Nella nuova
ipotesi il sentimento sociale non è più una forza dinamica secondaria
che nasce a controbilanciare la volontà di potenza, ma una spinta
primaria, utilizzata dall'individuo per la sua aspirazione, socialmente
neutra, alla superiorità. "L'apparente
conflitto tra "le due grandi tendenze", l'innato Gemeinschaftsgefuhl
e l'innata spinta alla superiorità, nella teoria adleriana è risolto
mediante un'idea di ragione […]. Si è superiori solo se si è
ragionevoli, il che significa riconoscere l'interesse sociale, sì che le
proprie azioni siano superiori dal punto di vista del mondo, e per gli
altri siano di utilità." (Hillman, 1983, Le
storie che curano, Raffaello Cortina, 1984, pagg143,144) Quindi,
se da un lato Adler è in accordo con Jung nel discostarsi dalla
pessimistica visione freudiana di un uomo imprigionato in un insolubile
conflitto con la società, egli compie però, dall'altro, un passo
ulteriore rispetto a Jung e si avvia verso l'idea di un uomo naturalmente
sociale. Per Adler, infatti, il sentimento comunitario caratterizza l'uomo
fin dai primi mesi di vita; si tratta di una sua spinta innata. Una spinta
però, e questo è un punto fondamentale, che ha bisogno d'essere
successivamente sviluppata attraverso un adeguato sistema educativo, e non
raggiunta, come vuole Jung, attraverso un cammino individuativo. Quale
differenza sussista fra i due lo vedremo fra poco in sede di conclusioni. Prima
di questo ci compete, infatti, un altro compito: chiarire la natura di
questa pulsione; ciò perché i termini "spinta innata" e
"sviluppo" possono senza dubbio apparire contraddittori o, nella
migliore delle ipotesi, configurarsi ancora una volta come i protagonisti
di quell'antico confronto che caratterizzò la filosofia presocratica:
l'essere e il divenire. Mentre
la volontà di potenza è un vero e proprio istinto che non necessita,
come il termine stesso lascia intuire, di nessuno sviluppo ulteriore,
perché si dia la sua influenza sul comportamento umano, il sentimento
comunitario necessita di ulteriore evoluzione. A questo proposito Adler
sostiene (1933e, pag. 257) che si deve "considerare il substrato
innato del sentimento sociale troppo piccolo e non abbastanza forte da
divenire efficiente senza l'aiuto della società". Dobbiamo,
sì, dunque pensare al sentimento sociale, o di cooperazione, come ad una
componente innata dell'uomo, ma soltanto nei termini di una
"potenzialità da sviluppare" attraverso un aiuto sociale
specifico: ciò che è innato e spontaneo, allora, non è una capacità
pienamente sviluppata, bensì una potenzialità: dovremo quindi parlare
non tanto d'istinto sociale, ma più precisamente di spinta sociale. Lo
sviluppo di tale potenzialità avviene originariamente all'interno della
relazione primaria madre-bambino: la funzione materna, secondo Adler, è
proprio quella di instillare nel bambino il senso della comunità. Già
nei primi mesi di vita (nel comportamento del bambino, nelle sue
espressioni verbali, nella modalità comunicativa in senso lato e nel
gioco) possiamo spesso osservare i frutti
di questa educazione alla relazione sociale. La possibilità che un
individuo sviluppi la propria spinta sociale innata dipenderà allora
dalla compresenza di due fattori: quello ambientale, soprattutto la
funzione materna, e quello biologico, ossia la dotazione naturale. "La
possibilità di educare il bambino dipende dall'ampiezza del suo innato,
differenziato e crescente sentimento sociale attraverso il quale si unisce
all'ideale comune. È così che le richieste della comunità divengono le
richieste personali e la logica immanente della società, con i suoi
problemi e le sue necessità, diviene il compito individuale per il
bambino." (Ansbacher,
pag. 145; Adler, 1922b, pag. 119) Guardando
lo sviluppo psicologico da un punto di vista sociale possiamo considerare
la relazione terapeutica analista-paziente come una riedizione dell'antica
relazione madre-bambino, in cui il terapeuta assume la funzione sociale
materna. Per
comprendere quanto per Adler il sentimento di comunità sia parte fondante
della natura umana, o meglio della natura tutta, occorre fare breve cenno
ad uno dei principi fondamentali della psicologia individuale: il
"principio dell'influenza cosmica". Secondo tale principio ogni
soggetto è influenzato dal cosmo e ne porta interiormente le tracce; e
anche il senso di comunità, quindi, altro non sarebbe che il riflesso di
tale legame. Per cui l'uomo che vive secondo il senso sociale è l'uomo
che ha accettato presso di sé le naturali esigenze della comunità e, in
senso più lato, del cosmo stesso. Ma
tale principio non può non evocare nelle nostre menti la teorizzazione
junghiana sull'inconscio collettivo e gli archetipi, ed è proprio
sull'interdipendenza del genere umano dal collettivo e sull'importanza
della relazione, a livello teorico prima, e clinico poi, che s'incontrano
i due allievi ribelli, Jung e Adler, anche se le rispettive letture
restano personali. A tale proposito scrive Ellenberger: "In
quanto esseri animati, noi ci sentiamo naturalmente legati a tutto il
genere umano, passato, presente e futuro; e mentre Jung dimostra questo
legame universale in modo oggettivo, in forma di modelli archetipici che
si ripetono attraverso la storia, la cultura, l'istinto, Adler è
interessato invece al sentimento e all'azione di questo legame: in che
modo esso agisce nell'uso che se ne fa. Come si comportano gli esseri
umani rispetto al loro modo altruistico di sentire la comunità
universale? Lo sfondo filosofico è qui l'etica di Kant: l'imperativo sono
le relazioni umane." (Ellenberger, 1970, La
scoperta dell'inconscio, Universale Bollati Boringhieri, 1976, pag.
143, vol. II) e)
Coscienza antinomica, sintetica, edotta: critica di un parallelo. Dunque
la posizione di Adler sembra essere, prima
facie, simile alla posizione sintetica di Jung, così come quella di
Freud appare simile alla fase oppositiva junghiana. Le definizioni di
questi stadi evolutivi rimandano ad un modello quinario da noi
precedentemente sviluppato (La dialettica dell'individuazione, Il
Sagittario, n° 9), che prevede tre fasi e due movimenti. Gli
elementi dialettici, allora ipotizzati, possono nella fattispecie essere
schematizzati come segue: FASE SIMBIOTICA
à
FASE OPPOSITIVA à
FASE SINTETICA NATURA
à
SVILUPPO DI
FREUD à
SVILUPPO DI
JUNG E
DI ADLER Ma
ciò che soprattutto importa chiederci ora è se la posizione di Adler sia
una posizione sintetica alla stessa stregua di quella di Hegel e Jung
oppure assuma un rilievo affatto peculiare. Anche
la filosofia conosce questo dilemma e propone tre risposte al quesito
sulla coscienza finale: a) quella, archetipica, della completezza
iniziale; b) quella che dubita di ogni cogito
immediato e dispera; c) quella, infine, di chi cammina proprio perché
dubita. Quest'ultima,
che facciamo nostra, è la via del sospetto senza disperazione, il cammino
di colui che sa che nulla otterrà senza sforzo. L'uomo finale di Adler e
Jung hanno certamente molti tratti di quest'ultima posizione. È questa
anche la posizione che Paul Ricoeur (1990, pag. 27) descrive con parole
lapidarie: "Soggetto esaltato, soggetto umiliato: è sempre, pare,
con questa opposizione che ci si avvicina al soggetto"; egli lo fa là
dove s'interroga sulla possibilità di "un luogo epistemologico
situato al di là di quest'alternativa del cogito
e dell'anti-cogito", e sulla effettiva possibilità di un soggetto che,
prima affermato da Cartesio e poi negato da Freud, in Hegel e Jung si nega
per affermarsi. Nella
visione di quest'ultimo il soggetto volta le spalle ad un infanzia dorata
per incamminarsi verso una "selva oscura", senza ritorno come la
nigredo degli alchimisti,
negandosi così al passato, ma solo per ritrovare se stesso nel lavoro e
nello sforzo. All'eroe di Jung non è dunque consentito rimanere nella
condizione tetica di Cartesio o nella condizione oppositiva di Freud. Si
può dire lo stesso dell'uomo di Adler? C'è in lui una linea evolutiva
altrettanto esplicita? Abbiamo
visto che per Adler il senso sociale, all'inizio, non ha ancora uno
spessore ontologico; la socialità iniziale adleriana non è ancora
"atto", ma soltanto "potenza". Chiudiamo
allora con una domanda. Il
percorso dalla potenza all'atto, attraverso il quale l'uomo adleriano
raggiunge, con il concorso formativo dell'ambiente, la realizzazione
ontologica finale, è altrettanto voluto e perseguito ad ogni costo e
senza l'aiuto della società come nel caso di Jung? O
non accade piuttosto il contrario e la tumultuosa ed eroica disubbidienza
junghiana, la sua opposizione solitaria e la differenziazione definitiva
dal collettivo sociale, appaiono, ancorché adattate, come malattia e
peccato al tranquillo e sociale scorrere delle ore adleriane? Conosciamo
la risposta di Adler. Ma per i suoi epigoni, a novant'anni di distanza, in
anni in cui forse l'adattamento non è più considerato un bene assoluto,
la soluzione ricalca ancora quella del Maestro?
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