TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


Il Vello d'oro

 

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La ricerca del vello d’oro

di Lisa Marchetta

 

“Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi

solo i sogni che non fanno svegliare”

“Sì, Vostro Onore, ma li voglio più grandi”.

Fabrizio De Andrè [1]

 

 

 

Gli eroi, pur rimanendo umani, hanno in sé il divino; e le loro azioni son consegnate al culto. Una sostanziale distinzione tra la vera mitologia e la mitologia degli Eroi, tra le quali intercorrono molteplici relazioni, consiste nel fatto che la mitologia degli Eroi è altresì più o meno collegata con la storia, con gli avvenimenti non di un tempo “primordiale”, esistente fuori dal tempo, ma col tempo “storico”, e così strettamente intrecciata e attinente ad essa come se fosse già proprio storia e non mitologia. Agli Eroi non possiamo disconoscere per principio una effettiva esistenza storica, una storicità. […] La luce del divino, che cade sulla figura dell’Eroe, è stranamente mescolata all’ombra della mortalità. Ne deriva un carattere mitologico, il carattere di un essere speciale, al quale appartiene almeno una storia: il racconto che riguarda quello e nessun altro Eroe [2].

 

A noi interessano i racconti sugli Eroi proprio per questa duplicità del loro essere immutabili e, insieme, inseriti nel tempo storico narrato dai poeti: essi, infatti, si presentano con caratteristiche umane, peculiari e definite, ma con una luce divina che entra nella Storia; la loro vicenda si conclude in quasi tutti i casi con la morte del corpo e l’immortalità del ricordo.

In particolare, sarà la storia dell’eroe Giasone e del suo viaggio con gli Argonauti, cantata da Apollonio Rodio, a guidarci alla scoperta di alcuni dei temi cari alla psicodialettica: la negazione della terra dei padri e del pensiero povero, il duplice viaggio, la dialettica tra forza fisica e dialogo, tra maschile e femminile e – infine - l’apertura di un varco dal quale passerà Medea, simbolo della necessità di ricondurre la relazione su un piano personale.

Nell’opera di Apollonio si possono riconoscere le cinque fasi del processo di individuazione che, secondo la psicodialettica,  caratterizzano il percorso esistenziale del soggetto [3]:

  1. stato indistinto, indifferenziato, unione simbiotica tra l’uno e l’altro;

  2. differenziazione, separazione;

  3. stato differenziato, opposizione;

  4. integrazione, ritorno, annullamento della separazione tramite l’interpretazione;

  5. stato integrato, sintesi, condizione conciliata con l’altro, cui ci si riunisce nella distinzione.

Infatti, per individuarsi, per raggiungere il proprio Sé, l’Io deve prima separarsi dal Non-io, proiettandolo fuori di sé, per poi riappacificarsi con lui attraverso l’integrazione.

 

 

 

  1. Stato di indifferenziazione (unione simbiotica tra l’uno e l’altro)

 

Tra gli Eroi della Grecia, il cui rappresentante è Giasone, e la società greca, rappresentata da Pelia, non c’è distinzione: in questa prima fase, in cui Apollonio narra le origini degli Eroi de Le Argonautiche, emerge lo stato di fusione tra i valori e la società dei padri e le gesta dei figli.  Gli Eroi devono ancora compiere il viaggio verso la Colchide e, inizialmente, è descritta la loro origine genitoriale e l’importanza di alcune imprese compiute in passato.

 

Primo fra tutti ricorderemo Orfeo, che un tempo Calliope,

unita al trace Eagro, secondo quanto si dice, partorì presso il monte Pimpleo.

Dicono che egli ammaliasse col suono dei canti le dure rocce dei monti

e le correnti dei fiumi. Quel canto ancor oggi lo attestano

le querce selvagge che sulla costa di Zone,

in Tracia, fioriscono, disposte per file serrate

in ordine: sono le querce che con l’incanto della sua cetra

il poeta fece muovere e scendere giù dalla Pieria.

Tale era Orfeo che il figlio di Esone chiamò in aiuto all’impresa,

obbedendo ai consigli del centauro Chirone [4].

 

L’intento è di chiamare a questo viaggio i migliori uomini della Grecia, per genealogia e per talento dimostrato. Il compito è imposto dal duro Pelia, timoroso che la sua vita sia spezzata da Giasone, figlio di Esone. Nel regno di Pelia non c’è scampo per Giasone e il re lo lascia in vita solo in cambio di un viaggio il cui scopo è riportare il vello d’oro in terra greca.

Questa prima fase mostra la necessità di un viaggio riservato esclusivamente ad Eroi “per stirpe e per nome”. Si tratta di un viaggio iniziatico, che, se non si concluderà con il ritorno, sarà perché avrà portato la morte: la Morte è la grande iniziazione [5].

Gli Eroi dispongono di una nave che li condurrà in terre lontane, una nave costruita da Atena allo scopo di proteggere Giasone dai rischi del viaggio.

 

Tifi, figlio di Agnia, lasciò la terra tespia di Sife:

era abilissimo nel sapere già prima i flutti del vasto

mare, abilissimo nel sapere le tempeste di vento,

nel guidare la rotta guardando al sole e alle stelle.

La dea Tritonide stessa, Atena, lo mandò in mezzo alla schiera

degli eroi, e il suo arrivo soddisfece le speranze.

Fu lei stessa infatti a costruire la nave

e insieme, seguendo i suoi ordini, il figlio di Arestore, Argo:

perciò fu la nave migliore fra tutte quante affrontarono

la prova del mare, spinte a forza da remi [6].

 

 

 

  1. Fase della differenziazione (separazione, prima negazione)

 

Le madri greche piangono l’imminente partenza dei figli, a mostrare quanto sia difficile l’avvio del viaggio, la separazione. Mentre la dea Atena costruisce Argo, la nave destinata all’impresa di Giasone, la madre naturale Alcimide così parla al figlio che sta per partire:

 

Oh se quel giorno, quando ho sentito il re Pelia

(ahimè infelice!) dare il funesto comando,

avessi subito reso l’estremo respiro, e scordato le pene,

e tu, figlio mio, m’avessi sepolta con le tue mani

care: questo soltanto da te mi restava a volere;

ogni altro compenso d’averti educato da tempo l’ho ricevuto.

Ora io ch’ero ammirata in passato da tutte le Achee,

come una schiava sarò abbandonata dentro stanze vuote,

e mi struggerà, infelice, il ricordo di te, grazie al quale

avevo prima tanto splendore e onore, e per cui soltanto

ho sciolto la mia cintura, per la prima e per l’ultima volta,

giacché la dea Ilizia mi ha tolto di avere altri figli.

Ahimè quale sventura è la mia! Neppure in sogno ho pensato

che la fuga di Frisso avrebbe portato a me tanto male [7] .

 

Alcimide vorrebbe trattenere Giasone e pronuncia parole che potrebbero suscitare il senso di colpa e il senso del dovere da parte del figlio, ma Giasone non si lascia fermare e così le risponde:

 

Madre mia non nutrire dentro di te un dolore eccessivo;

non puoi tu con le tue lacrime tenere il male lontano,

ma solo aggiungere ancora dolore sopra dolore.

Gli dèi assegnano agli uomini imprevedibili pene,

e per quanto tu soffra nel cuore abbi coraggio, sopporta

il destino, ed abbi fiducia nell’amicizia di Atena,

e nei vaticini che Febo ci ha dati, propizi,

e nell’aiuto dei miei valorosi compagni.

Rimani qui tranquilla in casa, con le tue ancelle,

e non venire alla nave: saresti un tristissimo augurio.

Là mi faranno da scorta, nel mio cammino, i servi e gli amici [8].

 

Nel dialogo tra Giasone e la madre è sintetizzato il senso della missione: l’intento della madre patria e della madre naturale di non lasciare che il figlio parta per trovare una nuova legge e, insieme, il bisogno del figlio di divenire Eroe attraverso un viaggio in territori lontani, i territori dell’anima.

Giasone, che già si rivela Eroe, frena con fermezza l’angoscia materna asserendo la necessità di accogliere il proprio destino; egli si separa ancor prima che la nave parta: è accettando il compito, accettando il viaggio, che egli nega la terra dei padri.

 

 

 

  1. Stato differenziato ma non integrato (opposizione)

 

Questa fase rappresenta il continuo e faticoso cammino nell’affermazione della propria diversità. E’ un lungo percorso, nel quale tanti processi dialettici si susseguono.

Vediamo come ciò avviene nella mitica vicenda degli Argonauti.

Giasone chiama a raccolta i compagni per definire la prima legge necessaria ad affrontare il viaggio: la scelta del capitano della nave. Le leggi di Argo, infatti, saranno scritte dagli Eroi che costituiranno l’equipaggio e non da un re della Grecia. Giasone sceglie di condividere con il gruppo ogni decisione. Egli chiede ai compagni di individuare il migliore, che diverrà il capo. La scelta cade su Eracle, ma questi, sprezzante, rifiuta e chiede che il comando sia assunto da “colui che ci ha qui radunati[9].

L’esito del rapporto dialettico tra Eracle e Giasone, tra il rappresentante della forza fisica e quello della parola, esprime l’intenzione di dare al viaggio una connotazione verbale e non fisica. La personalità di Giasone è già in cammino verso la differenziazione.

Gli Eroi preparano la nave con grande cura e Giasone invoca Apollo, il Dio dei suoi padri, affinché tutti possano ritornare incolumi in Grecia. Il figlio di Idmone, Eroe e vate che partecipa al viaggio, così spiega il pensiero di Apollo:

 

Vostro destino e volontà degli dèi

è che torniate qui con il vello, ma prima,

all’andata e al ritorno, avrete infinite fatiche.

A me una sorte crudele ha stabilito

la morte in una terra molto lontana, nell’Asia.

E io che da funesti presagi sapevo già prima il futuro

ho lasciato la patria e sono salito sulla vostra nave

per lasciare alla mia casa con questo viaggio un buon nome[10].

 

Dopo un ricco banchetto, vedendo Giasone triste in volto, Ida cerca per lui parole d’incoraggiamento, ma mostra la propria superbia e la propria stoltezza poiché sfida gli Dèi. Interviene allora il figlio di Idmone: il conflitto dialettico è ancora una volta tra la forza fisica, di cui è rappresentante Ida, e la forza della divinazione, di cui è rappresentante il figlio di Idmone. I compagni tentano subito una riconciliazione e Orfeo suona la cetra dando inizio al canto.

 

Cantava come la terra e il cielo e il mare, che un tempo

erano fusi insieme in un’unica forma,

furono gli uni divisi dagli altri a motivo della funesta discordia,

come nel cielo le stelle, e il percorso della luna e del sole,

abbiano un segno sempre fissato, e come sorsero i monti

e come nacquero i fiumi sonori, assieme alle ninfe,

e gli animali. Cantava come all’inizio Ofione ed Eurinome,

figlia d’Oceano, ebbero la signoria dell’olimpo

nevoso, e come, vinti dalla violenza, cedettero

il proprio potere Eurinome a Rea e a Crono Ofione,

e precipitarono dentro le acque d’ Oceano,

e quelli regnarono sopra i beati Titani,

finché Zeus ancora fanciullo, avendo dentro di sé pensieri infantili,

abitava la grotta Dittea, e i Ciclopi,

nati dal suolo,  gli avevano dato la forza

del tuono, del lampo, del fulmine, che sono la gloria di Zeus.

Disse e poi fermò insieme la cetra e la voce divina,

ma quand’ebbe finito ancora gli eroi allungavano il collo,

e restavano immobili, tendendo le orecchie all’incanto,

tale malia il poeta aveva lasciato dentro di loro [11].

 

Le parole di Orfeo raccontano che in principio in natura tutto era fusione e che solo in seguito la discordia andò separando gli elementi; il canto ci conduce a percorrere la storia degli uomini, che è stata storia degli Dèi e -ancor prima- storia dell’universo. Esseri umani, Dèi e universo seguono la stessa evoluzione ed è proprio la discordia (cioè la separazione) che permette il movimento, il percorso evolutivo.

Gli Eroi si apprestano quindi ad intraprendere il viaggio tra le grida del porto e della stessa Argo, la nave forgiata da Atena col legno di una quercia che, parlando, mostra di essere un organismo “divino”.

Poi la partenza.

Come in tutti i percorsi iniziatici, quali sono sempre i viaggi di formazione, Giasone e gli Argonauti dovranno superare una serie di prove difficili e imprevedibili.

La prima si presenta a Lemno, la terra dei Sinti, dove le donne avevano ucciso i propri mariti perché questi si erano innamorati di schiave della Tracia. Nell’isola popolata di sole donne, eccetto il vecchio padre che la regina Issipile aveva risparmiato, esse svolgevano tutte le attività maschili (belliche, agricole e pastorali). 

Le abitanti di Lemno sono angosciate dall’arrivo di Argo, poiché temono che i loro crimini siano scoperti e puniti; perciò si riuniscono in assemblea per decidere insieme una strategia. Issipile consiglia di accogliere con benevolenza gli stranieri, mentre la vecchia nutrice Polisso suggerisce di invitare gli uomini a restare sull’isola per ripopolarla e scongiurare così l’indebolimento fisico e la vecchiaia. Le donne, convinte, si preparano all’accoglienza.

L’incontro tra Giasone e Issipile avviene per il tramite di Ifinoe ed è introdotto da Apollonio con la descrizione del manto, dono di Atena, indossato da Giasone. Il manto crea una sorta di ponte tra il maschile e il femminile, quasi a simboleggiare l’infinita dialettica che intercorre tra questi due poli opposti.

Issipile racconta a Giasone delle disavventure di Lemno, poi gli offre il trono dell’isola, dove lui e i suoi compagni potrebbero vivere con tutti gli onori. Così risponde Giasone:

 

Regina Issipile, al nostro cuore è gradito

l’aiuto che tu ci offri, e tanto ne abbiamo bisogno.

Tornerò in città, quando avrò riferito ai miei compagni

tutto, punto per punto. Ma l’isola e il trono

saranno tua cura: non è per disprezzo che io li rifiuto,

ma incombono su di me imprese angosciose [12].

 

Giasone non può accettare, poiché è chiamato a compiere “imprese angosciose”: l’espressione allude alle prove iniziatiche che potranno comportare la morte ma che, se superate, diventeranno preludio di una nuova vita.

Giasone, quindi, rifiuta il trono ma torna nella città con i compagni, eccetto Eracle e pochi altri, e ripopola l’isola fecondando le donne. Il conflitto dialettico tra il maschile e il femminile è in questo modo superato, i bisogni della collettività di Lemno vengono esauditi e Giasone può ripartire alla ricerca del vello d’oro.

Il viaggio prosegue fino all’isola degli Orsi, abitata dai violenti Figli della Terra e dai Dolioni, governati dal re Cizico. Gli Eroi sono ben accolti dal sovrano, ma Eracle, trovandosi con i compagni più giovani nella parte dell’isola dove vivevano i Figli della Terra, mette alla prova la sua forza e li uccide tutti.

Nel corso della notte gli Eroi lasciano l’isola, ma il mare li riconduce a terra senza che essi se ne accorgano. La successiva sanguinosa lotta con i Dolioni porta il re Cizico alla morte. Solo all’alba gli Argonauti tornano a guardarsi in volto e si accorgono della sciagura.

 

All’alba gli uni e gli altri riconobbero il loro errore

funesto, irreparabile, ed un’angoscia tremenda

prese gli eroi nel vedere Cizico, figlio di Eneo,

davanti a loro riverso nel sangue e nella polvere [13].

 

Il mare agitato e il forte vento impediscono ad Argo di ripartire, segno che gli Dèi vogliono punire l’azione distruttiva di Eracle.

E’ Mopso a riportare il vaticinio: Cibele deve essere placata perché la nave possa riprendere il viaggio. Così gli Eroi costruiscono un altare in pietra, compiono sacrifici e Orfeo guida le danze che coprono i lamenti della terra dei Dolioni.

Cibele ascolta gli Eroi, mostrando prodigi meravigliosi: alberi che danno frutti abbondanti, terre in cui l’erba germoglia rigogliosa, belve ammansite, una fonte che sgorga da un arido terreno. Sembra che la dea rivendichi a sé il dominio spregiudicato sulla natura: è in suo potere rendere il mare impetuoso, trasformare un animale selvaggio in una docile creatura, mentre la forza fisica e l’impulsività irrazionale di Eracle possono portare solo a dolorose sciagure.

Per intervento di Cibele la tempesta si arresta e Argo può riprendere il viaggio.

Gli Eroi giungono allora in Cianide, terra in cui alcuni di loro si tratterranno a lungo: Eracle, Ila e Polifemo, infatti, vengono “dimenticati” da Giasone, che riparte senza attenderli. La ragione per cui termina il viaggio di Eracle è chiara: egli non è più utile alla ricerca del vello d’oro, la pura forza fisica deve essere abbandonata affinché si possa proseguire.

Telamone accusa Giasone di aver intenzionalmente lasciato Eracle e i compagni per ottenere tutta la gloria dell’impresa, ma la sua ira è placata dalla voce di Glauco che esce dal mare:

 

Perché contro il volere di Zeus volete condurre

il forte Eracle alla terra di Eeta?

E’ suo destino portare a termine in Argo,

per il profitto del superbo Euristeo,

tutte le dodici imprese, e poi abitare con gli immortali,

quando avrà compiuto poche altre cose. No, non abbiate rimpianto.

E Polifemo è destinato a fondare alle foci del Cio,

nella Misia, un’illustre città, e a terminare

i suoi giorni nell’immenso paese dei Calibi.

Di Ila si è innamorata una ninfa, e l’ha fatto suo sposo.

Per lui gli altri errarono e furono abbandonati [14].

 

Telamone si scusa: l’oblio di Giasone è forse segno che l’Eroe, in qualche modo, è in contatto con il volere divino.

Il racconto del viaggio prosegue nel secondo libro de Le Argonautiche.

Gli Eroi arrivano nella terra dei Bebrici, governati dal re Amico. Il sovrano era il più arrogante degli uomini e perfino per i suoi ospiti aveva stabilito una legge indegna: nessuno poteva andarsene prima d'essere messo alla prova nel pugilato contro di lui. Amico sfida alla lotta anche gli Argonauti e Polluce accetta di essere l’avversario. “Grazie all’intelligenza [15], l’Eroe riesce a schivare i colpi, poiché capisce

 

qual era l’arte selvaggia di Amico,

dov’era invincibile e dove esposto alla sconfitta:

allora si fermò risoluto, e prese a ribattere colpo su colpo [16].

 

Così il re è battuto e, dopo che gli Eroi tutti passano al combattimento, sono sconfitti insieme a lui anche i suoi sudditi.

In questo passaggio torna la dialettica tra la forza fisica e la diplomazia: ricompare la pura forza fisica, cui gli Eroi antepongono la forza fisica intelligente, resa possibile dal pugilato: lo studio dei colpi del nemico porta al compimento del volere di Zeus [17].

Gli Argonauti arrivano quindi nella terra di Tinia, dove incontrano l’indovino Fineo.

Per aver male utilizzato l’arte profetica, avendo detto troppo durante un vaticinio, Fineo era stato punito dagli Dèi e condannato a una vecchiaia lunghissima, alla cecità e all’impossibilità a cibarsi. Egli chiede agli Eroi di aiutarlo a interrompere la pena che più gli risulta insopportabile: non potersi nutrire. Fineo conosce ancora l’arte profetica: afferma che saranno i due figli di Borea a salvarlo e che la loro impresa rispetterà il volere divino. Gli uomini, mossi da pietà, accettano il compito e, grazie alla forza infaticabile donata loro da Zeus, riescono ad allontanare le Arpie che continuamente strappavano il cibo dalla bocca di Fineo; Iride è costretta a intervenire affinché gli Eroi non facciano a pezzi le Arpie, inviolabili cani di Zeus. E’ dunque la pietas suscitata dalla vicenda dell’indovino a sciogliere la condanna imposta dagli Dèi.

Fineo, grato agli Eroi, lascia loro preziose indicazioni per continuare il viaggio: quando si troveranno di fronte alle rupi Simplegadi, dovranno liberare una colomba e solo se essa ritornerà potranno proseguire.

 

Ma se invece, volando in mezzo alle rocce, l’uccello perisce,

tornate indietro: sarà molto meglio cedere

agli immortali: non sfuggirete alla morte,

tra queste rocce, neanche se Argo fosse fatta di ferro [18].

 

L’incontro tra l’indovino e gli Eroi pare esprimere la dialettica tra il volere divino e la stoltezza degli uomini: la sintesi, insegna Fineo, consiste nella capacità d’interpretare la volontà degli Dèi. Fineo, dunque, conferisce all’iniziazione degli Eroi un carattere religioso, insegnando a leggere i segni del volere divino. Prima di congedarsi, egli si sofferma a descrivere agli Argonauti le terre che toccheranno, ma Giasone vuole sapere se potrà ritornare in Grecia.

Allora Fineo dà l’ultimo responso:

 

Figlio mio appena sarai sfuggito alle terribili rupi,

abbi fiducia: un dio guiderà il tuo viaggio

per altra strada al ritorno da Eea, e verso Eea avrai guide abbastanza.

Cercate però, amici miei, l’inganno di Cipride,

che vi venga in aiuto: in lei sta la gloria delle vostre fatiche.

Ed ora a me non chiedete nulla più oltre [19].

 

L’indovino prosegue portando l’esempio del figlio di un uomo che pagava con terribili pene l’errore paterno di non aver prestato ascolto alle richieste di una ninfa; solo grazie ai sacrifici agli Dèi, che Fineo gli suggerì di compiere, il figlio riuscì ad assolvere la colpa del padre.

Dopo aver costruito un altare per le dodici divinità, gli Eroi ripartono e, seguendo il consiglio di Fineo, portano con sé una colomba. Arrivati alle rupi Simplegadi, lasciano che l’uccello voli per primo: la colomba attraversa illesa il terribile passaggio; Argo, sebbene veloce e coraggiosa, ha bisogno dell’aiuto di Atena per oltrepassare la strettoia. Mentre il timoniere Tifi si esalta per la prova superata da Argo, Giasone è in uno stato di angoscia che lo fa pentire di aver accettato di compiere il viaggio alla ricerca del vello d’oro.

 

E facilmente tu parli,

perché devi darti pensiero solo della tua vita;

io nemmeno un momento temo per me, ma per l’uno

o l’altro di voi, per te e per gli altri compagni,

se non riuscirò a portarvi incolumi in Grecia [20].

 

Di fronte a tanto sconforto, i compagni lo incoraggiano e Giasone apre loro il suo cuore. Gli Eroi tornano poi a remare e arrivano all’isola Tiniade, consacrata alla visione del dio Apollo.

 

Quando non c’è ancora la luce divina, ma non è più tutto scuro

E un lieve chiarore percorre la notte

(gli uomini appena svegli lo chiamano crepuscolo),

allora, sfatti dalla fatica, entrarono al porto

dell’isola Tiniade, deserta, e sbarcarono a terra [21].

 

L’episodio di solidarietà maschile di fronte all’angoscia di Giasone, cui egli risponde confidandosi con i compagni, porta conciliazione tra gli Eroi: il suo frutto è la concordia.

In seguito gli Argonauti raggiungono la terra governata dal re Lico, il quale onora gli Eroi per aver liberato il suo regno dall’oppressione di Amico e chiede che il figlio Dascilo possa accompagnarli nel resto del viaggio.

In questa terra, così come da lui previsto all’inizio dell’impresa, l’indovino Idmone perde la vita per il morso di un serpente; poco dopo è anche Tifi, il timoniere, a morire ucciso da un morbo. Il corso degli eventi è quindi segnato da un momento di luce divina, di cui Apollo è simbolo, e da uno appena successivo di buio mortale, rappresentato dalla fine del viaggio di Idmone e Tifi.

Giasone è di nuovo in preda all’angoscia e sono i compagni a riprendere la guida di Argo perché essa giunga alla meta.

La mitica nave arriva alla foce del fiume Callicoro, dove aveva dimorato Dioniso.

Lo scenario introduce l’incontro degli Eroi con Stenalo, morto combattendo contro le Amazzoni, cui Persefone concede di vedere i compagni: tanto divina è stata la luce emanata da Apollo, quanto ora si mostra sacro il buio da cui emerge Stenalo.

Mopso, il profeta, ottiene che siano celebrati sacrifici sul sepolcro dell’Eroe morto, riconciliando i compagni con il dolore per la mortalità del corpo.

Gli Argonauti non attraccano alle terre delle Amazzoni, ma proseguono incontrando il paese dei Calibi, dove gli uomini estraggono e commerciano il ferro; arrivano poi alla terra dei Tibareni, dove il ruolo maschile e quello femminile sono invertiti; infine raggiungono i Mossenici, dove ciò che si fa in pubblico diventa privato, e viceversa.

Gli Eroi non hanno contatto diretto con questi popoli, anche se lo sguardo si sofferma sui loro usi, così diversi da quelli greci; essi sono molto lontani dalla loro terra, così lontani che usi rovesciati anticipano altri rovesciamenti.

Giunti presso l’isola di Ares, gli Argonauti che riescono a scampare con l’astuzia alle penne mortali degli uccelli del luogo: mentre alcuni proteggono il capo dei compagni con gli scudi, altri continuano a remare, e, ricordando un’impresa di Eracle, allontanano gli uccelli facendo un grande rumore. Sull’isola essi incontrano i figli di Frisso, impegnati nel loro stesso viaggio per recuperare il vello d’oro, eredità paterna. Questi si uniscono agli Eroi e proseguono insieme il cammino.

Il terzo libro de Le Argonautiche si apre con un dialogo tra Atena ed Era: le dee si chiedono come aiutare Giasone a portare a termine il suo compito.

Era pensa di utilizzare le frecce di Eros per far sì che Medea, figlia di Eeta, s’innamori di Giasone e perciò aiuti gli Eroi a conquistare il vello d’oro.

Così risponde Atena risponde:

 

Era, mio padre mi ha generata ignara dei d’ardi d’amore,

non conosco il bisogno, l’incanto del desiderio.

Se a te piace questo disegno, ti verrò dietro,

ma sarai tu a parlare, quando andremo da lei [22].

 

Le due Dee decidono quindi di far intervenire Afrodite, alla quale chiedono di persuadere il figlio Eros a far in modo che Medea s’innamori di Giasone.

Da questo momento gli Dèi intervengono sempre più direttamente perché si compia l’impresa: la dialettica tra desiderio personale e bisogni collettivi inizia nell’Olimpo, per giungere fino al cuore degli uomini.

Intanto Giasone riunisce i compagni in assemblea per spiegar loro il suo piano:

 

Non usiamo la forza per togliergli

il suo possesso, prima d’aver provato con la parola;

meglio andare da lui e compiacerlo con un discorso.

Spesso il discorso ottiene, senza fatica, addolcendo gli animi,

come si conviene e secondo il bisogno, ciò che a fatica

potrebbe giungere a conquistare il coraggio.

Eeta ha pure accolto presso di sé l’incolpevole Frisso,

che fuggiva dalla matrigna, dal sacrificio del padre,

poiché dappertutto e tutti, anche l’uomo più cane,

rispettano e osservano la legge di Zeus protettore degli ospiti [23].

 

Dopo il lungo viaggio in mare Giasone è cresciuto, ha intrapreso un cammino evolutivo e non intende passare alla guerra: gli snodi dialettici precedenti hanno condotto l’Eroe alla scelta consapevole della parola.

Gli Argonauti giungono infine al regno di Eeta e alla casa dove i figli di Frisso ritrovano la madre che avevano lasciato tanto tempo prima.

Mentre gli Eroi vanno incontro al loro destino, Eros si fa piccolo ai piedi di Giasone e colpisce Medea con una delle sue frecce infallibili, che non danno scampo.

Argo, uno dei figli di Frisso, incontra il re e gli spiega il motivo del viaggio degli Argonauti e la loro genealogia divina. Eeta risponde irato:

 

Andatevene via lontano, subito, via dai miei occhi,

fuori da questa terra, canaglie, voi e i vostri inganni,

prima che a qualcuno di voi costi caro Frisso e il vello.

Tutti d’accordo, non per il vello siete venuti qui dalla Grecia,

ma tramando di togliermi lo scettro e l’onore regale [24].

 

Eeta non è disposto a credere alle parole, teme di perdere il regno ed è pronto ad uccidere perché ciò non avvenga: rappresenta il padre che non sa accettare il futuro, l’autonomia del figlio, l’evolversi dello spirito.

In seguito il sovrano finge di dare una possibilità agli Argonauti, purché Giasone si sottoponga a una prova che non può essere superata: aggiogare i buoi e portare a termine la mietitura mentre il sole è al tramonto.

La risposta di Giasone rivela la determinazione a seguire il proprio destino, qualunque esso sia:

 

Eeta è nel tuo pieno diritto impormi questa durissima prova,

ed io l’affronterò, per quanto terribile,

anche se il mio destino sarà di morirvi. Per gli uomini

nulla è più duro della necessità spietata,

che mi conduce qui per comando di Pelia [25].

 

La prova comporta il rischio della vita ma Giasone è rassegnato, poiché rifiutare la necessità del viaggio, cioè riprendersi il trono che ora è di Pelia, lo condurrebbe ad una fine ben più atroce: la morte peggiore deriva dalla rinuncia al proprio destino.

Medea, intanto, soffre per le parole che ha appena sentito e s’interroga sui propri sentimenti:

 

Perché il dolore mi prende, infelice? Vada alla malora

costui che sta per morire, grande eroe o uomo

dappoco… Oh potesse sfuggire illeso alla morte!

Sì, questo possa avvenire, divina signora

Ecate, e ritorni salvo alla patria; ma se è il suo destino

perire sotto le fiere, prima almeno lo sappia,

che io non mi rallegro della sua morte funesta [26].

 

Combattuta tra amore e odio, la donna pensa di aprire a Giasone il proprio cuore, mentre Argo informa l’Eroe che Medea, in grado di praticare incanti, potrà aiutarlo a superare la prova.

Ora Giasone e Medea sono molto vicini; Medea deve risolvere il conflitto interiore causato da Eros, Giasone accetta con scettica rassegnazione di affidarsi a lei:

 

Ma veramente è una vana speranza

se il nostro ritorno viene affidato alle donne [27].

 

Portatore di un atteggiamento culturale sfavorevole alle donne, ignaro del potere che esse possono custodire nel cuore, Giasone è significativamente condotto dal suo viaggio proprio nei territori oscuri del femminile.

Gli Eroi si riuniscono e Argo illustra il suo piano. Una colomba sfugge all’attacco di uno sparviero e, dal cielo, scende illesa in grembo a Giasone: tutto fa pensare che gli Dèi approvino quanto è stato deciso.

Per aiutare gli Eroi, Medea sa di dover tradire la sua famiglia e questa consapevolezza è per lei fonte di profonda angoscia; ma il viaggio della sacerdotessa è ormai cominciato: è un viaggio iniziatico, come quello di Giasone, un viaggio che comporta la separazione, la morte. Mentre la sorella Calciope, madre dei figli di Frisso, la supplica di aiutare gli Eroi e quindi i suoi figli, Medea si affida a Ecate per salvare gli Argonauti e abbandonare i genitori. Per seguire il proprio destino, le due sorelle tentano di spezzare i vincoli che le legano al padre e insieme studiano il piano che salverà Giasone e i compagni.

In un lungo monologo, la maga Medea prevede di aiutare Giasone e di porre poi fine alla propria vita, prevede che anche dopo la morte voci maligne infameranno il suo nome, il nome di

 

colei che amò un uomo straniero, fino a morirne,

e disonorò la sua casa e i suoi genitori,

cedendo alla lussuria”.

[…] Ma d’improvviso le venne nel cuore

una cupa paura del regno odioso dei morti.

Restò a lungo muta, sgomenta. Davanti a lei

passavano tutte le dolcezze dell’esistenza:

ricordava i piaceri che toccano ai vivi [28].

 

Con le immagini del passato e degli aspetti dolci del vivere, si evidenzia dunque la dialettica tra morte e vita da cui nasce il progetto del viaggio.

Ora tutto è pronto per l’incontro tra Medea e Giasone, entrambi a metà del viaggio: lungo e per mare quello di Giasone, breve e nei meandri della psiche quello di Medea.

Giasone è bellissimo e con la parola dona sollievo al cuore agitato di Medea. Egli rappresenta l’animus di lei.

 

Così ne tesseva le lodi, ed ella, abbassando gli occhi,

ebbe un sorriso divino, e le balzò il cuore nel petto;

si sentì come levare in alto e lo guardò dritto negli occhi [29].

 

Medea dà a Giasone indicazioni per superare la prova e gli ricorda di non voltarsi indietro dopo aver offerto sacrifici alla dea Ecate: l’Eroe si ungerà del filtro da lei preparato, aggiogherà i buoi e quando i denti del drago prenderanno forma di uomini armati getterà una pietra ed essi si uccideranno a vicenda. Infine combatterà e conquisterà il vello d’oro.

Giasone e Medea dialogano a lungo, accomunati da un sentimento d’amore: per lui l’amore è motore per il soddisfacimento dei bisogni collettivi, per lei è soddisfazione di un desiderio personale.

Giasone compie quindi la prova davanti agli occhi stupiti di Eeta, che abbandona il campo pensando a un altro modo per colpire gli Eroi.

In preda alla paura, spinta dal bisogno irrefrenabile di unirsi a Giasone, Medea fugge dalla casa dei genitori, consapevole di spezzare ogni legame con la terra dei padri, di andare incontro al suo destino in terre lontanissime. La luna segue la sua fuga e così sospira:

 

Non io soltanto ricerco l’antro di Latmo,

non io soltanto brucio per il bell’Endimione,

io che spesso mi sono mossa per i tuoi astuti incantesimi

nel pensiero d’amore, perché tu celebrassi i tuoi riti

tranquilla nella notte oscura, come a te piace.

Ora anche tu hai parte di questa stessa sventura:

il dio del dolore ti ha dato Giasone come tua pena

ed angoscia. Va’ dunque, e preparati a sopportare,

per quanto sapiente tu sia, dolori infiniti [30].

 

Fugge Medea, fugge da Eeta per cercare Giasone e quando lo ritrova gli promette di condurlo nel bosco sacro, dove è custodito il vello d’oro, purché lui la porti con sé in Grecia, lontano dal padre. L’Eroe accetta e, solo grazie ai filtri magici che Medea cosparge sul corpo del serpente per addormentarlo, riesce ad appropriarsi del vello custodito dal mostro.

Quando i due ritornano sulla nave, Giasone racconta ai compagni che l’aiuto di Medea è stato indispensabile per la conquista del vello: perciò, essi dovranno proteggere la fanciulla che diverrà sua sposa al ritorno in Grecia.

 

 

 

4.                Fase dell’annullamento della separazione (negazione della negazione)

 

Giasone inizia il viaggio di ritorno verso casa, verso la terra di Pelia.

Ciò che per partire era stata negato (la Grecia e il regno di Pelia) ora -con la doppia negazione- viene affermato.

Sia il regno di Eeta che quello Pelia si fondano sulla paura dei sudditi e sulla superbia dei re. E non è un caso che Giasone incontri Eeta, quasi un alter ego di Pelia, proprio a metà del viaggio: se nel caso di Pelia egli aveva accettato il viaggio verso la morte accompagnato dagli Eroi, e quindi confidando nella forza maschile per raggiungere la meta, nell’incontro con Eeta accetterà con la stessa rassegnazione la prova, ma si avvarrà di un aiuto femminile. Dunque la seconda negazione, il viaggio di ritorno in Grecia, non avrà come protagonista Argo, la mitica nave, ma Medea, la mitica maga.

Gli Eroi sono inseguiti da Eeta, che tutto farebbe pur di riavere la figlia.

Nella terra dei Nesti, per non perdere il possesso del vello d’oro, gli Argonauti propongono di abbandonare Medea presso la figlia di Leto, dove un re avrebbe deciso la sua sorte. Alla notizia, la rabbia di Medea esplode: la sacerdotessa ricorda a Giasone che solo per merito suo il vello d’oro potrà tornare in Grecia e minaccia di vendicarsi se il patto stretto con lei non sarà rispettato. L’Eroe rassicura Medea: l’odioso accordo è un inganno, stipulato per prendere tempo. Anche in questo passo del testo emerge la dialettica tra le ragioni della collettività e le ragioni dell’individuo.

Nel viaggio di ritorno, Giasone pare far sua non solo l’idea del male, ma anche l’azione malvagia:

 

Tutti quelli che vivono in questa terra

sono pronti ad aiutare Assirto a riportarti

a tuo padre, a casa, come tu fossi una preda rapita.

Se combattiamo, avremo una fine luttuosa,

e sarà ancora un dolore più grande, morendo,

lasciarti in mano loro. Però questo patto

compie un inganno col quale noi lo trarremo in rovina.

Le genti vicine non ci saranno più ostili

Per fare sul tuo conto cosa gradita ai Colchi, quando

non ci sarà più il tuo fratello e tutore [31].

 

Medea tradisce il fratello facendogli credere di volerlo vedere con buone intenzioni e, mentre sono l’uno accanto all’altra, Giasone uccide Assirto.

E’ la prima azione violenta e spregiudicata di Giasone. Uccidendo proprio colui che si era riavvicinato alla sorella con dolci parole (e prese a saggiarla con le parole [32]), egli “uccide” anche la parola, lo strumento che durante il viaggio aveva caratterizzato la sua relazione con il mondo. Vi è quindi una doppia negazione: l’iniziale negazione della violenza e la successiva negazione della parola che riafferma la violenza.

Contrariamente a quanto si era pensato, tutti i Colchi sono ora alla ricerca di Argo ed è Era che li trattiene scatenando un terribile temporale. Zeus, furioso per la morte di Assirto, decide che gli Eroi potranno far rientro in Grecia solo dopo aver espiato il loro crimine presso la maga Circe.

Ad ogni prova, il viaggio di ritorno degli Argonauti è segnato dal volere divino e ogni momento del ritorno è segnato da episodi soprannaturali.

Quando Argo approda all’isola di Elettride, un legno della nave prende la parola e comunica la decisione di Zeus. Gli Eroi raggiungono allora il porto di Eea, dove Circe, accompagnata da esseri mostruosi, è impegnata a purificare la sua mente dai sogni notturni.

Giasone e Medea, soli, incontrano la maga, che nel rispetto della legge di Zeus soccorre gli assassini supplichevoli. Circe compie il rito di purificazione; poi, riconoscendo dagli occhi di Medea la sua discendenza dal Sole, chiede alla donna di parlarle delle terre da cui entrambe ebbero origine. Medea racconta la storia del viaggio, tacendo l’amore per Giasone e l’uccisione di Assirto, ma Circe conosce la verità e condanna Medea per la fuga dalla casa paterna.

Quando gli Eroi ripartono, Era dispone che il mare e il vento si plachino, affinché la nave giunga velocemente all’isola dei Feaci; inoltre, la Dea chiede a Teti di aiutare gli Argonauti in nome del legame che in futuro la unirà a Medea.

Mettendo da parte il rancore verso il marito Peleo, il quale aveva impedito che il figlio Achille divenisse immortale, Teti dovrà quindi condurre la nave fino alla terra dei Feaci; invisibile agli altri Eroi, Teti compare dunque a Peleo e gli dà indicazioni sulla partenza di Argo e sulla protezione di cui godrà l’equipaggio.

Argo parte sul far dell’aurora e, favorita da Zefiro, giunge fino all’isola Antemoessa dove le sirene incantano e uccidono i naviganti. Orfeo suona divinamente la cetra, e così impedisce ai compagni di abbandonarsi al canto ammaliante delle sirene. Solo Bute, uno degli Eroi, si butta in mare rapito da quel canto, ma Afrodite lo salva e gli assegna come dimora il promontorio del Libeo.

In seguito, Teti prende la guida della nave e, aiutata dalle Nereidi, riesce a condurre Argo fuori dai gorghi di Scilla e di Cariddi.

Gli Eroi riescono così a raggiungere la costa della Trinacria, dove il re Alcinoo li accoglie amichevolmente, ma i Colchi non tardano ad arrivare per riprendersi Medea che, spaventata, supplica la regina Arete di non consegnarla nelle mani del padre:

 

Regina, ti supplico: abbi pietà di me; non mi consegnare

ai Colchi che mi riportino da mio padre, se tu pure appartieni

alla stirpe degli uomini, che hanno una mente

che corre veloce alla rovina per leggerezza

ed errore. Anch’io per questo sono caduta,

non per lussuria [33].

 

Poi, disperata, si rivolge agli Argonauti: ricorda il suo ruolo indispensabile al compimento dell’impresa e, per questo, rivendica il diritto essere protetta. Arete, commossa dalle parole di Medea, convince il marito Alcinoo a non consegnarla ai Colchi.

La dialettica tra amore casto e amore carnale si evolve: in precedenza, Medea aveva temuto che voci maligne l’avrebbero condannata per lussuria; ora la questione si capovolge e Alcinoo promette di lasciare libera Medea purché la donna giaccia nel letto di Giasone. Sarà dunque il matrimonio, suggellato dall’amore fisico, che porterà Medea alla salvezza e permetterà a Giasone di condurre a termine il viaggio.

 

 

 

  1. Stato integrato (riconciliazione)

 

Arete comunica a Medea la decisione del marito; alla notizia, gli Eroi festeggiano e preparano il letto nuziale coperto dal vello d’oro nell’antro divino dove un tempo viveva Macride. Medea e Giasone si uniscono in matrimonio, Alcinoo mantiene fede al patto e i Colchi, costretti a rispettare le leggi, devono rinunciare al progetto di riportare Medea dal padre; Argo può così ripartire colma di doni, tra cui dodici ancelle offerte da Arete a Medea.

L’incontro con Alcinoo e Arete pare rappresentare la conciliazione tra il maschile e il femminile, conciliazione volta alla salvaguardia dei bisogni della collettività. Anche il matrimonio di Giasone e Medea è un’unione che “salva” il viaggio e il suo scopo: riportare il vello d’oro in Grecia. Il vello, inoltre, accoglie l’amplesso fisico, simbolo del legame tra gli sposi, che a loro volta rappresentano l’incontro tra due terre lontane, dai costumi diversissimi. L’unione degli opposti si esprime anche nella personalità di Medea e Giasone, così come viene tratteggiata nell’opera di Apollonio: un femminile attivo e potente incontra un maschile passivo e impotente.

Manca ancora un tratto di viaggio per il ritorno di Argo in Grecia.

Giunto nelle terre di Libia, il pilota Alceo, disperato, annuncia ai compagni l’impossibilità di proseguire: la bassa marea non permette di navigare. Gli uomini, presi dallo sconforto, si rassegnano alla morte. Saranno ancora gli Dèi a salvare Argo: le eroine di Libia, mandate da Atena, compaiono a Giasone suggerendogli in modo enigmatico la soluzione per la salvezza:

 

quando Anifrite avrà sciolto

il rapido carro di Posidone, allora pagate

il vostro debito verso la madre per le pene sofferte

portandovi tanto tempo nel ventre, e in questo modo

potrete ancora tornare alla sacra Grecia [34].

 

L’enigma è risolto da Peleo quando un cavallo dalla criniera dorata s’innalza dal mare verso la terra; egli, interpretando il prodigio, sollecita i compagni a caricarsi sulle spalle la nave, che è stata per loro come una madre. Così, gli Eroi trasportano Argo per dodici giorni e dodici notti fino al lago Tritonide.

 

Ma le pene e le angosce che patirono fino al colmo,

nella loro fatica, chi mai potrà raccontarle?

Veramente erano di sangue immortale, tanto grande fu il compito

che la violenta necessità li costrinse ad assumersi [35].

 

Per portare a termine il viaggio è richiesta gratitudine e, ancora, sofferenza: gli Eroi si prendono amorevolmente cura della nave che li ha ospitati, guidati e protetti nel corso della loro difficile impresa e affrontano la fatica terribile di sostenerla e di trasportarla. Costruita da Atena e avendo anch’essa origini divine, Argo simboleggia la grande Madre; all’interno di questa archetipica immagine si snodano le vicissitudini dei figli che, una volta nutriti di amore universale, possono tornare ad assumersi la responsabilità verso gli oggetti genitoriali. Ora che Argo è debole, incapace di muoversi sulla terraferma, sono le gambe e le braccia degli Eroi a sostenere la nave per un lungo e faticoso cammino. La Grande Madre, simboleggiata da Argo, ha quindi assunto innumerevoli sfaccettature di significato e diviene fonte d’ispirazione infinita.

Dopo tante fatiche, gli Eroi bramano una fonte per dissetarsi e Orfeo chiede aiuto alle Esperidi. Queste subiscono diverse metamorfosi, per poi tornare alla loro forma originaria. E’ Egle, una delle Ninfe, a parlare:

 

Un grandissimo aiuto nelle vostre pene

vi ha dato quel cane che venne ad uccidere

il serpente custode, e portò via le mele d’oro,

lasciandoci acerbo dolore. Sì, è venuto da noi

un uomo d’orrendo aspetto e violenza; brillavano

gli occhi sotto la fronte spietata, terribile...  [36].

 

Il cane di cui parla la Ninfa è Eracle e il racconto continua con la descrizione di come l’Eroe, battendo il piede sulla terra, vide l’acqua sgorgare dalla roccia.

Torna dunque la figura di Eracle, cui sono associati tratti di brutalità che contrastano con la dolcezza femminile delle tre Ninfe. Da glorioso e possente Eroe dalla forza fisica, Eracle diventa una figura negativa: l’aspetto è orrendo e la fronte terribile. Eracle è abbandonato dagli Argonauti all’inizio del viaggio ma la sua immagine, ciò che lui rappresenta, è sempre presente nel poema, a misurare la distanza psichica che intercorre tra la visione dell’Eroe dalla forza invincibile e la visione dell’Eroe non immune dalle umane debolezze. 

Qualcuno tra i compagni di Giasone, come ipnotizzato dall’immagine mitica di Eracle, parte alla sua ricerca, ma Eracle appare e si dissolve di continuo, come un miraggio. Canto perderà la vita in questa impresa. Anche un altro Eroe, l’indovino Mopso, morso da un serpente, morirà nelle terre di Libia.

Dopo il commiato dal compagno perduto, gli Eroi ripartono ma non sanno come oltrepassare il lago Tritonide. Sarà Tritone ad indicare la via. Per ottenere la protezione del dio, Giasone sacrifica la pecora più grande e Tritone, dopo aver mostrato il suo vero aspetto, guida la nave verso il passaggio.

Gli Dèi sono propizi agli Eroi e gli Eroi sono ormai in grado di leggere i loro segni e di ricorrere ai sacrifici per comunicare con l’Olimpo.

Giunta in prossimità di Creta, Argo incontra Talos, l’uomo di bronzo che scaglia pietre sulla nave per impedirne l’approdo, ma Medea, con le sue arti magiche, riesce a neutralizzarlo.

Gli Eroi trascorrono la notte a Creta, ma l’indomani, quando ripartono, il cielo senza luce si confonde con il mare e fa loro perdere la direzione del ritorno. Giasone, piangendo, invoca l’aiuto di Apollo che illumina un’isola con il suo arco. L’isola, col nome di Anafe, è poi consacrata dagli Eroi al dio, che loro chiamano Eglete.

Dopo i dovuti sacrifici, tra le ancelle di Medea e gli Argonauti nasce uno scherzoso litigio, la tensione è placata, gli opposti sono conciliati; Medea ha mostrato la sua capacità di agire ed ora il suo potere è riconosciuto e rispettato, con riflessi positivi sui rapporti sociali tra gli Eroi e le ancelle.

Il poema termina con un vaticinio di Giasone a Eufemo: a dimostrazione che il viaggio è stato portato a termine, Giasone si trova in una posizione di perfetta armonia con il dio Apollo, dal quale ha appreso l’interpretazione dei sogni e dei segni del volere divino.

 

 

 


 

[1] De Andrè, Canzone del padre (1973), in Come un’anomalia, pag.147

[2] Kerènyi, Gli dei e gli eroi della Grecia, pag.235-237

[3] Rossi, Psicodialettica

[4] Apollonio Rodio, Le Argonautiche, pagg.89-91

[5] Eliade, Miti, sogni, misteri, pag.65

[6] Apollonio Rodio, op.cit., pag.103

[7] Apollonio Rodio, op.cit., pag.123

[8] Apollonio Rodio, op.cit., pag.125

[9] Apollonio Rodio, op.cit., pag.131

[10] Apollonio Rodio, op.cit., pag.141

[11] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.147-149

[12] Apollonio Rodio, op.cit., pag.189

[13]Apollonio Rodio, op.cit., pag.213

[14] Apollonio Rodio, op.cit., pag.243

[15] Apollonio Rodio, op.cit., pag.257

[16] Apollonio Rodio, op.cit., pag.257

[17] Apollonio Rodio, op.cit., pag.265

[18] Apollonio Rodio, op.cit., pag.285

[19] Apollonio Rodio, op.cit., pag.295

[20] Apollonio Rodio, op.cit., pag.319

[21] Apollonio Rodio, op.cit., pag.323

[22] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.389-391

[23] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.405-407

[24] Apollonio Rodio, op.cit., pag.427

[25] Apollonio Rodio, op.cit., pag.435

[26] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.437-441

[27] Apollonio Rodio, op.cit., pag.441

[28] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.477-479

[29] Apollonio Rodio, op.cit., pag.499

[30] Apollonio Rodio, op.cit., pag.545

[31] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.585-587

[32] Apollonio Rodio, op.cit., pag.593

[33] Apollonio Rodio, op.cit., pag.649

[34] Apollonio Rodio, op.cit., pag.679

[35] Apollonio Rodio, op.cit., pagg.685-687

[36] Apollonio Rodio, op.cit., pag.691

 

 

 

Bibliografia

De Andrè, F., Canzone del padre (1973), in Come un’anomalia, Einaudi, Torino, 1999

Kerènyi, K., Gli dei e gli eroi della Grecia, trad. V. Tedeschi,Il Saggiatore, Milano, 2009

Rossi, L., Psicodialettica, Quattroventi, Urbino 1999

Rossi, L., Negazioni, Quattroventi,1992, Urbino

Apollonio Rodio, Le Argonautiche, trad. G. Paduano, BUR, Milano, 2007

Eliade, M., Miti, sogni, misteri, trad. G.Cantoni, Lindau, Torino, 2007

 


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