TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

 

Fondatore e caposcuola:   Prof. Luciano Rossi

Responsabile della terapia:   Dott.ssa Lisa Marchetta


  

I concetti del processo d'individuazione



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I concetti del processo d'individuazione

di Luciano e Roberta Rossi

 

 

Quali sono per Jung i significati che dobbiamo attribuire ai concetti ricorrenti nella sua esposizione del processo d'individuazione? Partiamo dall’idea stessa di processo. Dice il Pieri che, in una delle sue accezioni, la seconda per lui, il termine “processo” può essere inteso come [...] il divenire e lo sviluppo. In questo senso si parla di “processo d’individuazione” e di “processo psichico”, ma anche di “processo istintuale”[1]. Come accadde per Jung dal 1913 al 1918, egli immagina che in generale il Processo sia un viaggio, con un inizio e una fine, sia pure provvisoria. Un viaggio che egli iniziò con una separazione, e che si concluse con il ritrovamento del Sé, unica e preziosa individualità. Più largo spazio si deve riservare, certamente, al termine individuazione. Dice, di esso, il Pieri:

Concetto centrale della psicologia analitica con cui s'intende genericamente il divenire della personalità, e in particolare il processo di continua trasformazione di un'individualità che viene psichicamente a costituirsi in riferimento a una sostanza comune o collettiva[2].

Il Pieri riferisce ampiamente come il termine sia, da Jung, tratto dall’ambito filosofico che precedette il suo tempo. In tale contesto culturale il concetto indicava il lento formarsi del singolo, non più divisibile, “a partire da una sostanza comune[3]”, dividua. Esiste dunque una sostanza collettiva “prima e oltre gli individui stessi[4]” da cui un nucleo, un brandello si può staccare ed individuarsi. La domanda che, più che altro, la filosofia si era posta riguardava il processo capace di formare “questa specifica sostanza[5]” da “una sostanza comune[6]” a tutti gli individui. Il problema ricevette molte risposte. Per Avicenna il principio d'individuazione è la materia. Anche san Tommaso dà una risposta simile; per lui il principio è quella materia comune laddove essa è signata e cioè considerata, come egli dice, «sotto determinate dimensioni»: e cioè, un uomo è «questo uomo» in quanto unito a un corpo che lo determina nello spazio e nel tempo[7]. E se una soluzione simile verrà proposta anche da Schopenhauer, per San Bonaventura invece “l'individualità dipende non soltanto dalla materia delle cose ma anche (e soprattutto) dalla loro forma”[8]. Duns Scoto afferma poi che

tra individui della medesima specie intercorrono legami che si esprimono nella loro natura comune composta di materia e forma, e proprio a partire da questi è possibile pervenire alla singolarità[9].

A partire da questi elementi che certamente conosceva, Jung utilizza questo termine proprio per problematizzare l'antico presupposto che la costituzione dell'individualità sia data a partire dagli elementi comuni. Di questi, non accetta una priorità ontologica della sostanza comune e fondamentale, e ne ricerca una soluzione di tipo epistemologico. Comunque, egli considera la natura psichica individuale e quella comune o collettiva in un rapporto di mutua inclusione e di reciproco rinvio, e per designare tutto questo utilizza l'espressione “processo d'individuazione”, inteso come l'articolazione di due sottoprocessi complementari che vengono chiamati differenziazione e integrazione. Il primo sottoprocesso indica, in generale, sia la distinzione di una parte psichica rispetto a un'altra e a un tutto [...], sia lo sviluppo della parte o meglio l'ulteriore differire delle differenze che erano state ottenute nell'atto distintivo stesso. In modo altrettanto generale, il secondo sottoprocesso designa invece la connessione delle parti psichiche tra loro e la loro connessione con un tutto non sintetico (e cioè con un tutto che, per così dire, rammemori o sia consapevole di essere costituito di parti differenti che, in un certo senso, hanno consentito la sua composizione). In particolare, il termine “differenziazione” (Differenzierung) rinvia al fondamentale problema psicologico della costituzione dell'altro da sé e della determinazione qualitativa dell'alterità, e il termine “integrazione” (Integration) rinvia invece a un altro fondamentale problema psicologico, che è quello della relazione tra due elementi che, pur nella loro interazione, rimangono essenzialmente distinti[10].

Si apre in questo modo il tema del rapporto tra il tutto e la parte. Essi paiono includersi e, sempre, rinviare l’un l’altro. Questo è un aspetto importante della problematica junghiana. Inclusione e rinvio. Differenziazione e integrazione. Analisi e sintesi delle due cose in una terza “che, trascendendole, contemporaneamente le accomuna e le integra”. Proseguendo il Pieri precisa che, al di là del carattere sostanziale, convenzionale o empirico di tali complementari determinazioni d'identità e di differenza, l'individuazione, attraverso la differenziazione, viene a rappresentare il passaggio sul piano psichico (e quindi non soltanto su quello intellettuale) alla differenza di una singola parte sia rispetto a un'altra parte che rispetto al tutto. E ciò avviene laddove una parte abbia potuto prendere letteralmente “visione” dell'inconscia identità o confusione in cui si trovava con l'altra parte o con il tutto. Attraverso l'integrazione, l'individuazione viene invece a rappresentare il passaggio alla relazione di una singola parte con l'altra parte e con il tutto, laddove però essa abbia ugualmente potuto prendere visione del suo inconscio isolamento. E quindi la differenziazione individuativa indica un passaggio all'indipendenza e autonomia della parte, laddove si renda possibile il riferimento rappresentativo all'originario stato di indifferenziazione psichica e alla sua conseguente inefficace dipendenza ed eteronomia rispetto all'altro da sé e al tutto. L'integrazione individuativa indica invece un passaggio alla dipendenza ed eteronomia della parte, laddove si renda possibile il riferimento, in questo caso, all'originario stato di opposizione e di conflitto e quindi di inefficace indipendenza e autonomia rispetto all'altro da sé e al tutto[11].

L’individualità dunque va vista in un corretto rapporto con l’altro e col mondo, col collettivo sociale e col collettivo psichico. Non possiamo essere sbrigativi o superficiali a tale proposito. Specialmente quando si agisce sul piano terapeutico. Un’individuazione, che non tenesse conto di tali aspetti collettivi, porterebbe fatalmente all’isolamento, che è cosa ben diversa dall’autonomia. E poiché frequenti sono, nella definizione che precede, i richiami all’individualità, vogliamo ricordare che tale termine, in psicologia analitica, [...] designa la singolare configurazione dei tratti psicologici che contrassegnano un individuo rendendolo, sul piano cognitivo e su quello affettivo, assolutamente distinto e differente da tutti gli altri, e ponendolo contemporaneamente (e in qualsiasi modo) in relazione con essi[12]. A questo riguardo ricordiamo quanto aveva scritto Jung.

Per individualità intendo la natura specifica e particolare dell'individuo sotto tutti gli aspetti psicologici. Individuale è tutto ciò che non è collettivo, dunque ciò che appartiene solo a un singolo e non a un gruppo maggiore di individui. Difficilmente si potrà affermare il carattere individuale degli elementi psichici, ma probabilmente solo del loro raggruppamento e della loro combinazione particolare e specifica[13]. [...] [L'individualità è anche] un'irripetibile combinazione o graduale differenziazione di funzioni e facoltà che in sé e per sé sono universali. Ogni volto umano ha un naso, due occhi ecc., ma questi fattori universali sono variabili, ed è questa variabilità quella che rende possibili le caratteristiche individuali[14]. L’individualità quindi va colta “insieme e non contro (né oltre: né prima né dopo) l'universalità o [la] generalità[15].

Così la psicologia per Jung deve valorizzare entrambi i caratteri, quello personale e quello collettivo. Anche il significato d’individuo richiede un’attenta lettura del termine. Secondo il Pieri, cui faremo costante riferimento in questa introduzione, il termine è usato in tre accezioni differenti, per cui indica: 1) ciò che non può essere ulteriormente distinto in un determinato processo analitico; 2) ciò su cui non si possono fare affermazioni in modo assoluto e definitivo; 3) ciò che è singolare e determinato, in riferimento a una natura o sostanza comune. Nei primi due significati il termine è assunto in una prospettiva statica, nel terzo è invece assunto in una prospettiva fondamentalmente dinamica[16]. Nel suo primo significato, di non-più-divisibile, Jung parla d’individuo “indiviso in se stesso”, ma “diviso da ogni altro essere[17]”. Costituitosi come in-dividuo, l’uomo, non essendo più dividuo, non può ulteriormente dividersi, ma può trasformare la sua individualità in un'altra, se ricorda il processo che lo aveva generato come singola entità. Se vorrà fare questo, l'uomo si troverà nuovamente “diviso in se stesso e simultaneamente unito ad ogni altro essere”. E proprio ritornando allo stato di indistinzione originaria, ossia all'inizio dell'opera analitico-scompositiva in cui appunto la sua precedente individualità aveva cominciato a prodursi, l'uomo potrà ripetere una dolorosa differenziazione da ogni altro da sé, e costituire in sé stesso una nuova unità psicologica individuale[18].

La seconda accezione del termine, quello d’entità inconoscibile, sulla quale cui non si può dire nulla di definitivo, vede schierato anche Jung, che concorda con questa posizione per quel che concerne l'inconoscibilità dell'individuo. Nella terza accezione, “individuo è lo stesso che singolo”. Ma per Jung la singolarità che caratterizza il suo modo di essere rinvierà sempre a un insieme comune o collettivo che è infinito e indeterminato e che, a seconda delle differenti prospettive, può venire all'espressione come un tutto che ha i caratteri del luogo originario o della meta tendenziale. Il processo attraverso il quale l'uomo prende coscienza della sua individualità (e, correlativamente, del tutto di cui partecipa) è detto processo di individuazione: in virtù di esso, la natura psichica collettivamente umana, per così dire, “si coagula” fino al punto di trasformare quel tutto che è l'uomo collettivo nella configurazione di quella parte che è un determinato uomo[19]. Del resto già Leibniz diceva, a questo proposito, che l'individualità involge l'infinito, e solo colui il quale è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio d'individuazione di questa o quella cosa: il che deriva, a comprenderlo sanamente, dall'influenza che tutte le cose dell'universo hanno l'una sull'altra[20]. È questo, in sociologia, il concetto moderno di rete, o, in fisica quantistica, di non-località. Allo stesso modo, integrando i concetti d’interdipendenza a quelli di non divisibilità e indeterminatezza, Jung scrisse quanto segue:

Individuo vuol dire essere singolo. L'individuo psicologico è caratterizzato dalla sua psicologia particolare, e, sotto un certo aspetto, irripetibile. La natura specifica della psiche individuale appare non tanto nei suoi elementi quanto piuttosto nelle sue strutture complesse. L'individuo (psicologico), o l'individualità psicologica, esiste inconsciamente a priori; coscientemente invece [esiste] soltanto nella misura in cui sussiste [...] una consapevole differenza da altri individui. Insieme con l'individualità fisica, e come suo elemento correlativo, è data anche l'individualità psichica, però, come si è detto, dapprima inconsciamente. Per rendere cosciente l'individualità, ossia per trarla fuori dall'identità con l'oggetto (s’intenda il mondo o il collettivo, ndr.), v'è bisogno di un processo cosciente di differenziazione: l'individuazione[21].

La conquista dell’individualità richiede, come abbiamo detto, l’abbandono sia della Persona, supina adesione alla livellante pretesa sociale, sia dell’identificazione con il collettivo. Quanto entrambe siano contrarie ad una corretta individuazione lo si può evincere dalle definizioni stesse dei due termini. La Persona, infatti, è termine latino indicante la maschera che l'attore teatrale, sia comico che tragico, appoggiava al proprio volto nel corso della recitazione. Lo stesso termine latino ricorre nel testo junghiano per designare indifferentemente: a) un aspetto della personalità, e più precisamente il rappresentante più cospicuo della psiche collettiva esterna o mondana che si trova all'interno della personalità stessa; b) una struttura della psiche, e quindi una delle subpersonalità che ruotano intorno all'Io, la cui relazione con l'Io stesso muta continuamente nel corso della vita; c) l'immagine che l'individuo mostra all'esterno, e in quanto tale uno degli aspetti più esteriori dell'individuo stesso; d) il ruolo o lo “status sociale” dell'individuo nelle relazioni con il mondo (culturale e sociale), e quindi l'aspetto che egli assume nelle relazioni con la cultura e con la società; e) l'adattamento dell'individuo a ciò che è collettivo, e cioè l'atteggiamento che l'individuo mostra in risposta agli altri e alle situazioni date, per adattarsi all'ambiente e agire in esso; f) l'individuo definito attraverso i rapporti che intrattiene con gli altri, e quindi l'individuo nella sua, per così dire, “visibilità” agli altri; g) l'insieme degli atteggiamenti convenzionali dell'individuo in quanto appartenente a una tradizione, per cui si evidenzia nei differenti pregiudizi che l'individuo manifesta rispetto agli altri, colti, a loro volta, come appartenenti ad altre tradizioni; h) l'involucro delle modalità espressive, dei sentimenti e dei pensieri di cui l'individuo è rivestito nel rapporto che intrattiene con gli stereotipi giacenti nella (e, insieme, veicolati dalla) psiche collettiva, conscia e inconscia, e cioè la mediazione tra l'irriducibile individualità di ciascun singolo e l'altrettanto irriducibile esigenza di una cultura e della cultura umana in generale, per cui queste, per così dire, necessitano di specifici attori che recitino determinate parti[22].

Emerge da tutto quanto sopra, ma in particolare dalle accezioni a), e), g), h), che il significato del termine sembra proprio essere l’opposto di quello d’individuo. Non si tratta tuttavia, come abbiamo già avuto occasione di dire, di allontanare dal Sé il collettivo, il sociale, il mondano; questi ultimi vanno, al contrario, accolti e integrati dall'attività compositiva del processo d’individuazione. Si tratta solo di evitare che l’uomo resti soltanto un “oggetto pubblico o collettivo”, cui le tante accezioni del termine “Persona” sembrano condannarlo. Le differenti accezioni che del termine sono state elencate in apertura configurano il significato fondamentale di [uomo-Persona] come cosa: e cioè designano l'esistenza dell'individuo (leggi però: uomo non ancora individuato, ndr) come oggetto pubblico o collettivo, e quindi il sussistere di questo nel suo essere impigliato e tratto all'esistenza attraverso relazioni intersoggettive di natura pratica, conoscitiva ecc.

Proprio nel generalissimo significato di aspetto collettivo dell'individuo (leggi ancora: uomo non ancora individuato, ndr) che si dà attraverso la cultura del collettivo, il termine fa riferimento a tre specifiche istanze psicologiche che riguardano l'individuo, e precisamente: a) il compito di manifestarsi; b) il suo non poter non essere in relazione con gli altri e quindi con il mondo e con la società; c) il suo non poter non incontrare il mondo e gli altri come oggetti[23].

Sin dall’infanzia l’uomo è in relazione col mondo. Non può prescindere “dall’interrelazione sociale e culturale”. La società vuole che egli, sin dall’infanzia, si nutra di questo “gioco delle parti” imposto dal collettivo stesso. Da questi giochi primari emerge la natura della Persona come una condizione ormai data per sempre, irrinunciabile. I ruoli istituiti non si debbono abbandonare. Ciò viene imposto dalla famiglia, in particolare dal padre, “emblema delle relazioni con gli altri e con il mondo esterno alla famiglia”. La maschera sociale diventa fissa, addirittura tragica nella sua fissità. Come dice Pieri, una tale nozione indica che l'individuo [l’uomo] è sin da sempre nel collettivo e quindi “già dato” nel mondo. Sicché prendere coscienza della propria Persona è divenire coscienti di ciò che nel mondo “si è già”. La configurazione della condizione umana che la Persona esprime, rinvia alla precostituzione originaria di ciascun individuo, e cioè al fatto che soltanto nel “già collettivamente dato” l'individuo si trova, e che in quel “già dato” è, di volta in volta, radicato l'instaurarsi di una possibile libertà dell'individuo. In questo senso il termine configura lo specifico insieme delle condizioni collettive (valori e forme di vita custoditi e veicolati dalla cultura), che deve essere assunto da ogni particolare Io come limite e condizione di possibilità dell'esercizio della propria azione pubblica o pratica.

A partire da queste considerazioni, e dal paradossale rapporto tra individuo e Persona, non è senza senso ciò che Jung afferma, rispetto a un problema inerente alla Persona stessa: essa è “maschera che simula l'individualità, che fa credere agli altri che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi crede), mentre non si tratta che di una parte rappresentata in teatro nella quale parla la psiche collettiva” (ibid., p. 155). Ovverosia la Persona, in quanto relazione dell'individuo con la coscienza collettiva (e quindi con il mondo e con gli altri), non è relazione con sé stessi, e quindi non va confusa - nella vita pratica e intellettuale (e quindi, psicologicamente e concettualmente) - con la coscienza individuale, con l'Io, con l'anima e con l'inconscio collettivo, seppure, per varie vie, tali differenti istanze psichiche - proprio attraverso l'istanza psichica della Persona - entrino in relazione con il mondo e siano, sui vari piani, oggetti del mondo, condivisibili o contestabili nel mondo stesso[24]. Il solo aspetto limitante di quest’imposizione sociale, e che come tale invoca la liberazione dell’individuo non individuato (se ci può venir consentito il bisticcio dei termini), sta nell’identificazione dell’individuo con la Persona e nella sua mancata distinzione dal collettivo, distinzione che deve sussistere anche nell’integrazione e nell’unità. L’identificazione di cui stiamo parlando va vista come il processo psicologico attraverso il quale la personalità viene parzialmente o totalmente dissimilata da sé stessa: e cioè l'estraniazione del soggetto da sé, a favore di un qualsivoglia oggetto esterno o interno che è già dato come altro (per esempio, persone, cose, funzioni psicologiche già differenziate), e con cui il soggetto stesso, per così dire, “si traveste”.

L'identificazione si distingue dall'imitazione, giacché il suo carattere è inconscio; si distingue dall'identità giacché, per quanto accada inconsciamente, essa viene a compiersi tra un sé e un altro da sé già distinti e separati tra loro[25]. Perché accade che ci s’identifichi con l’altro da sé? Il meccanismo non è del tutto chiaro, ma si può almeno affermare che tale processo sembra mostrare una qualche intenzionalità, seppure inconscia. Si cerca, in un certo senso, di aderire all’altro e di rimuovere gli ostacoli separativi che si frappongono a quest’adesione. L’identificazione sembra assumere, allora, i caratteri d’una regressione ad uno “stadio psichico precedente od originario in cui non sussistono ancora differenze tra la via collettiva e quell’individuale, e quindi tra bambino e genitore”[26]. Delineando i termini di tale processo, Jung afferma che l’imitazione è uno strumento indispensabile per la personalità giovanile ancora in via di sviluppo. Essa agisce favorevolmente fin tanto che non serve come strumento di mera comodità, impedendo così lo sviluppo di un metodo individuale adeguato. Del pari, l'identificazione può essere utile fin tanto che manca ancora la possibilità di percorrere una via individuale. Ma non appena si profila una migliore possibilità in tal senso, l'identificazione manifesta il suo carattere patologico divenendo un impedimento così come prima era stata inconsciamente di sostegno e di utilità. Essa esplica allora un'azione dissociatrice, dividendo la personalità del soggetto in due parti estranee l'una all'altra[27]. Possiamo senz’altro affermare, con Jung, ma non solo con lui, che, dal punto di vista etico, la disidentificazione[28], l’individuazione e la conquista della consapevolezza sono processi doverosi, tendenti non solo ad un compito sociale, ma anche alla salute individuale. Per questo Jung ne fa addirittura il fulcro della propria terapia, in fondo alla quale l’analizzato trova il suo Sé.

Ci piace qui ricordare la bella metafora di M. Yourcenar nella quale, l’epoca è rinascimentale, si narra di un viandante, Zenone, che, fermato da un amico, si scusa di non potersi attardare con lui. Deve percorrere, egli dice, una lunga strada, in fondo alla quale qualcuno lo attende. “Chi ti attende?”, gli chiede l’amico. “Hic Zeno - egli risponde - me stesso”[29]. La meta del processo è dunque inequivocabilmente il Sé. Entità centrale, che viene definita dal Pieri come l’insieme dei fenomeni psichici individuali, consci e inconsci. E aggiunge, il Pieri:

Nella intera letteratura junghiana, moltissimi sono gli usi del termine, ma le definizioni principali che esso, di volta in volta, apre, possono essere così raggruppate e distinte: 1) il Sé come legge morale del singolo; 2) il Sé come stato psichico, per cui si parla di un suo continuo e costante confronto con l'Io; 3) il Sé come stato psichico che si produce all'interno del processo psichico stesso; 4) il Sé come Io oggettivo; 5) il Sé come fattore soggettivo, per cui si parla di percezione intuita del Selbst e del mondo complessivo, e si danno due precise antinomie: la prima è quella Selbst/Mondo e la seconda è quella Io/Selbst. Ma intrecciato com'è a tutti gli approfondimenti teorici, clinici ed epistemologici che Jung compie nei primi cinquant'anni del xx secolo, il termine viene usato con altre definizioni, e precisamente: 6) il Sé come sfondo della struttura psichica complessiva; 7) il Sé come fatto collettivo e universale, e contemporaneamente come l'elemento psichico più estraneo ed esterno alla coscienza; 8) il Sé come prodotto dei continui processi psichici di differenziazione e integrazione, ossia come esito degli urti e riconfinamenti continui tra l'uomo e il mondo; 9) il Sé come residuo indeterminato di un'originaria discriminazione psichica mai completa, a cui si sarebbe rinviati se all'interno del processo psichico si venisse a rendere necessaria una ridefinizione di sé dall'altro da sé; 10) il Sé come processo di centrazione psichica, complementare alla tendenza psichica verso la scomposizione psichica delle parti della stessa psiche; 11) il Sé come simbolo dell'unione tensionale delle coppie di opposti, per cui si parla di una congiunzione non sintetica degli stessi opposti, e si è rinviati a procedure logiche e psicologiche di tipo antinomico e paradossale[30].

Certamente si deve notare l’eccessiva proteiformità che il termine riveste in Jung. Se pensiamo poi che addirittura a questa molteplicità di significati si potrebbero aggiungere altre accezioni reperibili in altre dottrine e in altri autori, certamente non possiamo non sentire la necessità di limitare il nostro campo. Nel senso più intrinseco al nostro lavoro, e ai fini di chiarezza e semplicità, pensiamo ci si possa attenere per il momento alle sole accezioni 8, 10 e 11 di cui sopra. In esse emergono tre elementi: l’idea aprioristica di meta e di centro, quella a posteriori di risultante di un viaggio, quindi di condizione da esso determinata, e, infine, di sintesi degli opposti. Quanto questa posizione si avvicini ad alcuni concetti hegeliani potremo meglio chiarirlo nelle conclusioni. Aggiungiamo qui soltanto una nota riguardante un altro Sé, meta di uno dei tre processi di individuazione che prenderemo in considerazione nel terzo capitolo: il Sé transpersonale di Assagioli. Questa struttura non è una struttura solo personale, ma partecipa in parte dell’inconscio collettivo superiore; non è determinabile col processo di ascesa, ma è a priori in quanto creatore dell’Io, creatore a cui l’Io tende naturalmente. Lo vedremo meglio (cfr. pag. 137) nel terzo capitolo.

In ogni caso, per quasi tutti gli Autori, la condizione d’individuo si forma a partire da una condizione d’indistinzione che può essere intesa come l'assenza di distinzione psicologica tra differenti oggetti o persone, per cui tali oggetti psichici e le persone stesse sussistono tra loro in maniera indistinguibile. Giacché in tale condizione ciascuna persona non può essere separata dall'altra né starvi in relazione, si costituisce un'assenza di intersoggettività, o meglio uno stato di identità tra un soggetto e un altro, e quindi si parla della loro non ancora costituita individualità. Questa nozione chiarisce le difficoltà psicologiche e pratiche che talvolta si incontrano nel non potere stare con un altro da sé ma nel non potere, altrettanto, separarsi da questo specifico altro (per esempio: “non posso vivere con te ma non posso neppure vivere senza di te”)[31]. L'indistinzione è originaria, una vera e propria condizione epistemologica e sociale. Non si conosce l’altro e si è in simbiosi con lui. E questo accade in un tempo originario, prima d’ogni atto distintivo. In quel tempo (in illo tempore, la stessa espressione delle mitiche cosmogonie) le coppie degli elementi psichici erano unite nell’indistinzione. Solo alla fine del processo individuativo si perverrà a quell’uno in se stesso distinto in cui i due elementi opposti, il Sé e l’Altro da sé, saranno distinti e conciliati. Avremo l’unità nella distinzione. In effetti, la distinzione è intesa come il processo attraverso il quale si costituiscono un certo soggetto e un certo oggetto, e quindi come quel certo modo di vedere che, per l'appunto, rende innanzitutto visibile l'alterità tra colui che vede e colui che è visto; l'indistinzione è invece intesa come l'azzeramento sia delle differenze costituite sia dello stesso atto di differenziazione [...] L'indistinzione originaria [... è uno stato] che dev'essere “sacrificato” al fine di “venire al mondo”. In questo senso l'espressione è sinonimo di inizio in quanto evento inaugurativo dell’“essere”, ovverosia designa l'evento mentale attraverso il quale l'uomo e, insieme, il mondo sono tratti all'esistenza. “Il mondo ha origine laddove l'uomo lo scopre. Ma egli lo scopre nel momento in cui sacrifica il suo avvolgimento nella madre primigenia” e cioè “sacrifica (...) lo stato inconscio iniziale” in quanto “essere primo” o “stato psichico originario” (Jung, Opere, 1912/1952, pp. 405 e segg.). L'indistinzione [è] inizio dell'opera analitico-scompositiva attraverso la quale si costituisce la propria individualità, e quindi [...] stato originario da cui, per l'appunto, trae origine la dolorosa differenziazione dell'individuale dal collettivo e di un individuo dall'altro da sé[32].

L’indistinzione originaria, la distinzione oppositiva e infine la distinzione conciliata appaiono veramente, nella loro universale presenza, figure assolutamente archetipiche. Non sono un dover-essere, un sollen[33], imposto da qualche arbitraria autorità, ma un sein, un essere, una realtà che si presenta spontaneamente sia a livello ontogenetico che filogenetico, se nulla osta il naturale procedere dell’Essere. Tale storia non è imposta, dicevamo, da una dottrina; è semplicemente rilevata, a posteriori, a livello fenomenologico, anche per il singolo individuo, con un’operazione analoga a quella che Hegel propose per la storia dell’umanità. Non solo dunque le varie figure, che il viaggiatore incontra, appaiono sempre e ovunque, a vari tempi e latitudini, ma anche il Processo stesso d’individuazione tende ad apparire, in quanto tale, in varie culture, configurandosi così come un vero e proprio archetipo, ossia come una delle forme tipiche dei modi di pensare e di agire dell'uomo, e quindi una possibilità innata di rappresentazione che in quanto tale presiede all'attività immaginativa. Nella topologia psichica, gli archetipi sono posti da Jung nell'inconscio collettivo, e cioè nello strato più basso della psiche, accompagnati dal seguente commento: “Ai nostri fini tale designazione è pertinente e utile perché ci dice che, per quanto riguarda i contenuti dell'inconscio collettivo, ci troviamo davanti a tipi arcaici o meglio anche primigeni, cioè immagini universali presenti fin dai tempi più remoti”. Ovverosia, connessa all'ipotesi degli archetipi è l'altra ipotesi della presenza nella psiche umana di un “inconscio collettivo” che ne sarebbe il depositario[34].

Il termine arche-tipo, come il proto-tipo, indica abitualmente il modello, l'esemplare originario. Jung riferisce di essersi rifatto a Platone, che aveva posto in un luogo celeste “le idee di tutte le cose”. Le cose della terra non sono, del resto, credute come fatte a immagine e somiglianza di quelle celesti? La Gerusalemme terrena non è fatta ad immagine e somiglianza della Gerusalemme celeste? E noi ad immagine e somiglianza di Dio? I modelli archetipici sono presenti nel luogo d’origine e all’inizio dei tempi. Non è forse noto che Platone affermò che non gli interessava viaggiare, non gli interessava vedere nulla, perché aveva già visto tutto altrove. Le cose sensibili non sono semplici copie, semplici ombre proiettate sulla parete d’una caverna?

Nella storia della filosofia il concetto d’archetipo non decadde mai anche se fu, nel tempo, variamente inteso. Ai nostri fini ci basti ormai precisare che con questo termine si finisce spesso con l'indicare genericamente la teoria di Jung, seppure il relativo concetto rappresenti la parte più controversa del suo pensiero. In realtà, a questa costruzione della nozione di archetipo in quanto modello degli invarianti universali dell'immaginazione umana sono dedicati quasi tutti gli scritti della maturità di Jung, e precisamente L'Io e l'inconscio (1928c), Energetica psichica (1928d), La psicologia dei processi inconsci (1917/1943), Aion (1951b) e Gli archetipi dell'inconscio collettivo (1934/1954). Proprio attraverso la lettura di questi lavori si evidenzia quanto sia presente in Jung un'aspirazione di tipo olistico e onnicomprensivo, che lo porta verso la costruzione di una psychologia perennis. Peraltro, verso questa ipotesi di una psicologia sine tempore si muoveva già lo Jung della prima redazione di Simboli e trasformazioni della libido (1912/1952) laddove egli annunciava la presenza nella psiche umana di “immagini” e “disposizioni alle immagini” che hanno un carattere immutabile, universale e imperituro[35].

 

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[1] Pieri, P.F., Dizionario junghiano, Torino, Boringhieri, 1998, pag. 564

[2] Ibidem, pag. 350

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

[6] Ibidem

[7] Ibidem

[8] Ibidem

[9] Ibidem, pagg. 350-351

[10] Ibidem, pag. 351

[11] Ibidem, pagg. 351-352

[12] Ibidem, pag. 349

[13] Jung, (1921), Tipi psicologici, Opere, vol. VI, pag.462

[14] Jung, (1928c), L’Io e l’inconscio, Opere, Vol. VII, p.173 e segg.

[15] Pieri, P.F., Dizionario junghiano, Torino, Boringhieri, 1998, pag. 349

[16] Ibidem, pag. 363

[17] Ibidem, pag. 364

[18] Ibidem, pag. 364

[19] Ibidem, pag. 365

[20] Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano, III, 3, § 6

[21] Jung, (1921), Tipi psicologici, Opere, Vol. VI, p. 465

[22] Pieri, Op. cit., pagg. 536-537

[23] Ibidem, pagg. 537-538

[24] Ibidem, pag. 538

[25] Ibidem, pag. 312

[26] Ibidem, pag. 312

[27] Jung, 1921, Tipi psicologici, Opere, Vol. VI, pagg. 449 e seg.

[28] Nelle dottrine orientali (induismo, buddismo, ecc.) ed anche nella psicosintesi assagioliana sono previste delle tecniche specifiche di disidentificazione. In psicosintesi il termine vuol connotare la “discriminazione fra l’io e il non-io, che si ottiene nella coscienza con il continuo obiettivare i successivi e transitori contenuti della coscienza stessa. Questo porta alla fase di autoidentificazione”. (Assagioli, Comprendere la psicosintesi, 1991). Ma anche “esercizio fondamentale della psicosintesi usato per conquistare la consapevolezza dell’auto-identità”. (Ibidem)

[29] Yourcenar, L’opera al nero, pag. 15

[30] Pieri, P.F., Dizionario junghiano, Torino, Boringhieri, 1998, pag. 651

[31] Ibidem, pagg. 347-348

[32] Ibidem, pag. 348

[33] Sollen sta per “dover essere” ossia per ciò che è ritenuto doveroso od auspicabile, mentre sein, essere, sta per l’effettiva realtà, per come stanno di fatto le cose.

[34] Ibidem, pag. 62

[35] Ibidem, pag. 63. I corsivi inseriti in questa citazione sono nostri.

 


 

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