TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


Dopo l'individuazione

 

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Dopo l'individuazione

di Luciano Rossi

  

Il punto finale del processo d'individuazione Jung lo chiama Sé; Hölderlin lo chiama invece "Uno in se stesso distinto".

Il sé, appena conquistato dall'eroe, è una sintesi fra l'io e alcune parti del non-io, la coesistenza collaborativa e integrata fra queste due entità. Nell'io vediamo la coscienza, il centro di consapevolezza e volontà; nel non-io tutto il resto. Le parti del non-io che costituiscono il sé sono l'inconscio personale e il corpo. Questa sintesi è una relazione conciliata e, come tale, un'unione, ma nella distinzione delle identità, dei ruoli e dei compiti fra le due parti del sé; e, con questo, anche fra la coscienza e l'inconscio.

Io e non-io restano distinti all'interno del sé; è possibile distinguere uno dall'altro. Questo significa anche che la coscienza non si identifica più con l'inconscio come accadeva nella fase simbiotica. Il sé finale si configura come una confederazione di due stati disidentificati.

Ma in questa fase si annidano due pericoli. Il primo è che lo scivolamento nell'identificazione è sempre in agguato. Stabilizzare tale distinzione appare dunque il compito residuo da compiere. Il secondo è che questo sé non è libero dai tormenti dell'impermanenza. Per superare tali pericoli è necessario un supplemento di lavoro.

Affrontando un compito successivo all'individuazione siamo costretti ad abbandonare due termini che ci avevano accompagnato sino ad allora: sia quello di completezza del sentiero quinario[1], sia quello di psicanalisi dialettica, a volte da noi usato in passato in sostituzione di psicodialettica. Dobbiamo abbandonare il termine quinario come equivalente di completo, perché ora il percorso completo appare settenario; dobbiamo abbandonare psicanalisi come nome complessivo, perché essa è troppo caratterizzata dalla cifra freudiana che appare indubitabilmente caratterizzata dalla connotazione d'opposizione irriducibile.

Il compito successivo all'individuazione è rivolto dunque a mantenere al sé le sue caratteristiche sia d'unità che di distinzione e ad usare questa condizione d'unione in se stessa distinta per affrontare il noxa[2] originario: la paura ontologica del vivente che sente il sé, in quanto percepito come confuso, non disidentificato e morente[3].

In tale sé disidentificato ci sono sempre Io e Non-io, coscienza e inconscio, coscienza e rabbia, coscienza e paura, coscienza e dolore; ma in esso la coscienza, ossia l'io che qui le è sinonimo[4], osserva, mentre l'inconscio, recuperato con l'immaginazione attiva, viene osservato. Se fossero solo distinti, ma non disidentificati, mancherebbe quella differenza di destino fra i due che serve ad allontanare il senso di morte provato dall'Io al pensiero del dissolvimento del non-io (parte del sé con destino di impermanenza).

La dialettica dell'individuazione è il termine che ci ha accompagnato sino al compimento della terza fase. Ora tale processo ci appare evolutivamente incompleto, perché ci sembra possibile, anche sul piano pratico, completarlo ulteriormente. Così com'è, espone, infatti, ancora a quote di tormento superiori al minimo cui potremmo ridurlo[5]. Siamo così giunti a parlare del secondo pericolo, quello del dolore tormentoso dell'Io al pensiero della scomparsa del Non io.

Inoltre nel nostro discorso ha fatto capolino anche la parola "evoluzione". Il nostro cammino, più che essere un'analisi dialettica della psiche (troppo legata al momento specifico della separazione), appare un'evoluzione dialettica della psiche. Dialettica perché fatta di passaggi e rovesciamenti, evoluzione perché ogni fase supera la precedente nella freccia del progetto che tende alla fine del tormento. Abbandoniamo dunque il termine psicanalisi dialettica per adottare sempre il termine psicodialettica, che non contiene il termine analisi, troppo legato ad una sola fase. Con psicodialettica intendiamo psicoevoluzione dialettica piuttosto che psicanalisi dialettica. Evoluzione che non è crescita (termine giustamente criticato da Hillmann), ma liberazione. Tutto quello che conquistiamo con il processo settenario esiste da sempre, ma necessita di esser liberato dalle nebbie della confusione e del possesso.

Nel processo settenario la sequenza diventa:

 

   Unione confusa, simbiotica (l’uno e l’altro fusi)

2     lavoro di analisi (separazione dell'intero nei suoi componenti)

3    opposizione (l’uno e l’altro sono separati ed opposti)

4     lavoro di sintesi (ritorno, annullamento della separazione)

5    sintesi, condizione conciliata (l’uno e l’altro ri-uniti, ma, questa volta, nella distinzione)

    lavoro di disidentificazione (restituire, lasciar andare ciò che non può permanere. Il sacrificio del figlio)

7    consapevolezza ed accettazione dell'impermanenza del non-io

 

Altri nostri lavori sono stati dedicati ai primi cinque punti[6]. Il presente lavoro è dedicato ai punti 6 e 7.

L'uomo individuato è colui che ha individuato il proprio sé, realizzato la propria differenza, rimanendo capace di viverla senza confliggere con il collettivo sociale (padre) e con il collettivo naturale (madre).  Questo era stato il contributo di Jung al processo evolutivo.

L'ulteriore contributo che porta all'uomo innocente è mutuato dalle tecniche di psicologia orientale con adattamenti al "percorso psico-evolutivo" da noi proposto. Ripetiamo che la nostra tecnica non è più psicoanalitica, ritenuta troppo limitata e parziale, ma psicoevolutiva.

L'uomo innocente è colui che rinuncia a desiderare la permanenza di alcuni contenuti del sé, così eroicamente conquistato.

Perché proseguire il lavoro con i punti 6 e 7? Ricordate certamente che avevamo indicato il tesoro conquistato come "Uno in se stesso distinto". Ebbene, il figlio/eroe può correre il rischio di attaccarsi all'unità (più che alla distinzione) del sé, appena conquistato, e di desiderare che questo sé, questa unità, diventi, in toto, un possesso permanente. Poiché non lo potrà mai essere nelle sue parti non osservanti e distinte (non-io), ciò generebbe tormento. Occorre allora proseguire nel cammino e, dopo aver sacrificato il padre (uniformità sociale) e la madre (natura), intraprendere il lavoro del sacrificio del figlio nei termini che stiamo per proporre. Il figlio deve abbandonare ora ogni attaccamento alla sua conquista in termini di possesso, permanenza, vanto e colpa. Può procedere così verso il rilascio dei contenuti, la restituzione, la semplicità, il lasciar essere l'altro "così com'è". Nell'impermanenza ci sarà così semplice dolore e non più tormento.

L'eroe dona il tesoro agli uomini rinunciando ai diritti individuali della vittoria, ai vanti e alle colpe del cammino pregresso e del cammino futuro; rinunciando soprattutto ad ogni illusione di permanenza della sua conquista. Questo distacco rende la conquista ancora più piena e fruibile da lui. La relazione distaccata è ancor più piena e fruibile che non la precedente relazione illusoriamente unitaria. Entrambe sono conciliate, ma la precedente è molto più fragile. Conquista superba e luminosa ha tuttavia la fragilità dell'illusione e dell'errore. Nessuna conquista è permanente. Nulla permane e questo ci tormenta. Il lavoro del passo 6 si propone di porre fine a questo tormento e di trasformarlo in semplice dolore.

Nel processo completo si realizza dunque per prima cosa la conquista del sé junghiano, poi si lascia andare la sua parte non-io con ogni suo possesso, desiderio, permanenza. Solo per l'uomo innocente la morte di una parte del sé non fa più paura all'io.

Conclusa la sua avventura, il figlio eroe, che ritorna agli uomini col tesoro conquistato (bello, buono, creduto suo e permanente), rinuncia alla sua permanenza presso di lui e ne fa dono all'umanità e alla natura. Accade così che il protagonista, trovato il tesoro, fatto di due parti ricongiunte, rinuncia lui stesso ad illudersi della permanenza della sua conquista, lasciando che il Non io rimanga presso di lui solo finché gli sarà dato dall'«esser così» delle cose. Il sé come possesso deve prima costituirsi e poi esser riconosciuto come impermanente. Resterà presso il figlio solo l'essenza, la facoltà osservativa e volitiva che, pur lasciata libera, resta spontaneamente accanto al soggetto, perché è l'io stesso. L'eroe è disponibile a perdere la sua conquista quando sarà il momento. È tornato a conciliarsi con la natura da cui si era voluto separare. Nell'identità finale e distinta fra soggetto e oggetto, il figlio, individuato come osservatore, accetta l'esser così delle cose.

La vera conquista finale non è il sé, ma la capacità di accettarne la sua impermanenza. La conquista vera è la rinuncia a vederlo bello, buono, suo; è la capacità di considerarlo qualcosa che è "semplicemente così". Di non sentire né colpa né vanto per il suo esser così. "Rinunciando l'uomo al possesso di sé stesso e del mondo s'inserisce nel divenire universale e così supera il limite della sua esistenza temporale", dice Silvia Montefoschi. In altre parole: mai nato, mai morto, flusso continuo, momento di temporanea visibilità e opacità.

Come si conquista questo "esser così"? Lo si conquista operando come abbiamo fatto per rinunciare alle resistenze dell'Es nella fase 3 (educativa); allo stesso modo di allora, rinunceremo ora a valutare come permanenti il nostro non-io (anatta) e i nostri possessi. "Il non-io e il mio" sono senza proprietà e senza attributi. L'osservatore allenato li guarda con equanimità e semplicità. Non si chiede se sono belli o buoni, perché siano lì o perché siano così, se permarranno oppure no. Per l'innocente una ragazza che si spoglia in pieno giorno in Fift Avenue affollata non è un segno del cambiamento dei costumi; è semplicemente una ragazza che si spoglia in Fift Avenue. E niente più.

La fisica quantistica ci dice che il non-io è uno sciame impermanente di particelle. Al momento del trapasso l'alveare non permarrà nella precedente configurazione; sciamerà... ma sciamerà soltanto, senza sparire. Noi dobbiamo essere pre-parati a lasciarlo andare. Non chiediamoci nemmeno se l'alveare sciamato ci saranno anche le particelle capaci di osservare, ossia se l'io osservante è fatto anche lui di particelle. Il desiderare la permanenza di qualche sua caratteristica porta al dolore tormentoso, perché qualcosa cambierà. Lasciar andare il possesso del sé (per la sua parte non-io) e rinunciare all'illusione di una sua totale permanenza formale richiedono una lunga elaborazione.

Però questo è il nostro vero obbiettivo. Infatti: il vero noxa, quello per difenderci dal quale abbiamo sviluppato il sintomo, non era stato forse il bisogno di trasformare la paura della morte in un'ansia nevrotica, anziché osservarla direttamente? Non si deve dunque intendere una relazione distaccata come una non-relazione, bensì come la più piena e felice.

   


Note:

[1] Nell'articolo "Il sentiero quinario", cui senz'altro rimandiamo il lettore, affermavamo che il termine dialettica è da noi inteso in senso hegeliano, ossia di processo costituito, nel suo nucleo elementare, da cinque elementi. Come il lettore ricorderà, lo schema generale della dialettica hegeliana è il seguente:

  Tesi >> Separazione >> Tesi-antitesi >> Riunificazione >> Sintesi

  Schema che, nella specifica evoluzione da noi prospettata, diventava:

  Unione confusa, simbiotica (l’uno e l’altro fusi) >> separazione >> opposizione (l’uno e l’altro separati ed opposti) >> ritorno, annullamento della separazione >> sintesi, condizione conciliata (l’uno e l’altro riuniti, ma, questa volta, nella distinzione)

  O più semplicemente:

  Psiche unita e confusa >> analisi >> separazione dell'unità in singoli elementi della coscienza e dell'inconscio a due a due opposti fra loro >> sintesi >> personalità unita e distinta

 

[2] Agente nocivo che scatena la malattia come manovra difensiva.  

 

[3] Questo concetto si avvicina al concetto freudiano di Thanatos (pulsione di morte), al concetto buddhista di dukkha (velo d'insoddisfazione perenne), quello greco di ananke (mancanza, penuria, stato di necessità). Quello che un nostro paziente definì un giorno come "un'ombra biologica fra [il] me e il sole".

 

[4] Il nostro io è l'io junghiano, cosciente e diverso dal sé; si differenzia dunque sia dall'io freudiano che è in parte inconscio, sia dall'io assagioliano che coincide con il sé.

 

[5] Vedi anche appendice A, in cui compare anche il lavoro finale che caratterizza il processo completo (adattamento, individuazione, disidentificazione)

 

[6]  ROBERTA ROSSI, La dialettica dell'individuazione, tesi di Laurea in Psicologia, 2000

       L. ROSSI, R. ROSSI, Un sentiero quinario d'individuazione, Psiconline, 2000

       ROBERTA ROSSI, La dialettica dell'individuazione, Il sagittario n. 9, 2001

       ROBERTA ROSSI, Natura naturans, Dispensa Universitaria


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