TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


Il processo completo

 

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Il processo completo

(psicologia complessa e psicologia dei complessi) 

di Luciano Rossi

 

 

Scrive Màdera: «Le sue teorie e il suo stile ... inizialmente [Jung] li definì "Psicologia complessa" poi [nel '29] si decise per "Psicologia analitica"» (1998, pag. 99), e poi di seguito riporta, da pag. 63 del vol. XVI delle Opere, la famosa dichiarazione di Jung: «Preferisco dare […] il nome di "psicologia analitica" intendendo con questa espressione un concetto generale che comprende psicoanalisi, psicologia individuale e altre tendenze nell'ambito della "psicologia complessa"» (Jung, XVI, 63). La traduzione è la stessa che ne dà Trevi, il quale aggiunge a fianco l'originale espressione tedesca: in Gebiete der komplexen Psychologie. È chiaro che komplexen è un aggettivo.

Ma, attenzione. Andiamo a leggere a pag. 63 delle Opere, vol. XVI, la traduzione di E. Schanzer per Boringhieri: «io preferisco dare alle mie teorie il nome di "psicologia analitica" intendendo con questa espressione un concetto generale che comprende "psicoanalisi", "psicologia individuale" e altre tendenze nell'ambito della "psicologia dei complessi"».

Pensiamo che si tratti di una cosa voluta, non di un errore di traduzione. Psicologia complessa, allora, come vuole la traduzione letterale, o psicologia dei complessi, come si potrebbe immaginare conoscendo l'interesse di Jung per queste formazioni? Queste incertezze non sono rare nella letteratura junghiana. Spesso dobbiamo riflettere se quel che Jung ha scritto è la miglior espressione di quel che voleva dire. Indubbiamente la psicologia analitica è entrambe le cose: sia una psicologia della dialettica fra il complesso dell'Io e il complessi autonomi dell'inconscio (e questo giustificherebbe la traduzione psicologia dei complessi), sia una psicologia del dubbio e del limite (tale è il significato epistemologico attribuito per lo più al termine "psicologia complessa").

Che Jung chiamasse la sua teoria "complessa", anziché "analitica", Toni Wolff, l'allieva che ha condiviso con il maestro la sua vita, lo preferiva e lo caldeggiava; ma forse Jung volle qui mantenere un sia pur debole legame con la psicoanalisi da cui proveniva. L'aspetto propriamente analitico nel suo lavoro fu tuttavia veramente minimo. Mentre gli aspetti della complessità etimologica e clinica e della complessualità strutturale furono rilevanti.

Ma vediamo cosa significa per Pieri il termine psicologia complessa. Scrive il Pieri:

 

«Costantemente, intorno agli anni trenta e, periodicamente, nelle opere della maturità, Jung - su indicazione di Toni Wolff, e cioè di quella che solitamente viene definita la più culturalmente avvertita delle sue allieve, e già allieva di Rickert - ricorre a questa espressione per indicare la sua costruzione teorica e la sua impostazione clinica. Tale espressione, poi caduta in disuso ed esautorata da "psicologia analitica", viene riportata non tanto per l'interesse storiografico che pure può suscitare, quanto per la carica epistemologica che veicola.

In generale, si può dire che, definendo "complessa" la psicologia, Jung formula fondamentalmente l'ipotesi che un pensiero psicologico esista veramente come tale nella misura in cui è in grado di accogliere permanentemente il dubbio, l'esperienza del limite e la sua radicale messa in crisi. In particolare, si può affermare che l'espressione veicola due specifici intenti del suo autore.

Il primo intento è non già di introdurre una nuova psicologia e quindi un nuovo sapere da aggiungere agli altri, bensì di esprimere la necessità che i saperi della psicologia siano ripensati. Con "psicologia complessa" si esprime così l'intenzione di introdurre un "pensare" psicologico che possa innanzitutto rendere conto dell'originaria presenza della "psicologia dell'osservatore" in ciascuna psicologia, la quale, presuntivamente, è invece data come descrittiva. In questo senso, l'espressione apre e rinvia all'infinito margine di non detto, o non dicibile, che ogni psicologia, nel suo farsi tale, esclude. Sicché la psicologia è intesa come "complessa" quando è messa in grado di prospettare due precise condizioni cui deve sottostare ogni circoscrizione della psiche che non voglia finire con l'essere arbitraria e acritica, e precisamente: a) l'indicazione e l'inclusione di altre possibili modalità di pensiero e forme di sapere; b) il riconoscimento della parzialità e storicità di ogni "posizione" psicologica. Si è detto che tali condizioni possono essere "prospettate" perché esse, invero, non possono essere né possedute dallo psicologo né inserite in un'unica psicologia, o in una tanto unitaria quanto statica metapsicologia.

Il secondo intento è di evidenziare come ogni congettura rispetto al mondo della psiche non possa che darsi attraverso un'autolimitazione creativa o costruttiva, che in quanto tale si rivela come affermazione di un'inesauribilità, o comunque di un'ulteriorità, della stessa ricerca psicologica. In tal senso, la qualità complessa attribuita alla psicologia trova il suo opposto nel termine "semplice" (in latino, incomplexum), per cui si potrebbe parlare di una psicologia semplice laddove la psicologia fosse assunta decontestualizzandola e isolandola dal resto e dal processo di cui è parte.

L'espressione ricorre in differenti contesti teorici e clinici, dove apre a differenti problemi di natura epistemologica.

1) Nel 1929 designa una psicologia che non è un insieme di costrutti teorici definiti una volta per tutte, bensì è un work in progress, e quindi una psicologia che sempre rinvia al processo di cui è parte, ed è costantemente aperta al non ancora esplorato attraverso tale processo. In altri termini, la psicologia è complessa laddove, per il suo stesso principio costitutivo, afferma l'inesauribilità delle possibili descrizioni dell'oggetto "psiche" e l'inevitabile travalicamento storico delle specifiche forme teoriche che dello psichico, di volta in volta, si danno (1929d), per cui, nell'ambito pratico e tecnico, occorrerà pervenire alla provocatoria affermazione che ogni nuovo caso clinico comporta un'altrettanto nuova teoria (1935b ).

2) Nel 1930 la psicologia è chiamata complessa in quanto rinvia al termine "complessità", che compare in quell'anno per sottolineare quanto una psicologia, per così dire, "semplificata" finisca con l'eludere il fenomeno dell'inclusione del soggetto nell'oggetto indagato, e quindi la presenza della psiche in ogni psicologia: "Allora diventa palese che finora la mia funzione di scoperta nel campo della psicologia è consistita principalmente nell'incrinare la semplicità, spinta talvolta fino alla "monotonia", delle altre due concezioni [la psicoanalisi di Freud, e la psicologia individuale di Adler], aiutando a prendere coscienza della reale, inimmaginabile complessità dell'anima umana" (1930a, p. 352). E la "complessità psicologica" che anche altre volte è invocata da Jung, ricorre come specifica indicazione della possibilità di raffigurare l'esistenza di un rapporto tra due ambiti o costrutti (e quindi tra due concetti) che reciprocamente si escludono, sicché si può pensare che ciascuno di essi si autolimita attraverso l'orizzonte dell'altro: emblematicamente "natura e cultura", e più in generale "una parte e un'altra parte" sia a livello intrapsichichico che a livello interpsichico».

 

Così il Pieri.

Ma la psicologia analitica, o meglio la psicologia di Jung, è anche una psicologia, ragionando epistemologicamente, complessa, che contiene in sé strutturalmente e per fini clinici, come vedremo, la confessione catartica (metodo di Breuer), la chiarificazione (psicoanalisi di Freud), la psicologia individuale (teorie di Adler) e la psicologia dei complessi (contributo di Jung).

Esse sono indicati graficamente, nell'articolo "Dizionario del processo d'individuazione" di questo Sito, nel modo seguente:

 

 

 

 

 

 

 

 


In cui ai numeri corrispondono le seguenti voci di Glossario:

 

1                     CONFESSIONE  o  CATARSI

2                     ELUCIDAZIONE

3                     EDUCAZIONE

4                     TRASFORMAZIONE, INDIVIDUAZIONE

4.1                 STATO INDISTINTO, INDIFFERENZIATO

4.2                 DIFFERENZIAZIONE

4.3                 STATO DIFFERENZIATO

4.4                 INTEGRAZIONE

4.5                 STATO INTEGRATO

 

In questo articolo c'interesseremo di più alla clinica dei complessi che all'aspetto epistemologico, perché è indubbio che un interesse speciale nella clinica junghiana fu dato al dialogo fra la coscienza e i complessi inconsci e perché egli, ritenendo che una psicologia complessa dovesse includere anche altri punti di vista, integrò quattro momenti o teorie nel suo lavoro clinico. Dei quattro, solo uno, l'ultimo, è propriamente suo ed è la trasformazione che avviene nel processo d'individuazione.

Cos'è che ha portato Jung alla convinzione che si dovessero applicare successivamente quattro tecniche per avere un trattamento più efficace? Lui pensava che se esistono "svariati rimedi, si può dedurre che nessuno di essi è particolarmente efficace". Ognuno di essi ha dei limiti e proviene dal diverso tipo psicologico del suo scopritore. Per cui umilmente ci si deve servire anche del metodo degli altri per avere una visione più esaustiva. «Comunque sia, - afferma Jung - intendo considerare il risultato complessivo da noi raggiunto dall'angolo visuale dei quattro stadi chiamati "confessione", "chiarificazione", "educazione", "trasformazione", denominazioni alquanto singolari che qui mi accingo a discutere»(Jung, XVI, 65).

Essi rispondono a quattro diversi obbiettivi, tutti importanti e necessari: a) liberarsi dal peso del segreto e, quando possibile, della rimozione, b) rendere conscia la traslazione inconscia, c) educare la volontà, d) trasformare lo stato di normale, generico, adattamento nell'individuazione del proprio unico e peculiare Sé.

Vediamoli separatamente.

a)      Confessione

«Non appena la mente umana riuscì ad escogitare l'idea di peccato, nacque l'occultamento psichico» (Jung, XVI, p. 65). A volte però non si sa di possedere un segreto. «In quest'ultimo caso, il contenuto nascosto non è più celato coscientemente ma lo dissimuliamo persino a noi stessi ed esso si scinde dalla nostra coscienza formando un complesso a se stante» (Jung, XVI, p. 66) autonomo e pronto ad irrompere nella coscienza ad ogni occasione a lui propizia.

Una forma di occultamento è il segreto; un'altra forma è il ritegno delle emozioni.  Entrambi nocivi se inconsci e frutto di rimozione o scissione, difficilmente essi possono ottenere la catarsi con quella confessione che «getta di nuovo in grembo all'umanità, liberandoci dal peso dell'esilio morale» (Jung, XVI, p. 69).

 

b) Chiarificazione

Non c'è dubbio, pensa Jung, che il cammino della psicoterapia si sarebbe fermato a Breuer se la catarsi della confessione si fosse rivelata un rimedio universale, possibile in ogni caso e sufficiente; «ma prima di tutto non sempre si riesce ad accostare il paziente talmente all'inconscio da permettergli di percepire la propria Ombra» (Jung, XVI, p. 69). Quando non è possibile vedere l'inconscio, onde poterlo accettare e verbalizzare, occorre una tecnica, che superi le resistenze a vedere, per chiarire, e poter vedere, ciò che non è ancora accessibile alla confessione. Ma un altro ostacolo, oltre alla resistenza a vedere, si oppone alla liberazione del paziente: il fatto di non riuscire a staccarsi dal terapeuta e di ripetere con lui il proprio passato infantile. L'interpretazione del transfert e delle resistenze è appunto la tecnica che Freud mette a punto per far accostare ai contenuti inconsci altrimenti irrecuperabili una coscienza cieca e riottosa. «È questa la differenza fondamentale fra lo stadio della confessione e quello della chiarificazione» (Jung, XVI, p. 72).

Era impossibile che la coscienza potesse vedere il transfert laddove esso è frutto soprattutto di fantasie incestuose. Neppure dalla confessione più scrupolosa ci si può attendere che vengano ammesse fantasie incestuose, pensa giustamente Jung. Ciò che era stato impossibile a Breuer è possibile a Freud: fare apparire alla coscienza ora, nella stanza dell'analisi, la condizione infantile rimossa. Il metodo non sarà più chiamato catartico, ma interpretativo.

A seguito dell'interpretazione e della conoscenza, il paziente dovrà riconoscere «che le sue pretese nei confronti del prossimo sono una forma di indolenza infantile, che dev'esser sostituita da un maggior senso di responsabilità personale» (Jung, XVI, p. 74).

Raramente questo avviene.

 

c) Educazione

«La conoscenza delle cause della sua malattia avrà insegnato qualcosa [al paziente], trarrà da ciò conclusioni morali e, convinto ormai della sua inadeguatezza, si getterà nella lotta per l'esistenza ... un normale adattamento alla vita e alla tolleranza della propria insufficienza ... diverranno le sue idee-guida» (Jung, XVI, p. 74-75). Se non lo fa, dice Jung, si pone il problema della" sua educazione dal punto di vista sociale". «Siamo arrivati così al terzo stadio» (Jung, XVI, p. 75). Stadio necessario per le nature moralmente meno sensibili che la solo conoscenza non riesce a volgere verso l'impegno etico. In questi casi «la chiarificazione lascia un fanciullo sicuramente ragionevole, ma inetto ... [così] il sistema freudiano della chiarificazione presenta qui una falla notevole nella quale si è insinuato Adler ... Adler parte in sostanza dallo stadio di chiarificazione» (Jung, XVI, p. 76) e non aspettandosi troppo dalla sola comprensione riconosce la necessità di un'educazione sociale. «[Se Breuer è stato l'uomo della catarsi], se Freud è il ricercatore e l'interprete, Adler è soprattutto l'educatore. Egli raccoglie l'eredità negativa di Freud in quanto non lascia il paziente nella condizione di un bambino inerme ... ma tenta di farne con tutti i mezzi educativi un uomo normalmente adattato» (Jung, XVI, p. 76).

Ad Adler non basta «sapere come e perché [il paziente] si è ammalato, poiché raramente la comprensione delle cause porta senz'altro con sé l'eliminazione del male ... le strade della nevrosi [infatti] diventano altrettante pervicaci abitudini, che nessuna comprensione riesce a far scomparire finché non siano sostituite da altre abitudini, acquisibili unicamente con l'esercizio. Ma questo lavoro può essere compiuto solo con un'educazione appropriata ... non vi sono né confessioni, né chiarificazioni che possano raddrizzare l'albero cresciuto storto: per questo non v'è che l'arte del giardiniere che sa come fissarlo al graticcio della normalità. È questo l'unico modo di raggiungere l'adattamento normale» (Jung, XVI, p. 77).

 

d) Trasformazione

Il nostro compito è forse finito? O meglio, è finito in ogni caso, con ogni paziente? Ciascuno dei tre ricercatori ha portato avanti «per un tratto la fiaccola della conoscenza» (Jung, XVI, p. 78) e dovrebbe riconoscere i limiti del suo portato ad una psicologia complessa. Anche Jung lo riconosce per la propria ricerca, ora che sta per proporre il suo quarto stadio: la trasformazione.

A chi è utile un ulteriore passo? A chi per dotazione personale il livello di normale adattamento appare un risultato troppo generico e può permettersi di andare ancora avanti.

L'individuo cui è destinato il quarto segmento sembra pensare (e Jung stesso del resto lo pensa di sé) che dopo aver conquistato la normalità, non si accontenterà dell’adeguamento all’uniformità sociale; cercherà, al contrario, di realizzare anche la sua unicità e singolarità con una ricerca individuale e individuativa.

L'adattamento normale - dice Jung - «appare un miglioramento auspicabile soltanto a colui cui già riesce difficile risolvere i problemi di tutti i giorni» (Jung, XVI, p. 79) e prosegue con parole che troviamo francamente troppo forti: «La "persona normale" è la meta ideale dei falliti ... ma per coloro che sono di gran lunga superiori alla media ... l'idea o la costrizione morale di non dover essere altro che persone normali è un letto di Procuste, una noia mortale, insopportabile, uno sterile inferno senza speranza ... la loro più profonda aspirazione è quella di poter condurre una vita anormale ... quel che è liberazione per l'uno è prigione per l'altro ... l'uomo gode di perfetta salute solo vivendo in modo anormale e asociale» (Jung, XVI, p. 79).

A questa persona si rende necessario attraversare anche la quarta fase trasformativa, caratterizzata da forte intersoggettività; l'oggettività (e quindi l'interdipendenza) non è più presente come lo era nelle prime tre fasi. Caratteristico della quarta fase sono il processo d'individuazione e la forte dialettica che lega in modo peculiare i due soggetti della situazione analitica.

Le due cose procedono insieme. Il processo d'individuazione è quella fase trasformativa che lo fa passare dalla condizione di uomo massa a quella di essere individuato e unico, attraverso il dialogo intrapsichico e l'integrazione/sintesi che la coscienza conduce con i complessi inconsci: Anima, Ombra, Padre, Madre, ecc., ma tale dialogo intrapsichico è anche dialogo interpersonale fra i due del "viaggio nella stanza", dialogo senza teorie, senza regole, senza tecniche, da cui entrambi escono trasformati.

L'influenza ora è reciproca e ogni idea preconcetta va abbandonata. Il terapeuta è presente non più come sapere, ma come personalità. Questa, adesso, è di vitale importanza, perché il terapeuta deve ora affidarsi alla spontaneità; non possiamo che sperare che lo psicologo abbia raggiunto il suo disadattamento ottimale e che sia ora "spontaneamente" un buon terapeuta. Scrive Jung: «Il terapeuta è "in analisi" tanto quanto il paziente  ...  ed essendo come lui un elemento del processo psichico della cura, è esposto alle stesse influenze trasformatrici. Nella misura in cui il paziente si mostra inaccessibile a quest'influsso, è privato del suo influsso sul paziente ... Il quarto stadio della psicologia analitica richiede dunque che "si possa controapplicare al terapeuta stesso il sistema nel quale egli crede", e ciò con la stessa implacabilità, coerenza e perseveranza che egli usa nei confronti del suo paziente» (Jung, XVI, p. 81).

Negli altri tre stadi non c'era la necessità vincolante che il terapeuta si trasformasse per poter trasformare il paziente. Nelle teorie e nelle tecniche che fondano le prime tre fasi, la cura è (possiamo dire: era?) spesso descritta ed applicata in modo oggettivante. Perché ora questa necessità?

Sia perché ora il sapere non c'è più (ed era lui, il sapere, supposto o meno, a consentire la presa di distanza), sia perché ora, se un sapere ci fosse (ma non può esserci) si dovrebbe deporlo. Ora si tratta di viaggiare con complicità. Piacerò al paziente se lui piacerà a me. Posso colpirlo se sono colpito da lui. Mi riterrà degno di condividere il suo viaggio eroico se io lo ritengo degno di compiere questa grande Opera. La vicinanza e la complicità che sussiste nel rapporto d'Anima della grande Opera non ha l'eguali in altre psicoterapie. La catene che legavano lo psicologo analista/complesso alla Laurea, all'Università, alla Specializzazione, al Modello Medico, sono del tutto spezzate. Ora, nell'antro alchemico, deve servirsi solo del suo saper essere. Ormai è semplicemente una Guida, ma nel semplice senso d'essere colui che, dove si sta andando, c'è già stato; una guida però che, come il viandante, è punto dallo stesso gelo, patisce lo stesso calore, soggiace agli stessi pericoli del viaggio, non conosce le nuove incognite del clima sempre mutevole, né sa l'esatta destinazione. Questa non dipende solo da lui. L'influenza del compagno, le vicissitudini della relazione dialettica, i continui aggiustamenti cibernetici, sono imponderabili. Tutto è possibile.

La Guida preparerà con cura il cordame dell'Immaginazione attiva, avrà presenti le foto segnaletiche degli Archetipi, porterà con sé viveri a sufficienza, avrà allenato i muscoli alla pazienza. Ma tutto questo non sa quando gli servirà, dove e con chi. La direzione non è indicata: il Sé è la meta, ma non si sa dove stia. Troppe cose non dipendono dall'analista e dalle sue aspettative teoriche: i due inconsci, e i relativi complessi, non hanno ancora detto la loro; la diranno solo di fronte ad ogni bivio, ad ogni pericolo, ad ogni ostacolo.

Sapremo soltanto allora cosa accadrà.

 


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