TEMI   DI   PSICODIALETTICA

a cura del

Centro  internazionale  di  Psicodialettica

Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi

Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta

 


Modernità di Jung

 

Home | Presentazione | Storia del Centro | Il pensiero | Trasformazione | Letture

Pubblicazioni | Links | Articoli | Proprietà  


 

Modernità di Jung: un mancato riconoscimento dei freudiani riformati

di Luciano e Roberta Rossi  

(articolo pubblicato su Il Ruolo Terapeutico e qui riprodotto per gentile concessione della Franco Angeli Editore)

 

1

Da alcuni anni, se vogliamo da due o tre decenni, molti freudiani vanno scoprendo, con l'aria d'averle inventate loro, la validità di opinioni che Jung sostenne negli anni '20. Ma dal momento che non fanno alcun cenno al debito verso le posizioni di Jung, delle tre l'una: o si dimenticano di farlo, o non ne sono a conoscenza, o non è del tutto vero quel che noi diciamo.

Propendiamo per la seconda ipotesi e cerchiamo con quest'intervento di porre rimedio alla mancata conoscenza laddove questa sussista. Naturalmente i freudiani a queste convinzioni odierne ci sono arrivati e ci arrivano da soli, con sofferenza personale e per sentieri personali; bisogna però riconoscere che le idee di Jung in qualche modo giravano già da tempo nella comunità psicoanalitica, sia pure con scarsa diffusione specifica; erano dunque nell'aria e non possono non essere arrivate anche agli innovatori freudiani come un vento senza nome o uno Zeitgeist ormai senza padre. Possiamo dunque credere che non sappiano che gli sono arrivate anche dalla teoria di Jung e in parte minore, ma non trascurabile, dalla pratica dello stesso Freud, il quale non riusciva evidentemente, in seduta, a stare al passo con la sua teoria della tecnica, perché è semplicemente impossibile e disumano starci.

Come casi esemplari di questa svolta citeremo Luciana Nissim Momigliano e Johannes Cremerius. Ma ce ne sono molti altri di quella generazione ad aver respirato questo vento relazionale.

La svolta della Nissim data dagli anni '80 e '90. Traiamo le brevi note che seguono da L'ascolto rispettoso (Cortina, 2001). Dice Andreina Robutti nell'Introduzione al volume: "[Negli anni '70] c'era un atteggiamento quasi moralistico nei confronti del paziente che vorrebbe fare da sé ... veniva [quindi] data molta importanza alla dipendenza e alla necessità che il paziente giungesse ad accettarla ... il rapporto che si [creava era] alquanto bellicoso e l'analista combatteva per disvelare, smascherare e vincere le resistenze del paziente ... poi, molto gradualmente, l'atmosfera cambia ... il paziente viene ascoltato da un'analista [Nissim si riferisce alla sua pratica personale] che cerca di ascoltare molto se stessa, presta molta attenzione a come si svolge il dialogo e alle indicazioni che il paziente dà, non per attaccare o resistere, ma per farsi raggiungere ... e l'attenzione è a quello che succede tra paziente e analista, abbandonando la tentazione d'interpretare quello che succede nel paziente ...". Ci piace concludere le citazioni sulla Nissim con questo ricordo della Robutti:" ... una sera Luciana ci ha detto scherzosa: «Sapete perché le analisi sono così lunghe? Perché il paziente ci mette tantissimo tempo a vincere le resistenze dell'analista!».

Quanto invece possiamo riferire di Cremerius lo abbiamo preso da un suo recente articolo trovato in rete (Psychomedia). In esso si dice: "Molti di noi scoprirono le carenze di questa formazione [classica], e decisero di intraprendere una seconda analisi didattica presso gli Istituti psicoanalitici di Amsterdam, Londra, Zurigo e degli Stati Uniti, per completare la propria formazione teorica. Io andai a Zurigo [ambiente, come noto, in cui l'influenza junghiana è molto alta, ndr]. Il risultato di questo perfezionamento consisté nel fatto che divenni, da analista che tace e rispecchia, analista attivo, e da analista di contenuto ad analista di traslazione". Non sappiamo quanto anche gli ambienti freudiani in Zurigo possano essere stati tacitamente contagiati dalle idee junghiane, ma procediamo con le parole di Cremerius: " ... cominciai addirittura a capire che la controtraslazione precede spesso la traslazione, e deve necessariamente precederla ... per conseguenza, [seguì] un rafforzamento della mia presenza emozionale. Essa condusse a un'ulteriore demolizione dell'ideale specchio-anonimità-neutralità-astinenza ... La tecnica, secondo il mio pensiero, non può essere applicazione di regole e programmi teorici ... tale comprensione scaturì di conseguenza dal rifiuto ad assumere la posizione oggettivante dell'osservatore, e dalla decisione in favore della [mia] «presenza». Lo sguardo, fino a quel momento prevalentemente rivolto all'analizzando, ai suoi conflitti e al suo modo di lavorare, si spostò maggiormente su di me ... senza il mio coinvolgimento, il processo analitico diviene un gioco intellettuale d'interpretazioni ... ciò mi ha condotto ad indirizzare soprattutto su di me, durante il lavoro analitico con l'analizzando, lo strumento dell'analisi".

Ci sembra che tali posizioni possano ben collimare, ma sarà Sergio Erba a dirlo, con quelle de Il Ruolo Terapeutico.

Noi ci limitiamo ad osservare che nelle parole espresse in occasione del mini "festeggiamento", che Di Paolo ed Erba hanno fatto per il trentennale della Rivista (molto meno festoso che il ventennale; perché?), si sottolinea una loro posizione storica. I due Autori dicono che "la messa in crisi di certi stereotipi psicoanalitici e l'accumulo di esperienze sul campo hanno reso possibili modelli d'intervento  ... impensabili qualche decennio fa". Proseguendo poi chiariscono ancora una volta questa modalità: " ... una pratica clinica incentrata su una totale reciprocità umana tra curanti e pazienti ... e un mestiere ... che consiste in un'incessante cura della propria sempre difettosa e malata capacità d'amore".

 

2

Una volta Sergio Erba aveva scritto ad uno di noi due: "[La differenza fra noi sta] nella concezione di fondo dell'essere umano e, di conseguenza, sulla posizione e la responsabilità e la funzione del terapeuta". E per farsi capire meglio aveva precisato: "Per sintetizzare al massimo il mio pensiero, ti dirò che la concezione della terapia cui mi riferisco, può essere sintetizzata su una T-shirt, e potrebbe riassumersi così: Terapeuta, cura te stesso, che alla cura del paziente, se vuole, ci pensa lui".

Di fronte a ciò, noi, in quanto junghiani, sentiamo di dover precisare la nostra posizione. Vogliamo precisare che né la concezione dell'essere umano, né la funzione del terapeuta sono diverse fra il modo di lavorare nostro e quello di Sergio Erba, per quel che possiamo capire dai suoi scritti; vogliamo ribadire altresì che, per noi junghiani, il terapeuta è una persona ferita il cui ruolo è quello di suscitare, nel paziente, il guaritore ferito a lui interno.

Ci spiegheremo più diffusamente. Con questa nota abbiamo deciso, per l'affetto che portiamo a Erba, a noi stessi e al nostro mestiere, di prendere nella considerazione più attenta questo tema a lui caro e di vedere se possiamo intenderci a fondo anche in vista della comune rifondazione del nostro mestiere. La sua posizione ci aderisce per un aspetto importante: noi, che siamo junghiani, lavoriamo proprio così come lui dice e come recitano le note introduttive alla sua Scuola di formazione. Abbiamo la teoria del guaritore ferito che suscita all'interno del paziente un analogo guaritore ferito, istanza, questa, che sarà il vero terapeuta del paziente. Inoltre in ambito junghiano non abbiamo mai avuto, dagli anni '20 in poi, un'idea oggettivante dell'uomo. Se i freudiani d'oggi lo sostengono anche loro, forse farebbero bene a riconoscere, in questo, il loro debito a Jung.

Freud e Jung, dopo essersi separati, non andarono d'accordo nemmeno su idee dell'altro che, prima della separazione, essi avevano giudicato accettabili e in parte compatibili con le proprie posizioni. Dunque si deve pensare che soprattutto a dividerli furono un dissidio caratteriale, dei risentimenti, ecc. che potevano sussistere fra loro due.

Poco dunque, di tutta questa ostilità, ha ragione di sussistere fra i loro epigoni. Eppure quasi mai nella psicoanalisi freudiana si fa riferimento alle dottrine junghiane o postjunghiane anche da parte di chi, freudiano, ha raggiunto oggi, autonomamente, posizioni assai vicine a quelle di Jung. Una delle ragioni crediamo sia questa: mentre il freudismo è notevolmente cresciuto proprio per aver preso nozione dei limiti delle formulazioni di Freud e aver preso le distanze da queste, in campo junghiano non è accaduto nulla di simile. Non è nemmeno cominciato quel processo di necessario distanziamento dal ceppo originario che tanti e tanto vari frutti ha generato tra i freudiani. Questo ha lasciato lo junghismo in un relativo isolamento per mancanza di partecipazione ai dibattiti, di studi comparativi, e via dicendo. Per cui i freudiani oggi, e non per loro colpa, non conoscono Jung.

Vediamo allora di esporre sinteticamente le posizioni junghiane che hanno a che fare con questo tema:

 

a)  Nessuna teoria psicologica può pretendere di erigersi al di sopra della relazione terapeutica hic et nunc.

b)  Ogni teoria ingloba l'equazione personale dell'autore.

c)  Ogni teoria è solo un punto di vista, una prospettiva che coglie la psiche da un punto di vista parziale. Deve riconoscere quindi che da altri punti di vista si possano cogliere altre prospettive, anche loro capaci di parziale verità. Ognuna di queste fornisce una descrizione della vita psichica vista da quel punto d'osservazione. Ogni interpretazione è relativa ad una prospettiva (relativismo ermeneutico). Non si può perciò presumere di sapere cosa accadrà in una storia terapeutica.

d)  La psicologia junghiana non accetta né l'oggettivazione della psiche né una psicologia perennis; è perciò eminentemente soggettiva in quanto l'osservatore influenza l'osservazione. È storicistica e tipologica, nel senso che la psicologia non è perenne, perché si appoggia alla storia e non alla natura, e perché per Jung è valido tanto Freud quanto Adler. Quanto a Jung, una teoria non l'ha; egli si propone come il garante della legittimità e della limitatezza d'ogni psicologia.

e)  Jung pone ai primi posti il principio dialogico: una psicologia dell'interazione dialogica considera il dialogo come lo strumento elettivo del costituirsi dell'individuo e che si sforza di cogliere l'uomo nella sua fondamentale apertura all'altro

f)   Il terapeuta deve proporsi come un guaritore ferito, portatore di una ferita sempre aperta, che dialoga con il guaritore interno al paziente e sa che sarà quest'ultimo ad avere le sole possibilità di guarire il paziente.

g)  Il legame transferale non è, come in Freud, una traslazione meccanica di proiezioni sullo schermo vuoto dell'analista, ma una reciprocità relazionale e paritetica nell'hic et nunc. Il passato ripetuto nella relazione è poco importante; non è necessario rivivere l'antica emozione traumatica, ma semplicemente vivere ora le difficoltà attuali con un concreto Tu e potersi spiegare con lui.

h)  Il compito del terapeuta non è dunque passivo, anonimo e neutrale come nel metodo freudiano classico; nella prassi junghiana l'analista dà conto di sé e si pone in un'intersoggettività viva fra due esseri presenti e autentici.

i)   Il contatto personale è d'importanza capitale perché costituisce la base, a partire dalla quale soltanto ci si può fidare per affrontare l'inconscio.

j)   L'unico vero metodo del terapeuta è la sua personalità

  Scrivono Trevi e Innamorati [Riprendere Jung, Boringhieri, p. 136]: "Jung attinge a un universo di sapere psicologico e psicoterapeutico ancora ignorato - o forse da tempo obliato - quando, con un colpo d'ala originalissimo rispetto alla consuetudine scientista dei sui tempi, afferma, pressappoco, che lo strumento più efficace dello psicoterapeuta è la sua personalità e perciò, implicitamente, che l'unica disciplina efficace per lo psicoterapeuta è la coltivazione incessante ed inesauribile di quella stessa personalità". A noi sembra proprio il "Medice cura te ipsum" ripreso da Sergio Erba. L'altro punto in questione è confermato da un passo successivo (ibidem, p. 137): "La pariteticità di psicoterapeuta e paziente, che Jung per primo ha invocato, ... ha il suo limite nell'unica disparità reale e moralmente consentita, che è quella di un maggior progresso nella costituzione della personalità da parte del terapeuta rispetto al paziente". È del resto quanto diciamo abitualmente: "La situazione analitica è l'incontro di due pazienti, uno dei quali ha cominciato la sua analisi prima dell'altro".

A questo proposito scrive D. Sedgwick (Il guaritore ferito, Vivarium, p. 29): "Jung aveva detto qualcosa di molto significativo quando aveva affermato che l'analista «è in analisi quanto il paziente (1929a, p.81)». E ancora (ib., pag. 32): "Steinberg, inserendo il controtransfert come sottocapitolo del guaritore ferito, fa notare quanto poco sia stato scritto sulle ferite specifiche del guaritore e su come esse possano influenzare l'analisi". E ancora (ib.): "... una cosa è prender nota del controtransfert ... e un'altra è lavorarci veramente".

 

3

Vorremmo concludere queste brevi note salutando con piacere le nuove tendenze del freudismo che stanno riducendo distanze, abbattendo steccati, rendendo più fluidi i confronti fra scuole. Di ciò ci pare stiano beneficiando in particolare i rapporti con Ferenczi, Lacan e anche con Jung. Limitandoci a quest'ultimo caso, dobbiamo dire che alcune prese di posizione favorevoli sono maturate già da tempo. Scrive per esempio Roazen nel suo Freud and his followers: "Sono poche le figure di rilievo della psicoanalisi d'oggi (era il 1976!, ndr) che avrebbero qualcosa in contrario se un analista esprimesse idee identiche a quelle che Jung aveva nel 1913" (1976, pag. 272).

Desideriamo infine chiudere ricordando che Andrew Samuels nella sua sistemazione dello junghismo (unica nel suo genere) dà ad un capitolo del suo libro questo titolo: "Junghiani inconsapevoli". In quella sede egli così afferma(A. Samuels, Jung e i neo-junghiani, Borla, 1989, pagg. 25-27):

"Mostrando che gran parte dell'analisi e della psicoterapia moderne hanno un pronunciato sapore junghiano, spero di ... interessare il lettore a esplorare un po' più a fondo quegli aspetti della psicologia analitica [intendendo con questo termine la psicologia di Jung, ndr] che forse è stato troppo pronto a tralasciare ... Faccio qui seguire un elenco dei mutamenti e degli sviluppi della psicoanalisi ... che riflettono questo orientamento junghiano:

- l'interesse alla precoce esperienza preedipica di attaccamento alla, e separazione dalla, madre (Klein, Fairbairn, Guntrip, Winnicott, Balint, Bowlby)

- l'idea che una parte di estrema importanza della vita psicologica si impernia sulle strutture psichiche innate o archetipi (Klein, Bowlby, Spitz, Lacan, Bion)

- l'attenzione all'uso clinico del controtransfert (Searles, Langs, Racker, Little, Winnicott e la maggior parte degli analisti di oggi)

- l'idea che l'analisi consiste in un'interazione capace di provocare una reciproca trasformazione e, quindi, che sono di particolare importanza la personalità dell'analista e la sua esperienza dell'analisi (Langs, Searles, Lomas)

- l'idea che in analisi la regressione può essere utile ... (Balint e Kris)

- l'idea che il rapporto con l'analisi dovrebbe essere più a livello di sé che di Io ... (Kohut, Winnicott)

- l'idea che esistono sub-divisioni della personalità (complessi) su cui si può lavorare in analisi (falso sé di Winnicott)

- l'idea che la fantasia incestuosa è simbolica (Bion, Lacan, Mitchell, Winnicott)

 


Home | Presentazione | Storia del Centro | Il pensiero | TrasformazioneLetture

Pubblicazioni | Links | Articoli | Proprietà

Copyright 2003 - Centro internazionale di Psicodialettica - All Rights Reserved

Per contattarci scrivete a: luciano.rossi38@alice.it