TEMI DI PSICODIALETTICA a cura del Centro internazionale di Psicodialettica Caposcuola e fondatore: Prof. Luciano Rossi Responsabile del Centro: Dott.ssa Lisa Marchetta
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Il modello a spettro intero |
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Il
modello a spettro intero di Luciano Rossi 1
- Meditazione e psicoterapia Ciò
che mi ha spinto a prendere la parola su meditazione e psicoterapia è
stata una recensione apparsa su Il Ruolo Terapeutico. L'Autore recensisce
in questa occasione un libro sulla meditazione, che definisce "una
risorsa importante per noi terapeuti". È senza dubbio vero, questo,
se noi terapeuti vogliamo condurre gli individui alle realizzazioni più
"alte", o transpersonali. Ma poi si dice una seconda cosa più
discutibile: "Tutti siamo in grado di meditare". È allora su
queste due frasi che vorrei ampliare il discorso. Vorrei riprendere quelle
due frasi perché meditare, oggi, significa sempre, nella sua prassi
concreta e avanzata, anche "andare oltre l'io, oltre il sé, nel
vuoto del non-sé (in sanscrito anatta)".
Anche se qualcuno mi dirà che occorre intenderci sul significato che si dà
al termine anatta, prima di
legiferare sulla sua pericolosità, resta comunque, a farmi prendere la
penna in mano, il fatto concreto che un certo numero di persone nei ritiri
di meditazione si scompensa. È
estremamente importante che io faccia qui una premessa: non sono né
favorevole né ostile alla meditazione; sono sia psicoterapeuta che
insegnante di meditazione. Però, proprio per questa duplice esperienza,
sono nelle condizioni di sapere che la domanda che deve precedere un corso
di meditazione è questa: "Quale meditazione è adatta per quel
soggetto e per lo stadio attuale di sviluppo della sua coscienza? E
ancora: l'inizio della meditazione deve essere successivo ad un certo
lavoro psicoterapeutico, può correre parallelamente ad esso o può fare a
meno di esso?". Discende una cosa importante: se deve poter
rispondere a questa domanda, l'insegnante di meditazione non può trarsi
fuori da una "certa" competenza psicologica (meglio ancora
"da una competenza psicologica certa"). Partiamo
allora dalla domanda: quale meditazione? È bene distinguere: le
meditazioni, infatti, non sono tutte ugualmente pericolose. Comincio
col precisare che la meditazione è un pianeta molto vasto e che, quindi,
dire "meditazione" è come dire nulla. Ci sono, infatti, tante
possibili meditazioni, tutte in qualche grado "terapeutiche"
quando applicate nel corretto stadio dello sviluppo della coscienza. Esse
sono state variamente classificate in grandi famiglie, in classi più o
meno omogenee. Sono state divise in attive e passive, formali e non
formali, con sforzo e senza sforzo, ecc. Ma la più interessante, sotto
l’aspetto terapeutico, è la suddivisione in meditazione di concentrazione e meditazione di consapevolezza. Concentrazione
e consapevolezza sono due cose molto diverse fra loro. Sotto il profilo
terapeutico, la concentrazione dà un benessere profondo, ma transitorio,
mentre la consapevolezza non mira al benessere immediato, ma può dare, al
contrario della concentrazione, una liberazione permanente da alcuni
condizionamenti. Cerco
di spiegarmi con un esempio tipico della filosofia buddhista. Non
appena ci accade qualcosa di spiacevole, può capitare che si formi, per
esempio, rabbia al nostro interno. Che fare allora? Reprimere la rabbia,
reagire (ossia scaricare l'emozione), o qualcos’altro ancora? 1)
Se reagiamo, espelliamo, è vero, un po' di collera, ma anche, e
soprattutto, la moltiplichiamo, la collera, ossia ci carichiamo da soli di
nuova rabbia, convincendoci, con la nostra arringa, che abbiamo ancor più
ragione di quel che pensavamo prima e che abbiamo ricevuto un grave
insulto. Più la nostra arringa prosegue e più l'offesa ci sembra grave. 2)
Se invece reprimiamo, lasciamo che si formi una carica inevasa al nostro
interno. 3)
Occorre dunque una terza soluzione. Entrambi i tipi di meditazione,
concentrazione e consapevolezza, percorrono due nuove vie, diverse fra
loro e diverse dalle due precedenti (reazione e repressione). Vediamo
quali sono. 3a)
La meditazione di concentrazione ci propone di spostare
l’attenzione dalla collera a qualcos’altro: un mantra, il respiro, o
un piccolo semplice oggetto. Così la mente cosciente viene sviata e, fino
ad un certo punto, si libera della collera. Ma questa soluzione (affermano
i sostenitori della meditazione di consapevolezza) dà sollievo solo alla
coscienza, che, distolta, distratta, non è più consapevole dello stimolo
doloroso e non innesca la risposta reattiva. Così, fin che si medita, e
per un po' di tempo dopo, non si sente più il dispiacere dello stimolo e
non si moltiplica ulteriormente la collera. Ma, nelle nostre profondità,
tutto resta inalterato e ben presto la collera si riaffaccerà. 3b)
La meditazione di consapevolezza c'insegna invece ad osservare
la collera appena sorge, ogni volta che sorge. Anziché
osservare qualcos'altro come sopra, osserviamo proprio il nostro problema.
Siamo svegli, vigili, anche se rilassati, e così lo vediamo subito appena
esso nasce. Perché osservare? Perché, appena la si osserva, l'emozione
perde forza, la spontaneità, non ci travolge più; inoltre ottiene una
sorta di scarico e lentamente esaurisce nel tempo le sue scorte profonde.
Il vantaggio è che noi possiamo vedere la collera prima che diventi
grande, ossia capace di travolgerci. La Meditazione orientale (tutta) ci
consente di vedere i pensieri sottili, ma, mentre la concentrazione non
osserva la rabbia e quindi la lascia inalterata, la consapevolezza, con la
sua tecnica d'osservazione, annotazione e presenza, la comprende e la
scarica. In
ambiente buddhista le due forme di meditazione si chiamano samadhi
e vipassana. Due meditazioni
con due gradi di risorsa diversi, e due diversi gradi di pericolosità
psicologica. Perché ciò che non va assolutamente trascurato è il fatto
che, come obbiettivo avanzato della meditazione c'è anche la fusione con
l'oggetto e il raggiungimento del non-sé (anatta),
sebbene quest'espressione vada ben delineata e circoscritta e non sia
assolutamente da intendersi come la intende la New Age. Al sentire questo
obbiettivo, comunque il non-sé vada inteso, ogni terapeuta, che tratti
anche psicotici e borderline, e che sa quanto sia importante, lungo e
faticoso, strutturare un certo grado di coesione del Sé, non può che
fare un salto sulla sedia. Cos'accade, si chiede il nostro bravo
terapeuta, se un borderline comincia a frequentare in modo idealizzante un
maestro di meditazione sprovveduto che non sappia nulla di patologia del Sé
e che inizi subito l'allievo, con tutta l'innocenza dogmatica di cui è
capace, ai più alti percorsi trascendentali e transpersonali? La risposta è facile: possono accadere dei guai
molto grossi. Possiamo sintetizzare la questione affermando che, se la
psicoterapia ha dei limiti, la meditazione presenta dei pericoli. Riassumo
questa questione con le parole di Adalberto Bonecchi. "Vi sono limiti
notevoli nelle psicoterapie basate solo su un riassestamento dell'io. E,
d'altro canto, in una pratica spirituale vengono vissuti conflitti
psicologici di cui si dovrebbe occupare la psicoterapia. Né il lavoro
spirituale sostituisce quello psicologico, né il lavoro psicologico
sostituisce quello spirituale. Anzi, ciascuno occultando il lavoro
dell'altro, ne ritarda l'attuazione". Ma, per fortuna, si scopre che
le debolezze della meditazione sono collocate proprio in aree dove la
psicoterapia offre la sua massima efficacia. E, in modo altrettanto
fortunato, possiamo constatare che le debolezze della psicoterapia sono
collocate proprio in aree dove la meditazione ha la sua massima efficacia.
Esse sono dunque complementari e sommate insieme possono contribuire a
formare lo spettro intero dello sviluppo della coscienza. Ci sono Scuole
transpersonali, in Occidente, che hanno tentato una prima integrazione
parziale, a spettro più limitato, potremmo dire. Fra queste, la
psicosintesi dello psichiatra italiano Assagioli. Si potrebbe dire che
questa copra sei gradini dei nove (vedi più avanti) dello spettro intero
(esiste, infatti, una psicosintesi personale e una psicosintesi
transpersonale; ma non esiste una psicosintesi prepersonale e in ambito
psicosintetico affida la terapia delle fasi escluse non ad un metodo
proprio, ma alla psicoanalisi). Essa è generalmente attenta, almeno nel
suo fondatore e nei suoi terapeuti più preparati, ai pericoli pre/trans
di quest'integrazione (pericoli che consistono nel proporre la fase trans a personalità pre)
e suggerisce di applicare i suoi interventi solo a personalità che
abbiano superato la fase edipica ossia il terzo stadio dello spettro.
Purtroppo circola però in ambiente psicosintetico, senza essere
accompagnato da moniti particolari, la pubblicazione di una meditazione,
pericolosa per psicotici e borderline, che gli specialisti propongono solo
a persone con un sé coeso, ma che talora in riunioni di gruppo,
extraterapeutiche e non d'ambito psicosintetico, viene propinata senza
filtri diagnostici e sotto la guida di non psicologi o non psichiatri. È
la meditazione di disidentificazione e autoidentificazione. Dice, a questo
proposito, Andrea Bocconi, terapeuta psicosintetista: "Introdurre
prematuramente la formula 'io ho un
corpo ma non sono il mio corpo' [tipica della meditazione di
disidentificazione] è sconsigliabile perché la rottura traumatica
dell'identificazione col corpo equivale allo smantellamento di una difesa
nevrotica. Ovvio che con le personalità schizoidi quest'esercizio va
proposto, eventualmente, con cautele particolari". In accordo con
l'intento di Bocconi, anche se non con i suoi dettagli scientifici, spingo
più in là questa prudenza, affermando che altrettanto pericolose a
livelli diversi devono ritenersi le formule "io non sono le mie
emozioni" e "io non sono i miei pensieri". Dopo tutto lo
sforzo che uno schizofrenico fa per cercare di "essere il suo
corpo" e lo sforzo che il borderline fa per "essere le sue
emozioni", c'è veramente da sentirsi, da quella meditazione,
ributtati indietro nella dispersione e nella frammentazione. 2
- Lo spettro della coscienza Si ha ragione di credere che la coscienza si
sviluppi per stadi e che questi stadi siano molti, ossia che lo spettro
della coscienza sia molto ampio e che possa esser percorso solo con
ordine. Dice Aurobindo: "L'evoluzione spirituale obbedisce ad una
logica di successivo dischiudersi; si può compiere un decisivo passo
importante solo quando il precedente passaggio è stato sufficientemente
conquistato: anche se certe fasi minori possono essere sorvolate da una
rapida e brusca ascensione, la consapevolezza deve tornare indietro
[ripetutamente] per riassicurarsi che il terreno sorvolato è stato
annesso con certezza alla nuova condizione. Una più rapida ed intensa
velocità dello sviluppo, che è del resto possibile, non elimina i
gradini o la necessità del loro progressivo superamento". Mi
rifarò, nel proseguire questa mia esposizione, ad alcuni autori (Welwood,
Wilber, Engler, Bonecchi, Pensa, Brown, ecc.) dei quali darò in
bibliografia qualche riferimento. La
psicologia occidentale, nelle sue teorie dei rapporti oggettuali e
dell'Io, e nella psicologia del sé (mi riferisco a Kouth), individua
alcuni stadi nella psicologia del profondo. Potremmo chiamarlo uno spettro
"basso" o del profondo. La psicologia orientale individua a sua
volta stadi anche nella psicologia delle vette (l'espressione è di
Maslow). Potremmo chiamarlo, questo, uno spettro "alto". Si
ritiene, da parte degli autori di cui sopra, che i tempi siano maturi per
tracciare uno spettro intero dello sviluppo della coscienza, integrando le
due visioni; per fortuna gli anni sessanta e settanta innescarono una
spinta culturale che rese possibile la formazione dell'esperienza
necessaria a questo scopo. Studenti e ricercatori di psicologia di Harward
e Cambridge ottennero, in quegli anni, borse di studio per recarsi ad
apprendere le psicologie orientali nei luoghi d'origine. Così partirono
per l'Oriente buddhista Golemann, Ram Dass, e tanti altri.
Qualcuno, affascinato, resterà in Tibet, in India, in Tailandia,
in Birmania. Altri torneranno nelle Università americane portando con sé
un tesoro fino ad allora poco conosciuto; e lì continueranno a meditare e
a insegnare meditazione seguendo gli insegnamenti dei loro maestri
orientali e cominceranno ad insegnare, allo stesso tempo, materie
convenzionali come le scienze umane seguendo il metodo scientifico tipico
di queste. Non sorprende perciò che la vastità della loro esperienza li
abbia portati desiderare di integrarla in unica visione a spettro intero,
e a consentire i primi interessanti risultati. Le loro ricerche sono per
lo più legate al Journal of
transpersonal psychology, ma ad essi possiamo riferirci anche
attraverso pubblicazioni organiche, che, ormai da un decennio, cominciano
ad essere tradotte anche in italiano. Risultato centrale di questo lavoro
è lo spectrum psychology la cui
paternità è da qualcuno attribuita a Ken Wilber, ma che annovera fra le
sue file molti nomi noti[1].
Ma anche pensatori orientali, che hanno compiuto studi in Occidente, come
Aurobindo, ebbero conoscenza e desiderio di pensare a tutto campo. Altri
modelli globali possono trovarsi nella Cabbala, in Gurdjieff e nel sufismo. Veniamo
allora ad una prima descrizione di questo spettro: uno spettro intero,
universale e invariante, di stadi di sviluppo, cui corrispondono patologie
qualitativamente distinte e, di conseguenza, altrettante terapie o
strumenti evolutivi; uno spettro la cui zona bassa è ben nota nella
psicologia occidentale e la cui fascia alta è conosciuta dalle discipline
meditative. Quello
che descriverò qui di seguito è il modello presentato da Wilber, Engler,
Brown nel volume Le trasformazioni
della coscienza edito da Ubaldini-Astrolabio. Essi dividono in tre
parti lo sviluppo della coscienza: prepersonale, personale e
transpersonale. Mentre le terapie occidentali s'impegnano a promuovere lo
sviluppo individuale dagli stadi prepersonali a quelli personali, la
meditazione orientale si propone di favorire il passaggio dal personale al
transpersonale. Lo stadio che per la psicoterapia occidentale costituisce
il punto d'arrivo, la normalità, è considerato dalla spiritualità
orientale un arresto dello sviluppo da cui sollevarsi, un punto da cui
partire. La normalità è considerata dalla spiritualità orientale una
sorta di normopatia. Nel
testo citato, Engler si occupa della zona bassa e mette in sintonia
"i tre livelli generali di sviluppo dei rapporti oggettuali
prepersonali con corrispondenti livelli di patologia: psicotico,
borderline e psiconevrotico". Si preoccupa poi di mettere in guardia
contro l'uso della meditazione negli stadi bassi. Dice Engler: "Con
le discipline della meditazione si trascende il normale senso del Sé
separato, ma il prerequisito evolutivo per ottenere questo risultato è
una psiche forte, matura, differenziata, insieme con una struttura del sé
ben integrata, con un senso di coesione, continuità e identità.
... si possono avere alcune gravi complicazioni psichiatriche
quando gli individui, il cui sviluppo prepersonale abbia subito un
notevole arresto, si danno a pratiche transpersonali o
contemplative". Dice poi Wilber: «Il problema della Psicologia
Transpersonale all'inizio fu che ebbe la tendenza a focalizzare
l'attenzione sulle "esperienze di picco". Così si venne a
creare una falsa concezione, secondo la quale tutto quello che era
"ego" era negativo e maligno e tutto quello che non era
"ego" era buono e divino. Qualunque cosa che non sia l'ego è
dio! Ma sappiamo che molti stati che non sono "ego" sono in
realtà un caos, sono incubi pre-egoici, pre-razionali, pre-personali».
Egli individua questa confusione fra l'assenza di sé prepersonale
(frammentazione) e l'assenza di sé transpersonale (anatta)
col termine "pre/trans fallacy".
Che è un po' come dire di non confondere l'illuminazione con la
schizofrenia o, in parole più povere, i santi (arahat)
con i matti. Infatti,
se possiamo concederci una breve digressione, si può notare un fatto
culturale tristemente frequente: che sono proprio le persone carenti di un
sé quelle che tendono più frequentemente a rifugiarsi nelle comunità
contemplative per razionalizzare il loro vuoto interiore. Scrive per
esempio Bonecchi: "Possiamo notare come spesso l'interesse per
spiritualità sia un alibi per nascondere conflitti psicologici non
risolti ... il lavoro spirituale non sostituisce il lavoro psicologico,
anzi può, occultando il problema, ritardare la sua attuazione. Ogni
parrocchia, ogni centro del Dharma, ogni luogo di meditazione presenta
tristi personaggi che hanno trovato lì il modo di non vivere pienamente,
accontentandosi di tenere sotto controllo in una istituzione le propria
sofferenza". Drammi che potrebbero essere evitati se prima
vi fosse stato un lavoro psicologico, che dovrebbe essere sempre
preliminare al lavoro spirituale. "Una seria psicoterapia, afferma
Corrado Pensa, è un sostegno utilissimo per chi intende affrontare
ritiri: e diventa, se stiamo male, particolarmente auspicabile, assai più
dei ritiri, i quali, anzi, in tale situazione hanno alte probabilità di
farci peggiorare". Certo in questi casi ci si riferisce più alla
meditazione di consapevolezza che alla meditazione di concentrazione. Ma
anche quest'ultima non è scevra di pericoli. E le scuole meditative più
avvertite lo sanno. Ricordo a questo proposito un curioso episodio che mi
riguarda. Quando io ricevetti l'insegnamento (l'iniziazione, la chiamano)
alla meditazione trascendentale, fui oggetto di un lungo interrogatorio.
Avrei poi anche dovuto sottoscrivere che ero sano di mente e che ... non
ero mai stato in psicoterapia! Quando seppero che vi ero stato per dieci
anni, ci fu un soprassalto rientrato a fatica. Dovetti spiegare che gli
psicoanalisti devono, tutti,
sottoporsi a questo training. L'insegnamento della meditazione infine
procedette, ma non sono certo ancora oggi di averli convinti del tutto. E
pensare che un'analisi riuscita è la più seria garanzia d'attitudine al
lavoro meditativo! La
psicologia occidentale porta dagli stadi pre-egoici sino all'Io, mentre il
buddhismo porta dall'Io al suo superamento. L'avere raggiunto un Io
strutturato e unitario è la precondizione necessaria per trascenderlo. È
necessario essere qualcuno, prima di riuscire ad essere nessuno. "Il
livello psicologico e quello religioso [leggi meditativo n.d.r.], sostiene
Pensa, non vanno contrapposti bensì collocati in successione". Pare
che in Oriente non ci si sia mai posti questo problema perché (lo
sostiene Wilber) i maestri buddhisti hanno sempre avuto a che fare con
persone adulte, in possesso di un "Io" più o meno integro. Non
saprei che dire su questo punto, ma è certo che in Occidente il problema
ce lo dobbiamo porre. Del resto sono molte le testimonianze sulla diversità
di apprendimento degli allievi delle due culture. Ma,
finita la digressione, vediamo di riprendere i tre contributi del testo. Engler afferma che da un lato il suo lavoro clinico
su borderline e psicotici lo ha convinto "dell'importanza vitale
dello sviluppo di un senso di continuità, dell'identità, del procedere
dell'esistenza". Dall'altro l'esperienza della meditazione lo ha
convinto "che l'attaccamento al senso di continuità personale e
dell'identità del sé porta allo scontento". Non la continuità
dunque (che può essere goduta pienamente finché c'è), ma l'attaccamento
al senso di continuità costituisce il motivo della sofferenza.
E aggiunge: "Come clinico, faccio quel che posso per aiutare i
pazienti [delle fasce basse] a sviluppare il senso di una coesione,
un'unità e una continuità interiori, la cui tragica mancanza ha
conseguenze fatali. Come maestro di meditazione, lavoro con altrettanta
intensità per aiutare i discepoli a non farsi ingannare dall'illusione
percettiva della continuità" che li porterebbe a soffrire ancora di
più dei sentimenti di perdita, non solo in occasione della perdita di
continuità degli oggetti (in sanscrito anicca), ma anche della perdita della continuità personale (in
sanscrito anatta). Perdita di
continuità, in questo secondo caso, non solo nell'occasione della
malattia e della morte, ma anche nel caso dei necessari passaggi di fase
esistenziale. Dunque questo distacco, o non attaccamento, risulterebbe ben
utile, se fosse possibile sentirlo senza danni, anche nelle fasce basse, là
dove, più che altrove, non si riesce ad abbandonare gli stati attuai del
Sé. Dice Engler: "Ogni crescita psicologica è il risultato della
capacità di rinunciare ai legami infantili, ormai inutili, con gli
oggetti e di abbandonare o modificare le rappresentazioni del sé
superate, divenute fonte di limitazione o disadattamento". E qui lo
psicologo occidentale ben distingue fra il vivere pienamente la fase e il
non attaccarsi ad essa. Questo lo può aiutare a capire meglio il concetto
di anatta, o non Io, o non Sé.
Non si sta dunque demonizzando una fase del sé o il sé medesimo, ma solo
l'attaccamento ad esso. Per gli orientali non si può desiderare la
permanenza in una fase, perché significherebbe uno stallo nel percorso
spirituale. Per ragioni evolutive non può, non deve, esistere la
continuità permanente di una fase; il processo di sviluppo dev'essere
perenne. Nelle prime tre forme storiche della psicologia occidentale
(comportamentale, dinamica, umanistica), poiché non ci si pone un
obbiettivo transpersonale, si ha l'idea che il Sé possa dirsi pago di
aver raggiunto un certo stadio di sviluppo e, da quel punto in poi, possa
desiderare una sorta di stabilità e di riposo. Ma già nella quarta forza
della psicologia, quella transpersonale (Maslow, Assagioli, il primo
Wilber, ecc.), il Sé personale, coeso, unito, che rappresenta il culmine
dello sviluppo per le prime tre forme della psicologia, riprende la sua
scalata e s'incammina verso le vette dello Spirito, verso il Sé
tranpersonale.
[1] Nata n [1]
Nata
negli USA alla fine degli anni ’60 su iniziativa di Abraham
Maslow e di altri psicologi dell’area umanistica, la psicologia
transpersonale si è sviluppata attraverso l’azione del Journal of Transpersonal Psychology e di varie organizzazioni, quali
la American Association for
Transpersonal Psychology (ATP),
l’Institute of Transpersonal
Psychology (ITP) e la International
Transpersonal Association (ITA). I principali esponenti sono Ken
Wilber e Stanislav Grof,
con Roger Walsh, Frances
Vaughan, Claudio
Naranjo, Charles
Tart, James Fadiman, Pierre Weil e altri. In
Europa il movimento è coordinato dalla European
Transpersonal Association (Eurotas) e dalla European Transpersonal Psychology Association (ETPA),
coordinata da Laura
Boggio Gilot e da Marc-Alain
Descamps.
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