Scienza e ottuplice sentiero
Scienza e ottuplice sentiero
Il metodo delle scienze umane
Il sentiero della liberazione dal dolore
Tutta la dottrina buddhista potrebbe ridursi, all’atto pratico per noi occidentali di oggi, a una manciata di foglie,
ossia a pochi concetti necessari e sufficienti.
L’osservazione dei mali del mondo suggerisce che gran parte di questi sia dovuto al Sankhara, ossia al fatto che siamo
condizionati
e che sono esistiti, e/o ancora esistono, fattori condizionanti di cui dobbiamo liberarci in quanto produttori di veri
e propri veleni,
quali l’attaccamento, l’avversione e l'ignoranza della realtà delle cose. Siamo convinti di essere caratterizzati da peso,
materia,
sensazioni, pensieri, emozioni, insomma di essere fatti di corpo e mente, e questi siano il nostro “io”. Siamo inoltre
convinti che essi siano
permanenti. Non solo: crediamo che anche le cose del mondo esterno siano permanenti, soprattutto i miei possessi,
il cosiddetto “mio”, durevole e nostro.
Questi tre veleni (l’attaccamento alle cose piacevoli, all’io e al mio, l’avversione per le cose sgradite, l’ignoranza
dell’impermanenza
e dell’inconsistenza) producono dolore, come ci dicono le quattro nobili verità. Le quali peraltro ci assicurano che
possiamo liberarci
dal dolore e ci insegnano il cammino per farlo.
Tale cammino è un sentiero a otto gradini o passi, illuminato da tre grandi astri, tutti necessari al cammino:
la saggezza, la virtù,
la pratica. Trattiamoli separatamente, e nell’ordine suggerito dalla dottrina buddista, ricordando però che l’ordine
in cui un viandante
li può apprendere e fare propri non è rigidamente fissato e può essere adattato alla propria costituzione e al proprio
registro culturale.
Essi si generano l’un l’altro in modo circolare e scegliere prima l’uno o l’altro può esser lasciato alle attitudini
personali.
A - L’acquisizione di Panna (in lingua pali) o Prajna (in sanscrito), o saggezza, richiede due apprendimenti:
1 – la retta visione delle cose: vedere chiaramente come sono le cose (ossia dolorose, impermanenti, inconsistenti)
e agire di conseguenza.
2 - rette intenzioni, pensieri, decisioni, atteggiamenti, giusti propositi, e loro corretta risoluzione. Spesso non
si è consci
dei motivi nascosti che ci muovono. Questi potrebbero essere egoisti e indegni. Dobbiamo chiarire a noi stessi i motivi
delle nostre
azioni prima di porle in essere. Un’intenzione retta ha almeno tre caratteristiche: liberarsi dall’attaccamento, dalla
collera,
dall’ignoranza e dall'abitudine di danneggiare gli altri. Essi sono veleni e solo se ce ne libereremo, anche i
successivi tre
gradini (il corretto parlare, agire, sostentarsi) saranno possibili.
B - Sila, la virtù, richiede la presenza di tre condizioni:
3 - retta parola, o astensione dalla menzogna, dalla calunnia, dal parlare ozioso. Adottare una parola costruttiva e
utile, che possa
giovare a se stessi e ad altri.
4 - retta azione, ossia avere compassione verso ogni vivente. Non nuocere ad alcuno per superficialità e avventatezza,
e nemmeno
per solerzia. Non aver bisogno di dominare o di essere dominati.
5 - retti mezzi di sussistenza: né troppa ricchezza, né troppa povertà. Modo appropriato di guadagnarsi da vivere.
Evitare i guai.
Imparare a riconoscerli da lontano. Fare buon uso del tempo, lavorare con amore, conservarsi in buona salute.
Vi rientrano sonno,
sport, alimentazione, armonia con la propria costituzione individuale.
C - La pratica, o Samadhi, è principalmente rivolta alla “meditazione di consapevolezza”. La pratica affronta tre
gradini:
6 - retto sforzo spirituale: fare sì che la fatica nel coltivare il bene ed evitare il male non sia eccessiva,
ma nemmeno scarsa.
Che ci sia la giusta manutenzione del nostro spirito.
7 - retta consapevolezza: evitare la distrazione e la sbadataggine, attenzione alle cose che giungono alla coscienza,
tenendo
presente che la loro percezione può aprire la porta al desiderio e quindi al dolore se divide le cose in buone e
cattive.
8 - retta meditazione: i sette precedenti gradini contribuiscono a rendere facile la meditazione. A sua volta la
meditazione
contribuisce a rendere naturale la pratica dei gradini precedenti. L’antica tradizione si serve della meditazione
praticata
dal Buddha ed è chiamata anapanasati. Questa consiste nella osservazione successiva del respiro, del corpo, delle
sensazioni,
della mente, del Dhamma. L’oggetto dhamma è di vasto e plurimo significato. Esso significa almeno quattro cose:
la realtà
esterna e interna, la dottrina del Buddha o legge, l’armonia, i benefici derivante dal possesso della saggezza,
dall’esercizio
della virtù, dalla pratica della meditazione.
La continua pratica dell’ottuplice sentiero ci renderà edotti che il mondo è impermanente, inconsistente, insoddisfacente,
vuoto,
e che è inutile provare avversione per questo fatto. Per evitare il dolore è importante accettarlo così com’è, senza
giudicare,
senza argomentare. Il mondo non è né bene né male, è così e basta. Questo esser così, che in lingua pali vien detto
tathata.
Questa convinzione, allorché sarà divenuta stabile e definitiva che renderà liberi dallo attaccamento all’io/mio,
dall’avversione,
dall’illusione della permanenza e della consistenza. Allora la nostra esistenza non sarà più condizionata e avremo
raggiunto
la capacità di lasciar essere le cose, le persone, gli eventi, così come sono.
Conclusioni
Questa conoscenza e accettazione di impermanenza, inconsistenza, insoddisfazione, vacuità e quiddità (essenza), annulla
gli effetti
del Sankhara ed è il punto più alto del buddismo e anche della Psicodialettica.