Sezione  iniziatica

del

Centro internazionale di Psicodialettica


Fondatore: Luciano Rossi 

Responsabile  del  sito: Luciano Rossi 


  

Il terzo viaggio



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Il terzo viaggio
di Luciano Rossi

Tanto ha viaggiato, la coscienza, per giungere infine a questo “esser semplicemente così com’è” o coscienza finale. Da principio ha raggiunto un primo traguardo, detto normalità e l’ha sentita per un po’ la sua casa. Ha poi ripreso il viaggio, approdando e soggiornando presso la sintesi, di nuovo sentendosi appagata e piena di sé.

Nel primo viaggio (http://www.psicodialettica.it/ilsentieroquinario.htm) abbiamo preso consapevolezza che l'io è uno spettatore a contatto (nel passo tre) con i bisogni, i desideri, le reazioni. Nel secondo viaggio poi (https://psicodialettica.wordpress.com/2017/03/01/il-secondo-viaggio-psicodialettico-la-lotta-con-i-genitori-mitici-interni/) (nel passo otto) siamo venuti a contatto con i genitori interni e abbiamo cercato e trovato una integrazione con essi al passo dieci, così come eravamo scesi a patti con bisogni, desideri, reazioni al passo cinque. Questo però non è ancora sufficiente. La sofferenza potrebbe essere ancora dietro l'angolo.

Siamo attaccati al nostro corpo, ai nostri beni. Abbiamo avversione per l'infinità di ostacoli che l'esistenza ci fa incontrare. Siamo identificati con i beni e i possessi: non possiamo perderli senza sentire di perdere noi stessi. Desideriamo la permanenza delle sensazioni e delle emozioni belle e l'allontanamento delle brutte.

Ci siamo detti: io purtroppo sono anche desiderio, bisogno, reazione; io purtroppo sono anche i genitori mitici interni. Ora dobbiamo dirci: io purtroppo sono ancora identificato con le mie sensazioni, pensieri, emozioni... col corpo, con la mente. Esiste un fiume di pensieri, di sensazioni, di emozioni, di eventi che ci fan vivere col tumulto del corpo, del cuore e della mente.

Esiste il fiume delle paure: possiamo perdere quello che di bello abbiamo. Esiste il fiume della rabbie: non riusciamo a scrollarci di dosso chi ci opprime, ci frustra. Ci troviamo dentro il fiume. Una soluzione esiste: uscirne, andarsi a sedere sulla riva, differenziarsi dal fiume. Uscire dal fiume degli attaccamenti, delle avversioni.

Come fare? Occorre seguire un metodo graduale: cominciare a distaccarsi dalle cose più semplici, e gradualmente affrontare compiti maggiori. Prima ci togliamo dal fiume dei respiri, poi delle sensazioni, dei pensieri, delle emozioni, ecc. Ci togliamo dalla corrente e ci sediamo sulla riva a osservarla in un certo modo potremo disidentificarci da lei.

Di nuovo si tratta di osservare, come abbiamo fatto nel terzo e nell’ottavo passo. Nella disidentificazione del terzo passo avevamo detto: io non sono il mio respiro, il mio corpo, le mie sensazioni, il miei pensieri. Tutto quello che passa sul fiume lo lasciamo arrivare, lo lasciamo essere davanti, lo lasciamo andare. Noi siamo diversi da lui, distanti da lui. Registriamo il suo "esser così" e basta. Con equanimità, distacco, empatia, disidentità, semplicità, annotazione, innocenza.

Si forma così la consapevolezza di un non-io impermanente, separato dall’io spettatore e osservatore. Un non-io che non è né desiderato né indesiderato, ma che è così com’è. La sua presenza, o assenza, è la presenza o l’assenza di un disidentico, a cui non siamo né attaccati né avversi. La condizione finale dell’io (coscienza finale) è quella del testimone che lascia essere la realtà così com’è.

Qui il disidentico viene lasciato essere così com’è. Questa è la integrazione nel terzo viaggio: lasciar vivere, accanto a noi, desideri e avversioni senza aderirvi. In fondo anche RS e genitori mitici venivano lasciati essere. Disidentificazione in Psicodialettica è anche vicinanza e accettazione che il disidentico ci sia. Soffermiamoci su questi ultimi aspetti: il terzo viaggio.

Questo terzo viaggio è il sentiero della liberazione dal dolore. Il monaco Buddhadasa suggerisce che tutta la dottrina buddhista potrebbe ridursi, all’atto pratico, a una manciata di foglie ossia a poche indicazioni o insegnamenti. Proviamo a seguire il suo suggerimento e condensiamo la pratica buddhista in una breve sinossi. Ai fini psicodialettici basta questo poco.

L’osservazione dei mali del mondo suggerisce che gran parte di questi mali è dovuto al Sankhara, ossia al fatto che gli esseri sono stati condizionati e che sono esistiti, o ancora esistono, fattori condizionanti di cui dobbiamo liberarci in quanto produttori di veri a propri veleni, quali l’attaccamento, l’avversione e l’ignoranza della reale natura delle cose.

A causa del condizionamento siamo convinti di essere caratterizzati da peso, materia, sensazioni, pensieri, emozioni, insomma corpo e mente, e questi siano il nostro “io”. Siamo inoltre convinti che essi siano permanenti e che, non solo noi, ma anche le cose del mondo esterno siano impermanenti, soprattutto siano nostri possessi, il cosiddetto “mio”.

Il sankhara è contemporaneamente tre cose: la causa, l’effetto e l’operazione del condizionamento. Tutto parte da lì, da queste tre cose: fattori condizionanti, operazioni di condizionamento e il fatto di essere noi oggetti condizionati. Il sankhara produce tre veleni: raga, dosa e avijja, ossia l’attaccamento alle cose piacevoli, all’io e al mio, l’avversione verso le cose sgradite, e l’ignoranza, ossia il non sapere che le cose sono impermanenti e inconsistenti.

Questi veleni producono il dolore, come ci dicono le quattro nobili verità. Le quali peraltro ci assicurano che è possibile liberarsi dal dolore e ci insegnano il cammino della liberazione. Tale cammino è un sentiero a otto gradini, illuminato da tre grandi astri, tutti necessari al cammino: la saggezza, la virtù, la pratica. Trattiamoli separatamente, e nell’ordine suggerito dalla dottrina buddhista, ricordando però che l’ordine in cui un praticante li può apprendere e fare propri non è rigidamente fissato e può essere adattato alla propria costituzione e al proprio registro culturale. Essi si generano l’un l’altro in modo circolare e scegliere prima l’uno o l’altro può esser lasciato alle attitudini personali.

A – L’acquisizione di Panna (in lingua pali) o Prajna (in sanscrito), la saggezza, richiede due passi:
1 - retta visione delle cose: vedere chiaramente come sono le cose (ossia dolorose, impermanenti, inconsistenti) e agire di conseguenza.
2 - rette intenzioni, pensieri, decisioni, atteggiamenti, giusti propositi, corretta risoluzione. Spesso non si è consci dei motivi nascosti che ci muovono. Questi potrebbero essere egoistici e indegni. Si deve chiarire dunque a se stessi i motivi delle nostre azioni prima di porle in essere. Una intenzione retta ha almeno tre caratteristiche: liberarsi dall’attaccamento, dalla collera, dall’ignoranza e dall’abitudine di danneggiare gli altri. Essi sono veleni e solo se ce ne libereremo, anche i prossimi tre gradini (il corretto parlare, agire, sostentarsi) saranno possibili.

B - Sila, la virtù, richiede la presenza di tre condizioni:
3 - retta parola, o astensione dalla menzogna, dalla calunnia, dal parlare ozioso. Adottare una parola costruttiva e utile, che possa giovare a se stessi e ad altri.
4 - retta azione, ossia avere compassione verso ogni vivente. Non mai nuocere ad alcuno per superficialità e avventatezza, e nemmeno per solerzia. Non aver bisogno di dominare o di essere dominati.
5 - retti mezzi di sussistenza: né troppa ricchezza né troppa povertà . Modo appropriato di guadagnarsi da vivere. Evitare i guai. Imparare a riconoscerli da lontano. Fare buon uso del tempo, lavorare con amore, conservarsi in buona salute. Vi rientrano sonno, sport, alimentazione, armonia con la propria costituzione individuale.

C - La pratica, o Samadhi. È principalmente rivolta alla meditazione di consapevolezza. Affronta tre gradini:
6 - retto sforzo spirituale: che la fatica nel coltivare il bene ed evitare il male non sia eccessiva, ma nemmeno scarsa. Che ci sia la giusta manutenzione del nostro spirito.
7 - retta consapevolezza: evitare la distrazione e la sbadataggine, attenzione alle cose che giungono alla coscienza, tenendo presente che la loro percezione può aprire la porta al desiderio e quindi al dolore se divide le cose in buone o cattive.
8 - retta meditazione: i sette precedenti gradini contribuiscono a rendere facile la meditazione. A sua volta la meditazione contribuisce a rendere naturale la pratica dei gradini precedenti. L’antica tradizione si serve della meditazione praticata dal Buddha ed è chiamata anapanasati. Questa consiste nella osservazione successiva del respiro, del corpo, delle sensazioni, della mente, del Dhamma. L’oggetto dhamma è di vasto e plurimo significato. Esso significa almeno quattro cose: la realtà esterna e interna, la dottrina del Buddha o legge, l’armonia, i benefici derivanti dal possesso della saggezza, dall’esercizio della virtù, dalla pratica della meditazione.

La continua pratica dell’ottuplice sentiero ci renderà edotti che il mondo è impermanente, inconsistente, insoddisfacente, vuoto, e che è inutile provare avversione per questo fatto. Il mondo occorrerà accettarlo così com’è.

Dobbiamo riporre la più assoluta attenzione a questo “così com’è”, detto tathata in lingua pali, thusness in lingua inglese, quiddità in italiano. È il nostro punto d’arrivo. Questa convinzione, allorché sarà divenuta stabile e definitiva, ci renderà vuoti, liberi dall’attaccamento all’io/mio, dall’avversione, dall’illusione della permanenza e della consistenza. Allora la nostra esistenza non sarà più condizionata e avremo raggiunto la capacità di lasciar essere le cose, le persone, gli eventi, così come sono.

Questa conoscenza, e accettazione, di impermanenza, inconsistenza, insoddisfazione, vacuità e quiddità, annulla gli effetti del sankhara ed è il punto più alto del buddismo e anche della Psicodialettica. Ma, se leggerete soltanto e non praticherete, sarete come un pastore che alla sera conta le pecore degli altri. Se non praticherete non percorrerete il triangolo pratica/conoscenza/virtù e non capirete nemmeno questo scritto.

Solo quest’ultimo, La coscienza “tre”, è lo stato psicodialettico. Ciò che l’ha preceduto era un viaggio non uno stato; il viaggio verso la Psicodialettica. Percorso importantissimo, perché è il viaggio stesso della vita. Ora però, giunti alla fine, la meta l’abbiamo vista, raggiunta, toccata. La Psicodialettica, in quanto stato, è solo questo. Quanto lo precede, le tappe del viaggio, erano affette da incompletezza, da imperfezione. Solo a questo punto, con questa definizione finale, il sistema viene consegnato alla storia. Ora sa che la stanza in cui deve vivere è questa. La perderà e ritroverà molte volte, ma la ricerca senza fine, il viaggio permanente, non avrà ora altra facies che questa: camminare per restare qui, per contrastare il tapis roulant che ti riporta indietro. Questo sono le mie conclusioni, il mio testamento filosofico. Altro sarebbe di altri e non potrebbe avere questo nome. Il viandante che vorrà vivere questo stato camminerà per arrivare alla vista di questo oggetto che sentirà in lui così luminoso, così difficile da trattenere e continuerà a sgrossare questo oggetto. Qualsiasi oltre, sia razionale, sia reale, non lo immagino, e se ci fosse dovrebbe avere altro nome, più alto. Non Psicodialettica.
Ma leggiamo dal volume "Di alcuni passi sulla via psicodialettica", di Laura Briozzo e Angelina de Luca, alcune riflessioni a partire da pg.67



3. Verso il terzo viaggio

L'ulteriore contributo della Psicodialettica, che porta all'uomo disidentificato, è mutuato dalle tecniche di psicologia orientale con adattamenti al "percorso psico-evolutivo" proposto da questa corrente filosofica.

È il terzo sacrificio. Dopo aver sacrificato il padre (uniformità sociale) e la madre (natura), per trovare il vero Sé, si intraprende ora il lavoro del sacrificio del figlio. Il figlio deve abbandonare ogni attaccamento ai suoi oggetti buoni e ogni avversione agli oggetti cattivi.

Nella accettazione dell’impermanenza dei beni ci sarà certo anche dolore per la rinuncia che ne consegue, ma sarà un dolore scelto e accettato e non avrà più la natura della insoddisfazione e del tormento. Non rinunciamo al godimento dei beni, finché restano. Ri-nunciamo al loro possesso. Ci prepariamo alla loro dipartita.

Questo distacco rende la conquista del Non-io ancora più piena e fruibile dall’Io. La relazione distaccata (fase 15) è più rassicurante che non la precedente relazione illusoriamente unitaria (fase 10). Entrambe sono conciliate, ma la precedente è molto più fragile. L’identificazione ha la fragilità dell'illusione e dell'errore. Nessuna conquista buona è permanente. Nessuna presenza cattiva se ne andrà subito.

Nel processo completo si realizza dunque per prima cosa la presa d’atto e la trasformazione del conflitto sociale, poi la conquista del sé junghiano, poi si lascia andare (o restare) la parte Non-io. Solo per l'uomo disidentificato la morte di una parte del sé non fa più paura o la presenza sgradevole non reca tormento.

L’Io lascia che il Non-io (tanto buono che cattivo) rimanga presso di lui finché sarà dato dall'«esser così» delle cose. Il sé deve prima costituirsi e poi esser riconosciuto come portatore di una parte impermanente. Resteranno caratteristiche dell’Io solo la facoltà osservativa e volitiva che, pur lasciate libere, restano spontaneamente accanto al soggetto, perché sono l'Io stesso. Questo Io è dunque permanente. Solo i suoi possessi, le sue conquiste, non lo sono. L'eroe è disponibile a perdere le sue conquiste quando sarà il momento. Nell'identità finale e distinta fra soggetto e oggetto, il soggetto-figlio, divenuto osservatore, accetta l'esser così delle cose.

La vera conquista finale non è dunque il sé, ma la capacità di accettare la decisione delle cose: restarsene o andare. La conquista vera è la capacità di considerare il Non-io qualcosa che è "semplicemente così". "Rinunciando l'uomo al possesso di se stesso e del mondo s'inserisce nel divenire universale e così supera il limite della sua esistenza temporale", dice Silvia Montefoschi. In altre parole: mai nato, mai morto, flusso continuo, momento di temporanea visibilità e opacità.

Come si conquista questo "esser così"?

Si inizia rinunciando a valutare come permanenti il nostro Non-io (anatta) e i nostri possessi (buoni e cattivi). "Il Non-io e il mio" sono senza attributi favorevoli o sfavorevoli. L'osservatore allenato li guarda con equanimità e semplicità. Non si chiede più se sono belli o buoni, perché siano lì o perché siano così, se permarranno oppure no.

La fisica quantistica ci dice che il Non-io è uno sciame impermanente di particelle. Al momento del trapasso l'alveare non permarrà nella precedente configurazione; sciamerà... ma sciamerà soltanto, senza sparire. Noi dobbiamo essere preparati a lasciarlo andare. Non chiediamoci nemmeno se l'alveare sciamato sarà fatto di particelle capaci di osservare, ossia se l'Io osservante è fatto anche lui di particelle. Il desiderare la permanenza porta al dolore tormentoso.

Ma lasciar andare attaccamento e avversione al Non-io e rinunciare all'illusione di una sua permanenza nella forma attuale richie-dono una lunga elaborazione, allenamento, perseveranza.

Però è questo il nostro vero obbiettivo.






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