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TITOLO
di Luciano Rossi
Prefazione generale
Chi si inoltra nei sentieri meno frequentati dalla società sa che la saggezza, in quelle vie, emerge più dal silenzio che non dalle parole.
Ma pur percorrendo vie solitarie prima o poi incontra altri che cercano le stesse cose. Anche i loro sentieri si inoltrano nel bosco e portano
con percorsi radiali ad un unico spiazzo centrale, a cui convergono i viaggi personali di questi viandanti.
Essi sanno che tali incontri fortunati accadono solo a chi ha scelto di percorrere nella sua vita un sentiero poco frequentato,
alla fine del quale incontrerà altri viandanti, come lui solitari, che si sono dati, quasi inconsapevolmente,
convegno nella radura nel mezzo del bosco. Al suo centro è acceso un fuoco simbolico.
Quando essi siedono in cerchio attorno al fuoco, conoscono già le regole iniziatiche che li hanno fatti
giungere sin lì, regole che hanno scoperto lungo il cammino, ognuno per conto proprio, e adottato, volontariamente e spontaneamente,
come disciplina liberamente accettata durante la loro esperienza solitaria.
Regole concernenti il silenzio, la concentrazione, l’immobilità, il raccoglimento, l’attesa, l’ascolto,
il giusto sforzo, la consapevolezza, la presenza, l’attenzione.
Ognuno, sul sentiero solitario, ha intuito la serenità che nasce dall'abbandonare lungo il cammino attaccamenti e avversioni,
per giungere all'incontro dotato ormai della capacità di vivere con gli altri in tolleranza, “attorno al fuoco” dei bivacchi e delle favole.
Tutti i viandanti credono che vi sia una luce sapienziale in ognuno di loro e che quella sia la via iniziatica per “raggiungerla” e liberarla.
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Scritti Iniziatici
Scritti Sapienziali
Scritti sul Sacro
Prefazione agli Scritti iniziatici
Se rifletteremo che le nostre parole sono spesso vuote, se penseremo che i nostri intenti non sono mai messi
in pratica, che alle nostre letture non corrisponde mai esperienza alcuna, allora il nostro fine, il nostro futuro,
sarà chiarito. E non potrà che essere: praticare "davvero".
Ci siamo chiesti se si è mai compreso quanto possa essere profonda e avanzata la nostra Opera di trasformazione?
Troppo spesso si è detto (talora anche da parte dei maestri): lavora, conosci te stesso. Ma troppo poco si è detto come si fa a farlo.
Aderire ad un impegno di trasformazione, alchemico e psicodialettico, iniziatico e gnostico,
significa anche voler scoprire il "cammino pratico" nelle sue parti elementari e mettere a punto una personale dettagliata
"ingegneria dello spirito". Un progetto esecutivo con tutti i particolari.
Questo sappiamo che, in generale, non si fa o non si fa a sufficienza. Per lo più si studia, si parla, ma non si sperimenta.
Oppure si dà retta, sì, anche a maestri veri, ma lo si fa supinamente, dimenticando che l'unica definitiva autorità è la propria
esperienza attuata, dimenticando che ognuno è Artifex sui, artefice di sé stesso.
Siamo all'opera per realizzare una prassi, dove per noi prassi è "esperienza", è carne che realizza il verbo. Esperienza
che è innanzi tutto meditazione
di consapevolezza e comportamento effettivo, che, soli, possono portare alla tolleranza, alla conoscenza di sé, alla virtù.
Del resto questo altro non è che il triangolo degli otto passi buddista: tre di gradini di virtù, due di conoscenza, tre di pratica.
E' opportuno chiarire che l'assunzione di tale progetto non prelude né ad una struttura organizzata, né ad un movimento.
Tuttavia un'esperienza comunitaria è preziosa perché forma e mette alla prova la tolleranza. L'altro che incontro, pur se iniziato,
è molto diverso da me.
In una esperienza comunitaria ognuno dona silenziosamente il suo lavorare agli altri e fa i conti con la differenza inevitabile
fra individuo e individuo.
Vuoi che la provenienza della pratica di ciascuno sia veda o buddhista, sufi o cristiana, ebraica o mussulmana,
la pluralità culturale impegna alla tolleranza assoluta della pratica altrui.
In realtà i vari indirizzi iniziatici (cristiano, muratorio, cavalleresco, buddhista, ecc.) poco hanno a che fare con la
Psicodialettica, se no come modelli da adottare nella parte del lavoro individuale, personale. L'altro da sé è presente
ma non in modo organizzato.
Per noi l'altro è colui che incontriamo per caso ogni giorno, colui che ci serve per allenare la tolleranza, perché ci ricordiamo
che la pietra è la sua, che si caverà dalla pietra come crede e se crede. Io vedo l'altro sullo sfondo ma il mio occhio lo lascia libero
e resta incollato alla punta dello scalpello.
I nostri 15 passi non hanno, nelle intenzioni, nulla di segreto o di misterico. Eppure non sono del tutto essoterici nelle conclusioni
nel senso che non basta dirle per farle comprendere. non potranno essere compresi senza il percorso personale. Occorre provare
per conoscere. La ricetta non può dire il sapore della minestra.
Solo coloro che hanno già finito il percorso ponno scambievolmente sentire che anche l'altro sa. Il cosa egli sa non è dicibile,
non appartiene alle parole, è postverbale.
Solo per questo ci occupiamo di segreti e di misteri. Non perché vogliamo tacere, ma perché non sappiamo parlare.
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Platone, Agostino, Jung, Psicodialettica
Alchimia, Jung, Psicodialettica
Sulla tolleranza. Da Locke a Gurdjeff
La libera muratoria. Un'occasione sprecata
Platone, Agostino, Jung, Psicodialettica
Jung si sofferma alquanto sul fatto che in Platone si dà un'enorme importanza agli archetipi, idee metafisiche,
«paradigmi» o modelli, mentre
gli oggetti reali sono trattati alla stregua di semplici copie o ombre di questi modelli ideali. Nella filosofia medievale,
con Agostino e i suoi seguaci – dal quale Jung dice di aver preso l'idea di archetipo – si seguono ancora in parte le orme di Platone.
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Alchimia, Jung, Psicodialettica
La storia dell'Alchimia è percorsa tanto da pochi appassionati e seri studiosi (pensiamo solo che la presero sul
serio Tommaso d'Aquino, Robert Boyle e Isacco Newton) quanto da molti abili e avidi cialtroni.
Protochimica e spiritualità insieme, l'Alchimia ha conosciuto fasi successive. L'antico mito delle nozze mistiche (hieròs gamos)
suggerisce la via ad una chimica primordiale e quest'ultima Jung la ritrova nei meccanismi psichici dei suoi pazienti.
Se un mito antico portò alla protochimica, la protochimica portò ad un mito moderno di altre nozze: quelle fra
coscienza e inconscio. Di Jung e anche il nostro. In successione "mito, scienza, mito" dunque. La trasmutazione
dei metalli, la ricerca della quinta essenza o dell'elisir di lunga vita, misteriche ricette di oro liquido privo
di feccia metallica, tutte le vie chiedevano trasformazione, grande Opera, per non fermarsi al già dato, per giungere
all'uomo nuovo. Tuttavia in quel loro vano agitarsi, in quel ridicolo mistero sotterraneo, nascondimento del nulla,
essi erano guidati da un disegno di cui erano del tutto inconsapevoli: cercare di estrarre da quel sé stessi che
erano, miscela caotica e nera, un "individuo" migliore. Il tutto attraverso un processo di individuazione che non
intuivano con chiarezza, ma sentivano svolgersi in loro, e che li costringeva a continuamente solvere (dividere)
e coagulare (riunire) due parti che si confrontavano.
Jung al contrario vede con chiarezza in sé e nei suoi pazienti quali sono queste due forze, questi due enti. Dice infatti Jung:
"Se la Coniunctio rappresenta un'immagine capitale per l'alchimia - e la sua importanza pratica è stata confermata dagli
sviluppi successivi - le spetta un corrispondente valore psichico essa svolge infatti ai fini della conoscenza dell'oscuro
mondo psichico interiore lo stesso ruolo che ha svolto in rapporto all'imperscrutabile vita della materia. Anzi, non avrebbe
mai dispiegato una tale efficacia nel mondo materiale se non avesse posseduto già prima un potere fascinatore e, grazie
ad esso, non avesse continuato a richiamare su di sé la mente del ricercatore. La Conunctio è un'immagine a priori che
occupa da sempre una posizione eminente nell'evoluzione spirituale dell'uomo".
Gli alchimisti in laboratori pieni di alambicchi facevano, con oggetti materiali, la stessa cosa che Jung fa con gli
oggetti psichici. Come il piombo del filosofo non vuol restare piombo ma diventare oro, così Jung non vuol restare quello che è, un dato
iniziale, un semplice “questo”. Ma del resto già Dorneus nel XVI secolo intuiva che alchimia non era solo opera
materiale. Così diceva: “Trasformate voi stessi in pietre filosofali viventi”.
L'oro che gli alchimisti miravano ad ottenere, senza saperlo, tramite la trasmutazione, non era semplicemente
un metallo, ma oro filosofico. In realtà, secondo Jung, alla base dell'Opera non c'era la materia prima,
ma il contenuto psichico dell'alchimista.
Gli ultimi grandi scritti, ben cinque volumi, Jung li dedica all'alchimia, che per lui rappresenta la nuova Gnosi del Rinascimento.
I titoli sono Psicologia e alchimia (del 1944); Psicologia del transfert (del 1946); Saggi sull'alchimia (del 1948);
Mysterium Coniunctionis (due volumi) (del 1956).
Anche la Psicodialettica, strutturata com'è col suo schema rombico fatto di tre fasi e due movimenti, non può
non avere interesse per l’Alchimia, dato che il suo schema quinario ricalca quello dell’antica ricerca alchemica dell’oro
dei filosofi. Le due "Negazioni" della Psicodialettica corrispondono infatti ai due movimenti solve et coagula
dell’Alchimia. In entrambi i casi inoltre si tratta della separazione di due enti mescolati nel caos e della successiva
riconciliazione nella chiarezza della distinzione. Per entrambe le tre fasi sono: unità confusa, dualità, unità
nella distinzione.
Riassumendo, mentre nella ricerca alchemica il processo era:
piombo (materia nera) – solve – confronta i componenti e trasforma o trasmuta – coagula – oro o pietra filosofale.
In Psicodialettica il processo d’individuazione (1-2-1) è:
tesi – prima negazione – antitesi coscienza/inconscio – seconda negazione – sintesi.
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Sulla tolleranza. Da Locke a Gurdjieff
Abbiamo scritto altrove su questa pagina che, "tutto teso al sereno lavoro su di sé, alla tranquilla opera di
autoliberazione dal materiale grezzo che lo imprigiona e rallenta, l’Artifex
sui ha l’occhio fisso solo alla punta del suo scalpello.
Sente, è vero, attorno a sé il fervore dell’Opera dei compagni intenti
alla loro pietra, ma non si distrae, non commenta, non li corregge. Neppure
per un attimo cessa di guardare l’Opera sua".
L'Artifex è il nostro logo, esempio per tutti noi, degno della nostra ammirazione. Infatti come fa lui,
anche i suoi compagni rispettano le sue idee e la sua opera.
Rispettano il suo modo di fare e di pensare, come lui rispetta la loro. È questa che si chiama tolleranza.
A ognuno è stato raccomandato di non correggere il compagno; la pietra è la sua.
Come già si vede da questo breve cenno, "tolleranza" è la manifestazione piena dell'accettare l'altro così com'è,
il tataghata, il punto d'arrivo dei quindici passi. Le più grandi diversità pur restando tali sci sciolgono nel triplice
fraterno abbraccio, suggetto massimo dell'amore che regna fra chi ha raggiunto quel punto del cammino.
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La libera muratoria. Una occasione sprecata.
Sulla carta, sul piano dei propositi, del strutturazione dell'Opera, non vi è progetto migliore di quello
della Libera Muratoria. Unisce conoscenza, virtù, pratica della tolleranza, lavoro su se stessi,
da soli e in gruppo. Un modello di completezza, un capolavoro di esperienza.
Ma è nella concreta situazione della traduzione in atto di tanta potenza che il progetto si spegne:
sul piano dello studio, su quello della assiduità, su quello della devozione. Solo l'esercizio della tolleranza
sembra tenere più degli altri aspetti.
Epigoni di una grande tradizione ottocentesca che ha visti sommi scienziati, statisti, scrittori unire il loro nome
al progetto muratorio, gli scalpellini odierni mancano spesso di vocazione. Poco sappiamo, a dir il vero, della vocazione
alla costruzione di sé di Giorgio Washington o di Beniamino Franklin, di Charles Darwin o di Enrico Fermi,
di Mozart o di Newton, di Puccini e di Tolstoi. Può darsi che questi non abbiano dato alla causa nulla
di più del loro nome. A noi poco importa di loro. Se si include in questi scritti la muratoria è per il progetto
per lo più inattuato ma che pare essere uno dei pochi lavori su di sé ad aver tentato la via sociale
dell'Organizzazione statutaria. N, dato che è la solaoi qui ci limiteremo appunto alla sola tolleranza dato
che è l'unico aspetto che si dispiega come caratteristica realizzata su vasta scala e come aspetto rituale
ribattuto, richiesto con insistenza e controllato nella sua applicazione.
Guarda la tua pietra, ciò che fa l'altro non ti riguarda, il cammino è il suo. Devi tollerare persino il fatto
che lui sia intollerante. La sua intolleranza ti fa crescere.
Famoso ed esemplare fu l'episodio che coinvolse Gurdjieff. Vi era nel suo suo gruppo un allievo veramente intollerabile
che guastava il sereno lavoro dei compagni. La loro tolleranza nei suoi confronti si era esaurita. Questo fin che un
finalmente la pace, la serenità, la facilità dell'opera.
Ma questa facilità al maestro non andava bene. Non c'era più nessuno da tollerare. Così ando a trovare il disertore e gli offrì di pagarlo se fosse tornato.
La sua presenza era indispensabile perché i compagni potessero esercitare la tolleranza.
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Prefazione agli Scritti saapienziali
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Il lavoro solitario
Nome B2
Nome B3
Il lavoro solitario
Se, nell'immagine più volte proposta che abbiamo assunto come simbolo dell'Artifex, guardate l'artefice al lavoro che libera dal marmo
il suo corpo con mazza e scalpello nella solitudine della sua officina, vedrete che sono proprio le sue sole mani ad operare
su di lui. Egli è dunque solo, ma non è triste. Per questo non volge intorno sguardi d'implorazione.
Non chiede aiuto.
Sa che l'aiuto non ci sarà, perché semplicemente non può esserci. Sa che ciò che sta facendo aderisce alla giustezza del vivere.
E così, di buona lena e con il mantice (carducciano) che fa fiamma e festa, canta e batte sul ferro. Solo, senza maestri e senza allievi.
Ma la sua è una solitudine che unisce, non una solitudine che separa. La stessa operosità lo unisce ai tanti che lavorano
nella stessa gaia solitudine.
Non solo. C'è in lui come una perspicace coscienza ed è di questo che vorrei parlare.
Egli sente, con serena e chiara percezione, che questa solitudine è non solo ineludibile, ma anche armoniosa e bella.
Solitudine ineludibile.
Il mondo in sé, le cose in sé, forse esistono oggettivamente, ma, anche se esistono, la loro natura o essenza, o verità,
non ci è dato conoscerla.
Tale verità resta racchiusa nel mistero, nel buio intrinseco e profondo del mondo in sé. Nessuno quindi può parlare di essa
dicendo di conoscerla. E tuttavia noi una visione del mondo l'abbiamo! Non è forse essa conoscenza? non è essa verità?
Di cosa si tratta? Di conoscenza genuina oppure no? Sì, lo affermiamo. Si tratta di conoscenza genuina.
Si tratta però di una visione soggettiva. Importante ma soggettiva. Si tratta della conoscenza del solo mondo costruito
da ciascuno di noi, valido per ciascuno di noi. La conoscenza soggettiva è gnosi, la sola conoscenza di ogni dire iniziatico.
Ma noi costruiamo e conosciamo solo noi stessi. Il mondo che conosciamo e costruiamo è una nostra rappresentazione.
Ci sono tante rappresentazioni del mondo quanti sono gli individui, tutte ugualmente valide e ognuna di esse è buona.
Buona però solo per il suo portatore. Il mondo che ognuno di noi conosce un mondo soggettivo, assolutamente vero ma
assolutamente unico e che solo al suo portatore è dato conoscere.
Nessun uomo che dica, in verità e profondità, del suo mondo soggettivo può sbagliare! Nessun uomo può sbagliare quando
parla del suo mondo e della sua vita. Non può sbagliare perché spetta lui solo descrivere come essi siano. E nessun altro
può correggerlo perché è delirante pensare che un uomo possa sapere dell'altro. Solo il soggetto, che abbia raggiunto
la sua profondità, sa di se stesso.
Anche un altro uomo prenderà la parola e dirà forse tutto il contrario del primo; anche la sua sarà verità.
Come è possibile?
Semplice! I due hanno parlato di due mondi diversi. Così sono entrambi nel vero.
Per questo sono vane le domande che un uomo pone all'altro. Per questo sono fuori luogo le paure di non sapere abbastanza
o di sbagliare. Non so se sono bene informato, ma mi risulta che un neofita che pone domande al maestro, nel mondo Zen
vengano inflitte alcune bastonate. Se questo è vero, penso che l'istruzione potrebbe essere più amorevole, anche se forse
un maestro Zen la riterrebbe meno efficace.
Tu, neofita, ben hai meritato le bastonate. Tu che hai un inconscio così ricco di tesori e di rappresentazioni - gli si
potrebbe dire - come puoi chiedere ad un altro uomo di darteli? Ti fidi più di Buddha o di Lao Tsu che non di te stesso?
E pensare che non hai altro da fare che lasciarti fluire per esser tu stesso un Buddha!
Ricordati cosa è stato detto: "Se incontri il Buddha sulla tua strada uccidilo". Questo non significa che Buddha dica male.
Significa che non devi eleggerlo a maestro. Non devi eleggere nessuno a maestro.
Del resto Buddha non vuole insegnarti nulla, non vuole esserti maestro. Se vai da lui ti scaccia, ti dice di cercare oltre di lui.
E fa bene. Se così non facesse, se volesse esserti maestro meriterebbe di essere travolto dalle risate degli dei.
Tu sei l'unico maestro di te stesso e non devi volere alcun allievo all'infuori di te stesso.
Se poi qualcuno vuole esserti allievo, invitalo ad andarsene; invitalo ad arrendersi, ad aprire le mani e a lasciarsi scorrere;
invitalo ad aprirsi affinché il vento porti via la polvere che copre il suo tesoro nascosto.
Digli di chiudersi in una stanza senza porte e di uscire solo quando avrà capito che non c'è nulla al di fuori di lui.
Digli che solo quando avrà capito che non c'è niente da cercare fuori di sé potrà uscire dalla sua stanza di riflessione.
Digli che solo quando saprà che non ci sono domande, che i lavori sono finiti ancora prima di cominciare, che in realtà
non c'è nulla che debba essere fatto, che è già stato fatto tutto, allora sarà nato e potrà uscire e cominciare quell'opera
che è sua e solo sua.
Quando capirà che in lui la trasformazione è già avvenuta allora la trasformazione avverrà. Ecco la cosa paradossale e vera.
Quando capirà di essere già arrivato, allora potrà partire per un viaggio senza maestri e senza libri, dove sarà assolutamente solo.
Capire questo è il dono più grande del nostro io interiore. Nel successivo viaggio, quello che avviene fuori dalla cella,
"sapere" è sapere di sé soltanto.
Ognuno di noi è originale quanto lo sono Aurobindo e Krishnamurti; leggeteli pure se volete ma sappiate che essi parlano
solo di sé e non di voi.
Se i loro scritti parlassero di voi, essi cadrebbero in errore, perché di voi non sanno nulla.
Se volete sapere di loro leggete pure i loro libri; ne trarrete sicuro profitto. Saprete come sono loro. Ma se volete invece
sapere di voi leggete solo il vostro libro interiore. Quello è il solo luogo ove si parli di voi. Altri luoghi ove si dica di voi,
non esistono; In questo senso la vostra solitudine è inevitabile, necessaria, ineludibile.
Krishnamurti legge dentro di sé la sua antica sapienza e lasciandosene attraversare la disvela a se stesso. E nei suoi libri,
per quanto è possibile, la disvela anche a noi; ma la sapienza che si può dire non è vera Sapienza. Come dice il taoista,
la via che si può dire non è l'eterna via.
Perché allora egli scrive di sé? Perché, e in che senso, è maestro o è utile che egli sia tale?
Credo che sia utile perché egli, così facendo, ci consente di intravedere il suo attraversamento personale; e ci suggerisce
che anche per noi una via esiste, anche se lui non sa, né noi lo sappiamo, quale essa sia per ciascuno di noi. Credo che
la sua ricerca sia un gesto esemplare che egli ritiene di non tenere per sé, perché anche in noi possa nascere il desiderio
di attraversare noi stessi. L'illuminato deve tuttavia avvertire che gli parla solo di sé.
Non guardarti dunque attorno con occhi preoccupati dopo aver parlato e aver detto la tua verità; non temere il giudizio
di chi sta attorno. La luce non devi cercarlo attorno a te. Il tuo errore non è relativo al mondo; non puoi essere bocciato
da chi ti sta attorno.
Tu non sbagli mai quando parli del tuo mondo attuale. Quella che hai visto e hai provato ad esprimere è la fase attuale
della tua ricerca, è la tua verità di oggi.
Relativamente ad esso tu non sbagli mai, perché sei l'unico giudice delle tue parole e della tua verità.
L'evento del tuo dire non può essere che vero, così come ti attraversa in questo momento davanti a noi che ti ascoltiamo
e a te che lo ascolti nello stesso istante in cui noi lo ascoltiamo.
Tu e noi che ascoltiamo dobbiamo dire nel nostro cuore che questo è vero per colui che ha parlato. Nessuna verità più profonda
infatti poteva essere detta in questo momento su questa cosa.
Nessuno può disvelare la tua cosa; tocca a te solo disvelarla e questa è una grande responsabilità: la responsabilità di
essere maestro e scultore di te stesso.
Se non lo farai tu non potrà farlo nessun altro e per certi versi sarà come se tu non fossi mai esistito, perché nessuno
ti avrà dato la vita. Tu perché non lo hai voluto; gli altri perché non possono farlo.
Solitudine armoniosa
A volte capita di camminare a lungo paralleli ad un'altra persona, di risuonare a lungo di ugual armonia.
Poi la separazione.
Allora presi dallo sconforto diciamo: "è una parte di noi che ci abbandona".
la verità non è così; è solo una parte del nostro viaggio che finisce; una parte in cui forse abbiamo stretto troppo forte
la mano dell'altro perché avevamo paura.
Noi non possiamo capire che noi stessi, non possiamo viaggiare che il nostro viaggio. Non abbiamo altra via che la nostra;
se restiamo soli nel nostro viaggio è perché in verità lo siamo sempre stati; solo per paura abbiamo pensato che la mano
altrui ci sostenesse.
Non abbiamo capito che stavamo viaggiando con le nostre sole forze.
Nessuno può percorrere la strada di un altro o percorrere la propria sostenuto dalla mano dell'altro. Nessuno può percorrere
la strada di un altro se non in piccoli tratti: quelli in cui la strada dell'altro è anche la sua. Siamo armoniosamente,
liberamente soli.
Se anche vi fossero stati offerti aiuto, compagnia, risposte, non avreste saputo che farvene. Gibran direbbe che la conoscenza
altrui non poteva imprestare le sue ali alla vostra e che voi potevate essere portati dagli altri solo a ciò che già c'era
all'alba della vostra conoscenza.
Soli. E tuttavia non lontani dagli altri. A coloro che scelgono il sentiero meno frequentato capita poi una cosa bellissima:
veder camminare dopo un po' vicino a loro persone che hanno fatto la stessa scelta. Si sono tutti preparati in solitudine
allo stesso modo, godendo delle stesse cose, subendo le stesse ingiurie. Ciò li ha resi perfetti uno per l'altro.
Solitudine non è dunque mancanze di amore, dato e ricevuto, ma lavoro costante compiuto per accrescere la propria capacità
d'amare. Nel nostro solitario lavoro sentiamo vicino e lontano il fervore d
ell'opera altri
Non sempre l'altro si vede, ma si sa che c'è. Si impara che ci si può amare a distanza, che ci si può amare dopo che i cammini
si sono divisi, ci si può amare prima che i cammini si incontrino.
Si impara che ci si può continuare ad amare anche quando è la morte che ci separa oppure quando è la vita separarci.
Solitudine bella
L'anima filosofante è sola di fronte al mondo.
A ciò ella si arrende in quanto è necessario, ma pure di ciò si compiace in quanto la solitudine del contemplare ci apre
all'ascolto della possibilità concertante delle singole armonie.
Così nella vostra solitudine, costretti e liberi ad un tempo, vi incantate a volte davanti alla bellezza del creato.
Ma questa non è superiore alla vostra, altrimenti non potreste vederla. Noi possiamo vedere solo ciò che abbiamo già dentro.
Anche questo è conoscersi in solitudine.
Non puoi ammantare il mondo esterno di una bellezza che tu non possiedi, di una bellezza che non sia stata prima tua.
Solo chi è bello può vedere la bellezza, una bellezza simile alla sua, perché da lui prodotta.
C'è una bellezza del guardare che rende bella la cosa guardata. Nel contemplare quindi il mondo ricordatevi che state
contemplando anche voi stessi e il vostro guardare.
Dovete rendervi conto di questa vostra bellezza e del modo con cui la proiettate all'esterno. Credo che che sia di questo
"rendersi conto" che parla Dante nel Convivio laddove dice con parole inarrivabili che l'anima filosofante non solamente
contempla essa veritade, ma anche contempla lo suo contemplare medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sopra se stessa
e di se stessi innamorando per la bellezza del suo primo guardare".
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Prefazione agli Scritti sul sacro
L’Apprendista di fronte alla Gnosi e al suo cammino iniziatico resiste, recalcitra, chiede nutrimento all’altro,
chiede insegnamento. Resiste perché il percorso che porta alla Gnosi è faticoso. Gli viene insegnato (ecco il luminoso paradosso gnostico)
che non ci sarà insegnamento. Gli viene chiesto di fare proprio ciò che ancora non sa fare. Egli sta lì come un figlio,
aspettando di essere nutrito, passivo, come un peso morto. Occorre un modo particolare e arduo per convincerlo
ad alzarsi e camminare. Non possiamo fare nulla con lui se non ci adattiamo alle sue strutture. Ma la disciplina
iniziatica non ha il compito di adattarsi, bensì quello di trasformare; se si adatta all’apprendista lo lascia profano.
E proprio qui sta il problema. Occorre gratificarlo per non farlo fuggire; e non gratificarlo per farlo avanzare.
Se abbiamo fortuna, c’è una soluzione: esiste un desiderio dell’apprendista che può e deve esser gratificato,
quello di identificarsi con il proprio potenziale di crescita. Questa è una gratificazione che lo farà avanzare
anziché stare fermo.
Durante il Viaggio iniziatico avvengono tante liberazioni di energia legata a bisogni infantili; a partire da questa
liberazione si ha la formazione di energia libera, ossia di energia che prima era impegnata in ansie infantili e che
ora è divenuta libera e, come tale, disponibile per la creatività e la conoscenza di sé. Il viandante, l’iniziato,
conosce questi sollievi, queste trasformazioni. Egli non ha bisogno di credere. (Luciano Rossi)
Cosa intendiamo qui per gnosi? Intendiamo una esperienza personale del Sacro, un metodo
per raggiungere conoscenze che non ci possono pervenire leggendo libri, ma solo leggendo dentro di noi. È conoscenza
che nessun altro ci può dare. Tertium non datur. O si può conoscere in proprio, e allora avremo la Gnosi; o si può credere
nella conoscenza che altri ci rivelano, e allora avremo la fede. O conoscere (Gnosi) o credere (fede). O si è seguaci
dei profeti, e allora si crede; o si è mistici, e allora si conosce in proprio. Il profeta parla per conto di Dio e
non rivela una dottrina propria; il mistico raggiunge la conoscenza da solo, ma non può dare ad altri quel che ha
raggiunto perché è semplicemente impossibile. Si tratta di conoscenza altra, rispetto a quella del profeta. Chi ha
ricevuto parole, trasmette parole. Solo quel che è dell'intelletto si può trasmettere ad altri senza farlo loro provare;
quel che è dell'emozione non può essere conquistato, anche se a volte è conquistato per il tramite di una lunga e continua
presenza silenziosa dell’Altro di fronte a noi. Quel che si riceve è intelletto, quel che si prova è gnosi.(Roberta Rossi)
Per leggere gli interi articoli visita La gnosi, di Roberta Rossi
e anche La Gnosi, di Luciano Rossi
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Nome C1
Nome C2
Nome C3
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